REPUBBLICA ITALIANA 862/2003
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA
REGIONE CALABRIA
Composta dai seguenti Magistrati:
dott. Angelo Buscema Presidente
f.f. relatore
dott.ssa Rossella Scerbo Primo Referendario
dott. Domenico Guzzi Referendario
Ha pronunciato la seguente
DECISIONE
Nel giudizio di responsabilità
amministrativa iscritto al n.9540 del registro di Segreteria, promosso dal
Procuratore regionale nei confronti di SCULCO Antonio, VULCANO Mario e BASTA
Fedele, rappresentati e difesi dall'avvocato Valerio Zimatore del Foro di
Catanzaro con studio in via Buccarelli 49, STASI Raffaele, rappresentato e
difeso dall'avvocato Antonio GENTILE con domiciliazione in Catanzaro in via
Milelli 12 presso lo studio dell'avvocato Peppino MARIANO, SCIGLIANO Pina,
rappresentata e difesa dell'avvocato Nicodemo MAZZONE, del Foro di Crotone, con
studio in Cirò Marina via Fratelli Bandiera 3.
Uditi alla pubblica udienza del 14
luglio 2003 il relatore Consigliere dott. Angelo Buscema, l'avv. Valerio
Zimatore, l'avvocato Antonio Gentile, l'avvocato Nicodemo Mazzone ed il
Procuratore regionale dott. Nicola Leone.
Ritenuto in
FATTO
Con atto di citazione del 21 gennaio
2003 il Procuratore regionale presso questa Sezione ha chiamato in giudizio i
signori SCULCO Antonio, VULCANO Mario, STASI Raffaele, SCIGLIANO Pina e BASTA
Fedele, Sindaco ed amministratori del comune di Cirò, per ivi sentirsi
condannare al pagamento a favore dell'Erario dell'importo complessivo di €
730.571,18 ovvero nella misura diversa, maggiore o minore, che risulterà
addebitabile all'esito del giudizio ed ove necessario anche con determinazione
equitativa, ai sensi dell'art.1226 c.c., oltre accessori e gli eventuali danni
accertati. Per la ripartizione dell'addebito parte attrice chiede che la misura
maggiore sia posta a carico del Sindaco dott. Sculco, promotore
dell'iniziativa, e la parte restante ripartita in parti uguali tra gli altri
convenuti.
La Sezione, a seguito di istanza
depositata dalla Procura regionale l'8 agosto 2002, nella camera di consiglio
del 24 ottobre 2002 ha autorizzato con ordinanza n.012/2002 la proroga del
termine di 120 giorni decorrenti dalla scadenza di quello originario per
l'emanazione dell'atto di citazione.
L'atto di citazione trae origine da
una relazione della Commissione straordinaria amministratrice del comune di
Cirò, insediatasi a seguito dello scioglimento del consiglio comunale per
condizionamenti mafiosi, contenente una serie di ipotesi di “mala gestio” del
comune, addebitabili a fatti e scelte degli amministratori precedenti e
produttive di danni erariali.
La fattispecie oggetto dell'atto di
citazione si riferisce alla deliberazione di acquisto del Castello di Cirò,
immobile assolutamente fatiscente, al punto da creare pericolo per le cose e le
persone, situato nel centro abitato in posizione elevata.
Nella relazione redatta
dall'architetto Nicodemo Gagliardi del 1989, su committenza del comune di Cirò
al progetto di restauro e riattazione del Castello di Cirò sono contenute
alcune affermazioni sulle condizioni fatiscenti dell'immobile, puntualmente
riportate nell'atto di citazione.
Le stesse affermazioni sono
contenute nella relazione peritale commissionata con deliberazione di Giunta
municipale di Cirò dell'8 maggio 1998 dell'architetto Liana Terlizzi di Roma,
che anzi rileva un peggioramento rispetto al momento in cui venne effettuata la
relazione dell'architetto Gagliardi.
L'architetto Terlizzi stima il
prezzo unitario del Castello in lire 400.000/mq, tenendo conto dei prezzi
unitario al mq nell'ultimo biennio per l'acquisizione di immobili di edilizia
comune, con superficie, posizione e caratteristiche tipologiche del tutto ordinarie
rispetto al bene oggetto della stima, nonché dell'importanza storica e sociale
del manufatto.
Attribuendo tale prezzo al complesso
del manufatto, comprese le aree scoperte (2300 x 400.000) si ha un valore di
mercato dell'immobile di lire 920.000.000, all'interno del 5% di oscillazione
previsto nella materia di estimo, tra le lire 874.000.000 e le lire
966.000.000.
Parte attrice dissente dalla valutazione
in questione e fa riserva di una successiva perizia dell'immobile, ma tuttavia
prescinde dall'attendibilità della valutazione dell'immobile.
Il Consiglio comunale di Cirò con
deliberazione n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha approvato la predetta perizia.
In particolare, la delibera premette
che l'acquisizione del Castello era compresa nel programma delle opere
pubbliche per il triennio 1998- 2000, approva gli accordi preliminari con le
parti aventi diritto sul bene e procede all'acquisto del medesimo Castello,
impegnando la somma di lire 90.000.000 alla corresponsione dell'acconto
sull'acquisto previa immissione nel possesso, dando atto che la complessiva
somma relativa all'acquisto del Castello sul capitolo 2701/108 del bilancio in
corso di esercizio, “che presenta la voluta disponibilità”.
Quindi in data 11 settembre e 21
settembre 1998 con il dott. Mario Giglio, incaricato della trattativa con
delibera di Giunta municipale n.235/1997, e con gli eredi del signor Giglio,
proprietario del Castello, tre distinte scritture private che nel complesso
hanno previsto il prezzo di lire 900.000.000, di cui vengono corrisposte lire
90.000.000 a titolo di caparra penitenziale.
Con mandato del 1 dicembre 1998 era
erogato tale acconto di lire 90.000.000.
Con deliberazione n.115/99 del 15
giugno 1999 la Giunta municipale di Cirò ha assunto un mutuo con la Cassa
Depositi e Prestiti con quarantasei rate semestrali.
Nel mese di novembre 1999 veniva
erogato il mutuo dalla Cassa Depositi e Prestiti.
Seguiva lo scioglimento del
consiglio comunale per condizionamenti mafiosi.
La Commissione straordinaria con
atto n.13/2002, constatato che, nonostante la somma necessaria fosse stata
acquisita da oltre un anno, non si è proceduto alla conclusione del contratto
definitivo di compravendita, con conseguente mancato pagamento di quanto
pattuito, e constatato che a causa delle condizioni di incombente dissesto
finanziario, l'ente non è in grado di far fronte ad un ulteriore rilevante
spesa per un'operazione che non presenta apprezzabili profili di interesse o di
utilità, ha deliberato di revocare l'atto deliberativo n.55 del 19 dicembre
1997 del Consiglio comunale, nonché tutti gli atti deliberativi conseguenti.
Con atto del 29 luglio 2002 il
responsabile dell'Ufficio di ragioneria del comune di Cirò fa presente che
“nella cassa comunale non esiste disponibilità della somma incassata con mutuo
per l'acquisto del Castello in quanto predetta somma riportava in pareggio
l'anticipazione di cassa dell'ente”.
In particolare, l'incasso suddetto è
servito a pagare gli stipendi di novembre- dicembre e tredicesima mensilità,
nonché i vari contributi, interessi al tesoriere comunale, telefono, gasolio
per riscaldamento e tutto quant'altro serviva per il buon andamento e
funzionamento dell'ente.
Il comune di Cirò alla chiusura
dell'esercizio finanziario 1999 presentava un deficit di cassa di lire
453.178.476.
Lo stesso funzionario faceva
presente che, trattandosi di un piccolo comune, informava puntualmente
l'amministrazione degli incassi che pervenivano, anche perché si era sempre al
limite di esposizione di anticipazione.
Segue nell'atto di citazione una
dettagliata esposizione della precaria situazione economica e finanziaria del
predetto comune, alle soglie del dissesto finanziario.
In particolare, secondo l'atto di
citazione nel triennio 1996- 1998, mentre gli amministratori si lanciavano
nella campagna per l'acquisto del Castello, le entrate di competenza
diminuivano di due miliardi e quelle complessivi di due miliardi e quattrocento
milioni, e le entrate tributarie sono state riscosse per meno del 50%.
Prima dell'atto di citazione sono
stati emessi inviti a dedurre nei confronti dei signori SCULCO Antonio, BOCCUTO
Giuseppe, COLUCCI Carlo, PUGLIESE Carmine, STASI Raffaele, SCIGLIANO Pina,
MALENA Antonio, BASTA Fedele, CAVALLARO Giuseppe, SPATARO Luigi, VULCANO Mario
ed ESPOSITO Angelo.
Il signor Angelo Esposito ha
affermato di non avere potuto partecipare per ragioni professionali alle sedute
del consiglio comunale di Cirò, nel quale sedeva in rappresentanza della
minoranza.
Il signor Carlo Colucci deduce
l'infondatezza della pretesa attrice in quanto il mancato utilizzo delle somme
pervenute all'ente per le finalità istituzionali costituisce un illecito
allorquando sussiste una distrazione delle stesse e che nessuna responsabilità
può essere riferita alla condotta del semplice consigliere comunale che non ha
alcun potere di gestione ovvero direzionale.
Il signor Giuseppe Cavallaro mette
in evidenza di avere preso da tempo le distanze dalla maggioranza che
amministrava il comune di Cirò e di avere una conoscenza limitata della vicenda
relativa alla vendita del Castello. Sostiene, inoltre, di non essere stato
presente alle riunioni della Giunta municipale nelle quali sono state adottate
le delibere oggetto di contestazione.
La signora Pina Scigliano afferma la
propria estraneità ai fatti ipotizzati di danno erariale, facendo presente che
non rivestiva alcuna carica elettiva quando è stata assunta la deliberazione
n.252/96. Fa presente che quando è stata assunta la deliberazione di Giunta
n.253/97 si sono regolarizzate, nel rispetto della libera disponibilità della
proprietà privata, le condizioni di acquisto, modalità ed oneri reciproci delle
parti contrattuali.
Ricorda che il consiglio comunale ha
approvato il Programma Triennale delle Opere Pubbliche che prevedeva l'acquisto
e la ristrutturazione del Castello e che da parte dei funzionari degli Uffici
preposti non sia stata mossa nessuna osservazione in termini finanziari e di
fattibilità.
Afferma l'estraneità alla
deliberazione di giunta municipale n.92/98 dell'8 maggio 1998 relativa
all'incarico conferito all'architetto Terlizzi di valutare il manufatto.
Fa presente che le deliberazioni di
giunta n.155/98 del 7 agosto 1998, di approvazione della proposta contrattuale,
n.27/98 del 10 ottobre 1998, n.155/98 del 15 giugno 1999 sono state tutte
assunte con il parere favorevole dell'Ufficio di ragioneria.
Afferma che non può essere chiamata
come amministratore a rispondere della correttezza e dell'efficienza di uffici
e servizi nella gestione amministrativa, sulla base della nota distinzione
prevista nell'art.1 comma 1 ter della legge n.20 del 1994, come sostituito
dalla legge n.639 del 1996.
Comunica di aver rassegnato le
dimissioni dalla carica di assessore dal 2 dicembre 1999 fino alla data di
scioglimento del Consiglio comunale.
Il signor Antonio Sculco, Sindaco
del comune di Cirò, deduce l'infondatezza dell'azione di responsabilità in
quanto si verrebbe a verificare un'estensione del sindacato della Corte dei
conti su una scelta discrezionale dell'amministrazione attiva a seguito di un
regolare procedimento e di atti amministrativi, mai censurati e tanto meno
annullati in sede giurisdizionale.
Rileva come l'acquisto del Castello
fosse una delle promesse della campagna elettorale condivisa dalla collettività
e fa presente che se si consentisse un sindacato giurisdizionale di
responsabilità contabile in merito alla validità stessa della scelta la
democrazia rappresentativa sarebbe sostituita da una dittatura tecnocratica.
Nell'atto di citazione, in punto di
diritto, sostiene parte attrice che costituisce danno erariale la somma intera
assunta a mutuo per l'acquisto del Castello di Cirò e poi non utilizzata per
pagare il Castello stesso ai proprietari venditori o promettenti venditori.
Difatti, le scelte discrezionali
devono essere sorrette da razionalità oltre che dalla concreta possibilità di
attuazione. Nella fattispecie, il comune acquistava un bene ad un prezzo
eccessivo per un bene fatiscente senza avere chiara la prospettiva del suo
utilizzo ed i mezzi finanziari necessari per il riadattamento.
Richiama l'atto di citazione
l'art.46 del d.lgs n.504 del 1992 secondo il quale il,piano finanziario delle
opere pubbliche doveva essere integrato con un ulteriore piano economico-
finanziario diretto ad accertare l'equilibrio economico- finanziario
dell'investimento e della connessa gestione.
Costituisce danno anche la somma
versta a titolo di interessi sul mutuo alla Cassa Depositi e Prestiti, in
quanto è mancata la realizzazione dello scopo per cui il mutuo è stato assunto.
Costituisce danno erariale,secondo
parte attrice, la perdita della caparra, ancorché dovuta all'azione degli
amministratori straordinari del Comune che hanno revocato la delibera di
acquisto del Castello.
Fa presente che le entrate per mutui
sono a destinazione vincolata e non possono essere utilizzate per spese
correnti.
Il danno complessivo pari a lire
1.414.583.062, pari ad € 730.571.,18, è dato dalla somma di lire 900.000.000
del mutuo riscosso e non erogato per lo scopo per il quale è stato richiesto,
di lire 486.223.062 pari agli interessi da pagarsi e lire 18.360.000 pagate
all'architetto Terlizzi.
Del danno, secndo parte attrice,
devono rispondere il Sindaco ed i componenti della Giunta municipale i quali
hanno voluto l'acquisto del bene senza curarsi di tutte le successive
conseguenze, senza curarsi dell'andamento della finanza del comune di Cirò.
A seguito dell'atto di citazione si
è costituito il convenuto Raffaele Stasi, patrocinato e difeso dall'avvocato
Antonio Gentile, con memoria difensiva depositata il 12 giugno 2003 presso la
segreteria della Sezione.
Nella memoria si contesta il
fondamento della pretesa attrice facendo presente che l'acquisto del Castello
rientrava nel programma triennale per le opere pubbliche di cui alla delibera
consiliare n.02 del 4 gennaio 1996. Fa presente di essere cessato dalla carica
di assessore dal 30 aprile 1999.e quindi di non avere partecipato come
assessore alla delibera di giunta n.115/99 del 15 giugno 1999.
Conclude chiedendo di dichiarare
l'inammissibilità, l'improcedibilità della domanda attrice e nel merito la sua
infondatezza.
La convenuta Pina Scigliano si è
costituita in giudizio con il patrocinio dell'avvocato Nicodemo Mazzone del
Foro di Crotone il quale ha depositato in data 16 giugno 2003 una comparsa di
costituzione nella quale ribadisce l'estraneità alla realizzazione del presunto
danno oggetto di giudizio.Fa presente che non vi è nesso di causalità tra il
comportamento della convenuta e le azioni ed omissioni dei responsabili degli
uffici e servizi nella gestione amministrativa. La manchevolezza gestionale
sarebbe rinvenibile nella mancata
esecuzione del contratto di acquisto successivamente all'incasso delle somme
erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ribadisce che la convenuta è cessata
dall'incarico dal 2 dicembre 1999. Conclude chiedendo il rigetto della domanda
attrice.
I convenuti Antonio Sculco, Fedele
Basta e Mario Vulcano si sono costituiti in giudizio con il patrocinio
dell'avvocato Valerio Zimatore il quale ha depositato in data 16 giugno 2003
una memoria costitutiva con la quale chiede il proscioglimento dei convenuti,
ovvero in via subordinata l'esercizio del potere riduttivo del danno.
Eccepisce anzitutto che sarebbero
trascorsi dalla data dell'audizione del dott. Sculco (14 giugno 2002) i termini
per la proposizione dell'azione di responsabilità e che l'ordinanza di proroga
dei termini sarebbe avvenuta “inaudita altera parte” in assenza di motivazioni
valide ed oggettive. Rileva la mancata notifica dell'istanza di proroga dei
termini per l'emanazione dell'atto di citazione.
Eccepisce inoltre l'indeterminatezza
della domanda attrice e la sua tardività non essendo stata regolarmente
notificata e disposta la proroga dei termini.
Nel merito, rileva la mancanza del
presupposto dell'azione di responsabilità contabile in quanto non vi è
sindacabilità della Corte dei conti della scelta discrezionale
dell'amministrazione attiva assunta a seguito di un regolare procedimento e di
atti amministrativi non censurati e tanto meno annullati in sede
giurisdizionale. Richiama giurisprudenza della stessa Corte dei conti (Sezioni
Riunite 22 dicembre 1997 n.82 A, II Sez. 27 novembre 1997, 232 A e 27 maggio
1999 n.162 A) con la precisazione che una eventuale verifica giudiziale sul
corretto esercizio del potere discrezionale si giustifica solo in relazione a
gravi vizi degli atti amministrativi, quali la incompetenza assoluta, ovvero la
deviazione rispetto ai fini istituzionali dell'ente.
Nella fattispecie la decisione di
acquistare il Castello non può configurare una deviazione rispetto ai fini
istituzionali del comune ed è stata adottata dall'organo competente.
Si contesta il presupposto che le
somme erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti sarebbe stata utilizzata per fare
fronte a diverse esigenze di cassa dell'amministrazione, in quanto tale
presupposto avrebbe dovuto essere dimostrato con una attenta ricostruzione
delle movimentazioni contabili.
Se le somme fossero state destinate
a spese obbligatorie (pagamento stipendi, erogazione servizi essenziali) non
sarebbe concepibile una ipotesi di danno erariale bensì di irregolarità
contabile ed in questa ipotesi la responsabilità dovrebbe ricadere sul
funzionario di ragioneria che avrebbe dovuto osservare le norme di contabilità
e non consentire il prelievo di fondi dal conto capitale per l'effettuazione di
spese correnti.
Si osserva inoltre che il Ministero
per i beni culturali, oltre ad aver decretato la natura storico artistica del
Castello Caraffa, ha condiviso la scelta dell'amministrazione comunale di
acquistarlo ed aveva espresso parere favorevole al restauro ed alla riattazione,
preventivando un intervento che avrebbe comportato una spesa ben più onerosa di
quella realmente deliberata dal Consiglio comunale.
Sostiene la validità della perizia
in base alla quale l'amministrazione ha adottato la deliberazione di acquisto
per lire 900.000.000.
La scelta discrezionale è stata
ampiamente ponderata e discussa e supportata da motivazioni esplicitate in sede
deliberativa.
Successivamente alla deliberazione
di acquistare il Castello l'amministrazione ha adottato motivate deliberazioni consiliari
( 28 gennaio 1999 n.2; 6 maggio 1999 n.23) nelle quali si è tracciata una linea
di intervento finanziario e si è approvato lo statuto di una società per azioni
a capitale misto avente ad oggetto proprio il sostegno al detto programma
finanziario.
Non può essere censurata la scelta
di avvalersi di un professionista esterno.
Si sostiene, in via subordinata, che
il danno erariale dovrebbe essere limitato a lire 90.000.000, unica somma
concretamente spesa, mentre per la restante somma sarebbe necessaria un'altra
autonoma contestazione rivolta peraltro nei confronti di altri soggetti.
Alla pubblica udienza l'avvocato
Zimatore, per il convenuto Sculco, eccepisce che il prolungamento dei termini
per l'emanazione dell'atto di citazione non è indifferente per i potenziali
convenuti che andrebbero informati della richiesta dell'Ufficio di Procura
prima che la Sezione si pronunci. Per dimostrare l'interesse dei potenziali
convenuti al prolungamento o meno dei termini, fa l'esempio di un potenziale
convenuto che, in presenza della richiesta in tal senso dell'Ufficio di
Procura, dovesse spogliarsi del patrimonio, facendo venire meno la necessaria
garanzia a favore dell'Erario, compromettendo il possibile recupero del danno
asserito.
Rileva, inoltre, la palese contraddittorietà
nell'atto di citazione e l'insindacabilità delle scelte effettuate
dall'amministrazione comunale di utilizzazione delle somme erogate dalla Cassa
Depositi e Prestiti destinate all'acquisto del castello per fare fronte ad
esigenze di cassa non procrastinabili.
Fa presente che la perdita della
caparra, che potrebbe costituire un danno per il Comune, è conseguente ad una
scelta della successiva amministrazione straordinaria del comune che ha
annullato la delibera adottata dai precedenti amministratori, ma di essa
dovrebbe nel caso rispondere l'amministrazione straordinaria.
Conclude con la richiesta di
dichiarare l'infondatezza dell'atto di citazione nei termini riportati nella
memoria difensiva.
L'avvocato Gentile per il convenuto
Stasi si è riportato alla memoria defensionale ed insiste sul fatto che la
scelta dell'acquisto del castello di Cirò- legata ad una vecchia vicenda ormai
lontana nel tempo- non poteva costituire un fatto dannoso per il Comune, ma era
indirizzata ad uno sviluppo storico ed artistico della comunità locale.
Il Pubblico Ministero nella persona
del Procuratore regionale dott. Nicola Leone ha anzitutto respinto l'eccezione
presentata dalla difesa dello Sculco in ordine alla mancata notifica della
richiesta di proroga dei termini per l'emanazione dell'atto di citazione si
richiama alla giurisprudenza più recente della Corte dei conti, che ritiene per
tale richiesta non necessario garantire
il contraddittorio.
Ribadisce l'esaustività dell'atto di
citazione, precisando che non si contesta l'acquisto del castello in sé, bensì
il prezzo stabilito per l'acquisto sulla base di un procedimento pilotato, con
una perizia chiaramente addomesticata.
Afferma che per la famiglia Giglio
la vendita del castello, sul quale non pagavano da anni imposte, era un vero
affare in quanto consentiva di intervenire a spese del Comune per eliminare lo
stato di pericolo in cui versava il fatiscente castello.
Certamente, secondo il Procuratore
regionale, un castello fatiscente non poteva valere 900 milioni delle vecchie
lire
Sostiene che la clausola penale
prevista nella scrittura sottoscritta dal Comune era palesemente a favore degli
eredi della famiglia Giglio ed a scapito del medesimo Comune.
Ricorda che la vicenda del castello
di Cirò va analizzata nell'arco di un triennio nel quale il Comune versava in
una precaria situazione finanziaria e che per impostare correttamente
l'acquisto era necessario redigere un dettagliato e sostenibile piano
economico- finanziario da inserire nell'ambito delle opere da realizzare.
Rileva che mancavano progetti
specifici in ordine all'utilizzo del castello da parte del Comune.
Sostiene che i bilanci del Comune di
Cirò nel periodo considerato erano falsi in quanto non contenevano due miliardi
di lire di debiti fuori bilancio.
Censura la circostanza che la scelta
discrezionale sia stata effettuata senza avere a disposizione tutti gli
elementi necessari.
Osserva che secondo le risultanze
contabili dei bilanci del Comune le somme incassate con i mutui e destinate
all'acquisto del castello sono state portate in avanzo di amministrazione ed
utilizzate nei successivi esercizi per pagare in conto residui fatture
arretrate e spese per stipendi.
In tal modo è stato violato il
divieto normativamente previsto di utilizzare somme provenienti da mutui per il
pagamento di spese correnti.
Sostiene che gli amministratori
dovevano necessariamente essere a conoscenza della pesante situazione
finanziaria del Comune e dell'esistenza di notevoli debiti fuori bilancio.
Nella fattispecie osserva che vi
sono stati penetranti interferenze degli amministratori nella sfera degli
operatori, a discapito della separazione tra attività politica e quella
gestionale.
Rimarca che la cancellazione dei
residui attivi non è avvenuta ad opera dell'ufficio di ragioneria, bensì è
stata effettuata dalla Giunta comunale e che non è ammissibile che non si
riscuotano entrate proprie del Comune e nel contempo si persegua un incauto ed
oneroso acquisto di un castello.
Conclude chiedendo la condanna dei
convenuti nei termini riportati nell'atto di citazione.
Considerato in
DIRITTO
La Sezione deve preliminarmente farsi carico di
pronunciarsi in ordine all'inammissibilità della domanda per tardività della
proposizione dell'azione, non essendo stata notificata e disposta l'istanza
della Procura regionale di proroga dei termini, in quanto l'ordinanza di
proroga è stata disposta “inaudita altera parte”, in assenza di motivazioni
valide ed oggettive.
L'eccezione di rito non è meritevole
di accoglimento in quanto la proroga dei termini, avanzata dalla Procura regionale in data 8 agosto 2002, è
avvenuta con ordinanza n.012 del 24- 28 ottobre 2002 nel rispetto dei principi
che disciplinano il procedimento camerale di proroga alla luce dell'orientamento
consolidato della giurisprudenza di questa Corte.
Difatti, nel procedimento camerale
di proroga del termine di 120 giorni, previsto dalla legge n.639 del 1996 nel
giudizio contabile, non è prevista la sottoposizione alla garanzia del
contraddittorio, secondo quanto autorevolmente espresso dalle Sezioni Riunite
con la decisione n.27/QM del 7 dicembre 1999.
Secondo le Sezioni Riunite l'invito
a dedurre, atto conclusivo dell'istruttoria del Pubblico Ministero, ha natura
pre-processuale ma non assume le caratteristiche dell'atto giudiziale vero e
proprio e quindi il soggetto cui è rivolto tale invito non acquista la veste di
parte processuale in senso proprio e non è quindi destinatario della garanzia
del contraddittorio.
Si tratta di una fase per la quale
non è necessaria la notifica dell'istanza ai possibili convenuti rimanendo
nella disponibilità del medesimo Pubblico Ministero procedere all'atto di
citazione ovvero archiviare, entro 120 giorni dalla data di deposito
dell'ordinanza di proroga.
A conferma della natura di tale
invito a dedurre, si osserva che nella fattispecie il Pubblico Ministero aveva
presentato invito a dedurre ad una serie di soggetti, dei quali solo una parte
sono stati destinatari dell'atto di citazione in giudizio; difatti, l'attività
istruttoria del Pubblico Ministero, comprensiva delle dichiarazioni rese dai
soggetti auditi, ha portato a meglio orientare ed indirizzare la richiesta
conclusiva presentata a questa Sezione.
Alla luce di tale consolidata
giurisprudenza l'eccezione avanzata dalla difesa dello Sculco va pertanto
respinta.
Altra eccezione sollevata dalla
medesima difesa attiene alla presunta indeterminatezza della domanda attrice in
quanto non vi sarebbe alcuna indicazione delle percentuali da porre a carico di
ciascuno, ma solo una generica indicazione di una maggiore responsabilità del
Sindaco.
Tale eccezione va respinta in quanto
infondata.
Difatti, nella richiesta conclusiva
di condanna il Procuratore regionale indica l'importo complessivo da porre a
carico dei convenuti ed il criterio di ripartizione dell'addebito, in misura
maggiore a carico del Sindaco in quanto promotore dell'iniziativa in
contestazione ed in parti uguali tra i restanti convenuti, nella loro qualità
di assessori del Comune di Cirò.
La richiesta appare sufficientemente determinata, con
indicazione di criteri di ripartizione e relativa giustificazione, e lo stesso
riferimento alla eventuale determinazione equitativa ex art.1226 c.c. appare
pertinente in quanto può costituire ricorso alla valutazione equitativa del
danno che va comunque ancorata ad elementi certi ed evidenti nella loro
sussistenza, quali la posizione occupata dai convenuti e le funzioni da essi
svolte (Sindaco ed assessori).
Alla luce delle predette considerazioni l'eccezione
di indeterminatezza della domanda attrice va quindi respinta.
Nel merito la vicenda oggetto del
giudizio attiene all'acquisto di un bene immobile fatiscente da parte di un
Comune in precaria situazione finanziaria e in mancanza delle necessarie risorse
disponibili, con utilizzo delle risorse finanziarie provenienti da mutui a
sopperire ad altre spese correnti e con la perdita della caparra penitenziale a
favor dei promettenti venditori.
Le difese dei convenuti eccepiscono il principio
dell'insindacabilità delle scelte amministrative, richiamando consolidata
giurisprudenza contabile (fra tutte Corte dei conti, Sez. Riun. 22 dicembre
1997 n.82/A; Sez. II 27 novembre 1997 n.232/A e 27 maggio 1999 n.162/A), con la
precisazione che un'eventuale verifica giudiziale sul corretto esercizio del
potere discrezionale si giustifica solo in relazione a gravi vizi degli atti
amministrativi, quali l'incompetenza assoluta, ovvero la deviazione rispetto ai
fini istituzionali dell'ente.
Osservano le difese che nella fattispecie
la decisione di acquistare il castello non può configurare una deviazione
rispetto ai fini istituzionali del Comune ed è stata adottata da parte
dell'organo titolato del relativo potere.
Il principio dell'insindacabilità
delle scelte discrezionali è stato oggetto, nel tempo, di diverse pronunce
giurisdizionali della Suprema Corte di Cassazione e della Corte dei conti,
nonché di uno specifico intervento legislativo (art.3 della legge 20 dicembre
1996 n.639).
E' indubbio che nell'ambito del
settore pubblico costituisce esercizio di discrezionalità amministrativa la
possibilità di scelta dei modi e dei mezzi di perseguimento del pubblico
interesse e dei fini normativamente definiti.
Le Sezioni Unite Civili della
Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.33/01 del 29 gennaio 2001 hanno
affermato che “il discrimine tra sindacabilità ed insindacabilità delle opzioni
possibili nell'ambito dell'attività amministrativa è assai sottile ed, inoltre,
perché si tratta di contemperare due esigenze, ambedue meritevoli di tutela ma
talora divergenti, come l'esigenza di impedire e/o sanzionare la dissipazione
del pubblico denaro e la necessità di non ingessare l'iniziativa dei pubblici
amministratori in confini così angusti da paralizzare o, quanto meno,
gravemente condizionarne l'attività. Il principio generale ed astratto è che il
giudice contabile può e deve verificare la compatibilità delle scelte
amministrative con i fini pubblici dell'ente; ma una volta accertata tale
compatibilità, l'articolazione concreta e minuta dell'iniziativa intrapresa
dall'amministrazione rientra nell'ambito di quelle scelte discrezionali per le
quali il legislatore ha stabilito l'insindacabilità”.
La valutazione della compatibilità
delle scelte discrezionali con i fini istituzionali non può comunque
prescindere dai principi che sorreggono l'azione amministrativa, cioè
dell'economicità, efficienza e produttività, legislativamente previsti in
applicazione dell'articolo 97 della Costituzione, quali canoni di legittimità e
categorie dell'azione amministrativa.
I predetti canoni costituiscono
precisi e puntuali dettami che devono indurre gli amministratori a considerare
il denaro pubblico quale “frutto del lavoro del cittadino operoso” e che,
pertanto, deve essere gestito e riguardato con ogni rispetto e considerazione
morale. (Corte dei conti, Sez.II n.36/A del 16 novembre 1995).
Difatti, gli amministratori pubblici
sono tenuti all'osservanza di una efficiente gestione del pubblico denaro per
lo svolgimento delle attività previste dalla vigente normativa, in conseguenza
dell'indisponibilità dei diritti soggettivi di pertinenza della collettività,
quali erogatori dei fondi per il tramite del prelievo coattivo tributario.
Vi è quindi un obbligo in capo agli
amministratori di enti pubblici di una gestione efficiente ed oculata del
denaro proveniente coattivamente dai cittadini contribuenti e ciò in relazione
al conseguimento dei “fini istituzionali” previsti.
In altri termini, il conseguimento
dei “fini istituzionali” si connette alla compatibilità finanziaria dell'ente
medesimo, in quanto le risorse finanziarie, provenienti coattivamente dal
prelievo tributario, vanno destinate in modo razionale ed oculato per il
conseguimento degli obiettivi prefissati, senza alterare l'equilibrio
finanziario ed economico dell'ente.
La valutazione dell'economicità
dell'azione amministrativa viene valutata dal giudice contabile non con
riferimento a singoli atti, bensì nella globalità dei risultati conseguiti, con
riferimento alla constatazione del rispetto tra adeguatezza e congruità delle
risorse erogate rispetto al valore ed all'utilità effettivi dei beni o dei
risultati concretamente conseguiti.
In altri termini, l'esame del
giudice contabile attiene all'accertamento di eventuali costi spropositati per
la realizzazione di opere o per la gestione di pubblici servizi, con sprechi o
cattivi impieghi di risorse pubbliche, senza tuttavia sostituire le scelte del
giudice contabile a quelle operate dall'autorità amministrativa nell'esercizio
del potere discrezionale, con una ingiustificata confusione di ruoli.
Venendo ora ad applicare nella
fattispecie i predetti principi giurisprudenziali, occorre brevemente
riassumere la vicenda in questione.
La Giunta municipale di Cirò con deliberazione dell'8
maggio 1998 ha dato incarico all'architetto Liana Terlizzi di redigere una
perizia in ordine al castello di Cirò, di proprietà degli eredi Giglio.
Nella perizia viene attribuito al
manufatto il valore di 920 milioni delle vecchie lire.
Il Consiglio comunale di Cirò con
deliberazione n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha approvato la perizia, con
liquidazione della somma di lire 18.360.000 a fronte della fattura emessa dal
predetto architetto.
In tale delibera viene indicato che
l'acquisizione del Castello era compresa nel programma delle opere pubbliche
per il triennio 1998- 2000, anche se non sono state soddisfatte le condizioni
previste nell'art.14 della legge n.109 del 1994 per la loro inclusione in
quanto non sono stati avviati studi di fattibilità indicanti le caratteristiche
funzionali, tecniche, gestionali ed economico- finanziarie dei lavori connessi
alla predetta acquisizione, studi comprensivi delle eventuali componenti
storico- artistiche, architettoniche, paesaggistiche e nelle sue componenti di
sostenibilità ambientale, socio- economiche, amministrative e tecniche.
Non è stata neanche rispettata la
previsione di cui all'art.14, comma 9, della predetta legge n.109 del 1994
secondo la quale tale elenco annuale, predisposto dalle amministrazioni
aggiudicatici, deve essere approvato insieme al bilancio preventivo, di cui
costituisce parte integrante, e deve essere comprensivo dell'indicazione dei
mezzi finanziari stanziati in bilancio.
Inoltre, non è stato predisposto il
piano finanziario delle opere pubbliche, di cui all'art.46 del lgs n.504 del
1992, dovesse essere integrato con un ulteriore piano economico- finanziario
diretto ad accertare l'equilibrio economico- finanziario dell'investimento e
della connessa gestione.
Con la stessa deliberazione
consiliare sono approvati gli accordi preliminari con gli eredi Giglio
proprietari del Castello ed è stato deliberato l'acquisto del medesimo
manufatto, impegnando la somma di lire 90.000.000 come caparra penitenziale in
acconto sull'acquisto previa immissione nel possesso. L'importo di 90 milioni è
stato determinato in connessione con l'importo complessivo dell'acquisto,
previsto in 900 milioni di lire.
Nella stessa delibera viene dato
atto che la complessiva somma relativa all'acquisto del Castello (900 milioni
di lire) sul capitolo 2701/108 del bilancio in corso di esercizio, “che
presenta la voluta disponibilità”, e ad essa è allegato il parere favorevole
del responsabile dell'ufficio di ragioneria circa la copertura finanziaria..
In data 11 settembre e 21 settembre
1998 tra il dott. Mario Giglio, incaricato della trattativa con delibera di
Giunta municipale n.235/1997, e gli eredi del signor Giglio, proprietario del
Castello, tre distinte scritture private, con la previsione della
corresponsione di lire 90 milioni ai predetti eredi Giglio a titolo di caparra
penitenziale.
Con mandato del 1 dicembre 1998 tale
acconto di lire 90 milioni era erogato ai predetti soggetti.
Successivamente alla deliberazione
di acquisto del castello, all'impegno di lire 900 milioni sul bilancio di
previsione per l'esercizio 1998, alla stipula delle scritture private con gli
eredi Giglio, alla corresponsione dell'acconto di lire 90 milioni a titolo di
caparra penitenziale è stata assunta, con deliberazione n.115/99 del 15 giugno
1999, dalla Giunta municipale di Cirò un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti
con la previsione di quarantasei rate semestrali.
Nel mese di novembre 1999 le somme
previste nel mutuo sono state erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti al
Comune.
Non sono avvenuti fatti salienti in
ordine alla procedura di acquisto del castello fino alla scioglimento del
consiglio comunale di Cirò per condizionamenti mafiosi.
L'unico dato saliente è dato dalla
pesante situazione finanziaria del Comune con scarsa capacità riscossione delle
entrate e costante ricorso ad anticipazione di cassa.
La Commissione straordinaria,
subentrata a seguito dello scioglimento del Consiglio, con atto n.13/2002,
constatato che, nonostante la somma necessaria fosse stata acquisita da oltre
un anno, non si è proceduto alla conclusione del contratto definitivo di
compravendita, con conseguente mancato pagamento di quanto pattuito, e
constatato che a causa delle condizioni di incombente dissesto finanziario,
l'ente non è in grado di far fronte ad un ulteriore rilevante spesa per
un'operazione che non presenta apprezzabili profili di interesse o di utilità,
ha deliberato di revocare l'atto deliberativo n.55 del 19 dicembre 1997 del
Consiglio comunale, nonché tutti gli atti deliberativi conseguenti.
A seguito di tale revoca il Comune
di Cirò ha perduto la caparra penitenziale di 90 milioni di lire.
Con atto del 29 luglio 2002 il
responsabile dell'Ufficio di ragioneria del comune di Cirò fa presente che
“nella cassa comunale non esiste disponibilità della somma incassata con mutuo
per l'acquisto del Castello in quanto predetta somma riportava in pareggio
l'anticipazione di cassa dell'ente”. In particolare, l'incasso suddetto è
servito a pagare gli stipendi di novembre- dicembre e tredicesima mensilità,
nonché i vari contributi, interessi al tesoriere comunale, telefono, gasolio
per riscaldamento e tutto quant'altro serviva per il buon andamento e
funzionamento dell'ente.
Dalla ricostruzione dei fatti ora
effettuata risulta evidente che non è oggetto di discussione o di censura la
deliberazione del Comune di Cirò di acquistare il castello, acquisto che
rientrava tra i fini istituzionali e che era finanziabile con mutuo della Cassa
Depositi e Prestiti, ma l'intera procedura appare gestita con scarsa
razionalità e cautela, impreparazione e superficialità che hanno portato
all'impossibilità di attuazione ed in presenza di una pesante situazione
finanziaria, preludio di un successivo dissesto finanziario.
In estrema sintesi il Comune di Cirò ha deliberato
l'acquisto dell'immobile senza l'adozione della prevista progettualità, dei
necessari studi e dei piani di fattibilità previsti dalla vigente normativa in
materia di opere pubbliche e senza una sostanziale compatibilità finanziaria in
relazione alla situazione di squilibrio nella gestione che avrebbe portato nel
corso degli anni al dissesto finanziario.
L'acquisto è stato deliberato e la
caparra penitenziale è stata consegnata ai promettenti venditori prima della
concessione del mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti, cioè prima di
avere l'affidamento delle necessarie risorse finanziarie.
Successivamente, le somme incassate
a titolo di mutuo per l'acquisto sono state utilizzate per fare fronte a spese
correnti, mentre trattandosi di entrate a destinazione vincolata dovevano
essere destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento.
Dalla ricostruzione della vicenda
risulta evidente che il Comune di Cirò ha avviato le procedure per l'acquisito
del castello, sostenendo spese per caparra penitenziale in presenza di una
situazione finanziaria che rendeva quanto meno improbabile la conclusione
dell'acquisto, omettendo la prevista progettualità per il finanziamento e
distogliendo le somme incassate per fare fronte a debiti pregressi.
Così delineata la vicenda, risulta
evidente che nella fattispecie la contestazione nei confronti degli
amministratori del Comune di Cirò non si riferisce alla scelta discrezionale di
acquistare il castello bensì alle modalità con le quali è stata impostata e gestita
la procedura di acquisto, alla compatibilità finanziaria della spesa prevista
con la situazione in cui si è trovato a gestire in quel periodo il Comune
stesso, alla perdita della caparra penitenziale incautamente pagata, alla
violazione delle disposizioni in tema di utilizzo di entrate a destinazione
vincolata.
Non si verte quindi in tema di
valutazione di scelte discrezionali di merito degli amministratori ma di una
vicenda che nel suo complesso è stata connotata da violazioni in ordine alle
specifiche disposizioni riguardanti le procedure di gestione dell'acquisto, in
quanto non sono state soddisfatte le condizioni previste nell'art.14 della
legge n.109 del 1994 per l'inclusione nel programma delle opere pubbliche per
il triennio 1998- 2000, e non sono stati avviati studi di fattibilità indicanti
le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico- finanziarie
dei lavori connessi alla predetta acquisizione, studi comprensivi delle
eventuali componenti storico- artistiche, architettoniche, paesaggistiche e
nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio- economiche,
amministrative e tecniche.
Non è stata neanche rispettata la
previsione di cui all'art.14, comma 9, della predetta legge n.109 del 1994
secondo la quale tale elenco annuale, predisposto dalle amministrazioni
aggiudicatici, deve essere approvato insieme al bilancio preventivo, di cui
costituisce parte integrante, e deve essere comprensivo dell'indicazione dei
mezzi finanziari stanziati in bilancio.
Non è stato, infine, predisposto il
piano finanziario delle opere pubbliche, previsto dall'art.46 del lgs n.504 del
1992, integrato con l'ulteriore piano economico- finanziario diretto ad
accertare l'equilibrio economico- finanziario dell'investimento e della
connessa gestione.
Non è stata valutata dagli amministratori del Comune
di Cirò la compatibilità finanziaria della spesa complessiva rispetto alla
situazione di squilibrio nella gestione che avrebbe portato nel corso degli
anni al dissesto finanziario.
In proposito, nel verbale di audizione preliminare
del Sindaco Sculco è riportata l'affermazione della piena consapevolezza degli
amministratori delle difficoltà a pagare le spese correnti e gli stipendi.
La compatibilità finanziaria della spesa complessiva
con la situazione gestionale del Comune in questione non può significare una
preclusione rispetto all'esercizio del potere discrezionale degli
amministratori dell'ente locale, ma deve essere oggetto di una attenta
valutazione nel quadro delle priorità da perseguire rispetto ai rispettivi fini
istituzionali, nel senso di una necessaria modulazione delle esigenze
finanziabili nel corso dell'esercizio rispetto a quelle possibili.
Vi è stata una superficialità nella
gestione della caparra penitenziale che è stata consegnata ai promettenti
venditori prima della concessione del mutuo da parte della Cassa Depositi e
Prestiti, cioè prima di avere l'affidamento delle necessarie risorse
finanziarie.
Una volta acquisite tali risorse non
vi è stata alcuna iniziativa degli amministratori per dare concreta attuazione
all'acquisto del castello e in sede di approvazione dei successivi bilanci di
previsione e dei conti consuntivi del Comune non vi è stata alcuna osservazione
in ordine all'eventuale sbilancio tra entrate e spese, con conseguente ricorso
all'utilizzazione di anticipazioni di cassa.
Non vi è stata alcuna osservazione
degli amministratori in ordine all'utilizzazione delle somme incassate a titolo
di mutuo per l'acquisto del castello per fare fronte a spese correnti, mentre
trattandosi di entrate a destinazione vincolata dovevano essere destinate
esclusivamente al finanziamento di spese di investimento.
Venendo alla determinazione del
danno erariale, nell'atto di citazione si propongono tre richieste:
L'importo dell'intero mutuo concesso
e non utilizzato per lo scopo, pari a lire 900 milioni;
L'importo di lire 486.223.062 per
gli interessi pagati a favore della Cassa Depositi e Prestiti per l'utilizzo
dell'importo di lire 900 milioni a titolo di mutuo;
L'importo di lire 18.360.000 pagato
a favore dell'architetto Terlizzi per la perizia relativa alla valutazione del
Castello.
Va subito detto che per quanto
riguarda le somme pagate a favore dell'architetto Terlizzi per la sua
consulenza, non vi è contestazione specifica nell'atto di citazione in quanto
l'incarico è stato regolarmente assunto e comunque è stato espletato, a nulla
rilevando che il valore indicato nella perizia possa essere considerato o meno
affidabile; su tale punto il Procuratore regionale ha espresso riserva
nell'atto di citazione, che non è stato nel presente giudizio successivamente
sviluppato.
Tale richiesta non può quindi essere
accolta.
Per quanto riguarda la somma di lire
486.223.062, a titolo di interessi sulla somma di lire 900 milioni concessi
dalla Cassa Depositi e Prestiti a titolo di mutuo, nell'atto di citazione non
vi è contestazione circa la regolare assunzione del mutuo e non vi è alcuna
indicazione delle relative modalità di calcolo, e ciò in quanto avrebbe dovuto
essere dimostrato contabilmente l'utilizzo delle somme stesse, cioè da quando
le somme stesse sono state pagate.
Resta poi l'importo di lire 900
milioni pari all'intero mutuo concesso e non utilizzato per lo scopo per il
quale era stato richiesto, mentre non viene contestata agli amministratori la
perdita della caparra penitenziale in quanto dovuta all'azione degli amministratori
straordinari che hanno risolto il contratto producendo in via diretta ed
immediata la perdita della predetta caparra.
Tale impostazione appare
condivisibile in quanto l'amministrazione straordinaria, una volta constatato
che non erano più disponibili le somme incassate dalla Cassa Depositi e
Prestiti, non aveva altra possibilità, senza esporre il Comune a non
sostenibili oneri finanziari, che quella di sciogliere un contratto di acquisto
che non si aveva la concreta possibilità di portare a conclusione.
La difesa del Sindaco Sculco
eccepisce che la somma di lire 900 milioni è stata utilizzata per altri scopi,
probabilmente per pagare spese correnti, e che tale utilizzo andrebbe
dimostrato e verificato mediante una attenta ricostruzione delle movimentazioni
contabili.
Tale eccezione va respinta in quanto
tale dimostrazione non può incombere al Procuratore regionale, ma avrebbe
dovuto essere dimostrata dalla difesa; difatti, non vi sono dubbi che la somma
di lire 900 milioni è stata regolarmente incassata dal Comune e che quando
l'amministrazione straordinaria è subentrata, a seguito dello scioglimento del
Consiglio comunale, non le ha rinvenute in cassa.
Trattandosi di gestione di pubblico
denaro spetta agli amministratori la dimostrazione nei conti consuntivi,
regolarmente deliberati, del loro utilizzo, con l'inversione dell'onere
probatorio per responsabilità contabile.
Ricorrono nella fattispecie i due
elementi qualificanti di tale responsabilità, la natura pubblica dell'ente per
il quale gli amministratori agiscono e quella parimenti pubblica del denaro
oggetto della gestione (Corte di Cassazione, Sezioni Unite 28 marzo 1974).
In ogni caso è espressamente vietato
il pagamento di spese correnti con somme prese a mutuo, cioè non si possono
pagare spese correnti facendo ricorso all'indebitamento e tale divieto
costituisce uno dei punti salienti per la corretta gestione delle
amministrazioni locali; tale divieto, già presente nella normativa riguardante
l'ordinamento contabile degli enti locali (art.44 decreto legislativo n.77 del
1995) è stato anche recepito nell'art.119 novellato della Costituzione.
Non si può riconoscere l'utilità
delle spese effettuate con la distrazione di somme a destinazione vincolata in
quanto in tal modo verrebbero ad essere scardinati i principi cardine della
corretta gestione pubblica, che prevedono la netta separazione tra spese
correnti e quelle di investimento ed il divieto di indebitamento per
fronteggiare debiti di parte corrente, che sarebbe prelusivo di un dissesto finanziario
con negative conseguenze sulla collettività amministrata ed in disarmonia
rispetto al principio fondamentale del buon andamento di cui all'art.97 della
Costituzione.
Certamente, nell'utilizzo difforme
delle somme incassate a titolo di mutuo e nell'approvazione di bilanci nei
quali non vi era una chiara dimostrazione di tale difforme utilizzo ha
contribuito il comportamento del responsabile dell'Ufficio di ragioneria,
peraltro non chiamato in giudizio, ma di tale aspetto si tratterà di seguito in
sede di esame dell'apporto causale dei soggetti chiamati in giudizio.
Venendo ad esaminare la posizione
soggettiva dei soggetti chiamati in giudizio si possono delineare tre
situazioni:
Il Sindaco Sculco;
Gli assessori;
Il responsabile dell'Ufficio di
ragioneria.
Il Sindaco Sculco è stato il
promotore dell'iniziativa diretta all'acquisto del castello ed ha fatto
adottare la deliberazione della Giunta municipale di Cirò n.155/98 con la quale
si approvano le condizioni da proporre ai proprietari del castello, eredi
Giglio, per il componimento bonario avente ad oggetto l'acquisizione del
medesimo castello.
Soprattutto, il Sindaco Sculco in
sede di deliberazione del Consiglio comunale n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha
sostenuto l'acquisizione del castello anche di fronte a rimostranze sollevate
dai consiglieri in ordine alle modalità di finanziamento dell'iniziativa ed
alla convenienza della soluzione concretamente effettuata. Ha preannunciato che
sarebbe stato acceso un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti, ma che in ogni
caso “si provvederà con fondi di bilancio e senza comunque aggravio per i
cittadini” e che “la somma della caparra serve per acquisire l'immediata
disponibilità del bene: senza di essa difficilmente si possono ottenere
finanziamenti”. Ed infine ha affermato che “la sicurezza di questa nostra linea
ci proviene dal nostro impegno e dalla legge; sicurezza che si trasforma in
certezza che non si detrarranno risorse per il comune per quanto programmato”.
In tal modo il Sindaco Sculco ha
assicurato il Consiglio circa l'esistenza di sufficienti mezzi finanziari del
Comune per il sostegno dell'iniziativa, la mancanza di aggravi ulteriori nei
confronti dei cittadini, l'essenzialità di accettare una caparra penitenziale,
la “certezza” che le somme destinate all'acquisto del castello non sarebbero
state mai distratte per essere destinate a finalità diverse da quella prevista.
Le affermazioni del Sindaco Sculco
che hanno direttamente contribuito all'approvazione consiliare della perizia
giurata sul valore del castello e delle condizioni preliminari di compravendita
con componimento bonario con i proprietari, sono state smentite sul piano dei
fatti.
Difatti, il Comune era in una
situazione finanziaria precaria che avrebbe portato nel corso di breve tempo al
dissesto ed occorrevano molti e più cospicui fondi per gestire la ricostruzione
del castello per il quale occorreva la predisposizione di una più dettagliata
relazione e di un piano economico e finanziario, previsto dalla vigente
normativa in materia di opere pubbliche.
Inoltre, la caparra penitenziale
poteva essere perduta nell'ipotesi molto probabile, data la situazione
finanziaria del comune, di non poter proseguire nell'iniziativa; la consegna
della caparra penitenziale alla controparte non era condizione essenziale per
l'erogazione del mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti.
Circa la mancanza di aggravi
ulteriori nei confronti dei cittadini vi è stato il pagamento di interessi
passivi conseguenti al mutuo in questione, che hanno costituito un onere finanziario
a carico del bilancio del Comune.
Infine, è stata tradita la
“certezza” che le somme destinate all'acquisto del castello non sarebbero state
mai distratte per essere destinate a finalità diverse da quella prevista,
essendosi concretamente verificata la predetta distrazione di somme.
In definitiva, il Sindaco Sculco,
oltre ad essere il propulsore dell'iniziativa, ha indotto il Consiglio
comunale, con affermazioni non sostenute da un minimo di affidabilità, ad
accettare la proposta di deliberazione che avrebbe impegnato il Comune nei
confronti degli eredi Giglio alle condizioni preliminari di compravendita.
Va da ultimo sottolineato che il
medesimo Sindaco non si è fatto cura di verificare quale fosse la situazione
delle riscossioni e dei pagamenti effettuati dagli Uffici finanziari del
Comune.
La posizione degli assessori
chiamati in giudizio (Vulcano Mario, Basta Fedele, Stasi Raffaele e Scigliano
Pina) appare leggermente diversa da quella del Sindaco Sculco.
La Giunta municipale di Cirò con la
delibera n.155/98 ha approvato le condizioni contrattuali da proporre ai
proprietari del castello, eredi Giglio, per il componimento bonario avente ad
oggetto l'acquisizione del medesimo castello.
Tale delibera di per sé non poteva,
tuttavia, arrecare danno al Comune in quanto non impegnava all'esterno senza
l'approvazione consiliare ed in tale sede è stato determinante l'apporto del
Sindaco che ha fornito assicurazioni e garanzie accolte dai consiglieri
comunali. Nessuno degli assessori è intervenuto in sede consiliare, fatta
eccezione per l'assessore Stasi che si è limitato tuttavia ad indicare
l'esigenza della ricerca di idonee forme di finanziamento, non contribuendo in
modo essenziale e diretto al convincimento dei consiglieri comunali.
L'affermazione contenuta nell'atto
di citazione secondo la quale gli assessori conoscevano la precaria situazione
finanziaria del Comune non è sostenuta da elementi specifici e si basa su
presunzioni di conoscenza di per sé non sufficienti per l'affermazione di una
loro diretta responsabilità.
Diversa è invece la posizione del
Sindaco che in qualità di capo dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto
certamente conoscere la situazione finanziaria del Comune, anche nell'esercizio
dei poteri di controllo sull'operato degli Uffici finanziari.
Vi è infine la posizione del
responsabile dell'Ufficio finanziario del comune di Cirò, che non è stato
chiamato in giudizio da parte del Procuratore regionale.
Certamente, uno degli addebiti è
connesso all'utilizzo di fondi vincolati per fare fronte ad altre non indicate
finalità ed allora, trattandosi di profili gestionali, vi è il coinvolgimento
del servizio ragioneria.
Lo stesso coinvolgimento appare
evidente con riferimento al profili della compatibilità della scelta di
acquistare il castello con la situazione finanziaria del comune - che non
sembra florida dal 1996- e non si spiega come il responsabile del servizio
finanziario possa aver dato sulle deliberazioni in questione il parere favorevole
sulla copertura finanziaria, non soltanto con riferimento ai 90.000.000 di
caparra ma soprattutto ai 900.000.000 complessivi di spesa.
Infine, non si comprende come il
responsabile del servizio finanziario possa avere dato parere favorevole alle
proposte di bilancio di previsione che presentavano evidenti situazioni
contabili anomale, puntualmente riportate nell'atto di citazione, che rendevano
i bilanci stessi inaffidabili, venendo meno ad uno dei compiti essenziali del
Servizio finanziario, definita anche come “la sentinella a tutela dell'erario”.
Il coinvolgimento del responsabile
del servizio finanziario appare evidente dalle stesse affermazioni del Sindaco
Sculco in sede di audizione preliminare dinanzi al Procuratore regionale nel
quale si afferma che il medesimo responsabile “quando nel 1999, forse novembre
, arrivarono i soldi del mutuo assunto per l'acquisto del castello, disse:
possiamo pagare gli stipendi”.
E' evidente che tali comportamenti
del responsabile del Servizio finanziario, pur non escludendo la responsabilità
del Sindaco, servono a diminuire l'apporto causale rispetto al verificarsi del
danno, in quanto una parte dell'addebito, pari al 40%, sarebbe da porre a
carico del predetto soggetto, per il quale il Procuratore regionale non ha
ritenuto necessaria la chiamata in giudizio.
Risulta evidente il ruolo propulsore
del Sindaco titolare, nel nuovo come nel vecchio ordinamento delle autonomie
locali, di poteri di direzione, controllo ed impulso dell'apparato burocratico
(cfr. art.151 del T.U. n.148/1915 “sovrintende a tutti gli uffici ed istituti
comunali” ed art.36, comma 1, della legge n.142 del 1990 “sovrintende al
funzionamento dei servizi e degli uffici, nonché dell'esecuzione di atti”).
Nella fattispecie, in virtù di tali
poteri, esercitabili senza difficoltà in un apparato amministrativo di modeste
dimensioni quale quello del Comune di Cirò, il Sindaco Sculco sarebbe dovuto
intervenire per evitare il protrarsi per alcuni anni di una precaria situazione
finanziaria con l'erosione delle disponibilità di cassa e con la distrazione di
fondi vincolati.
E' evidente che l'attività
richiesta, nella fattispecie, era quella necessaria all'adozione di
provvedimenti ed all'avvio di iniziative diretti al ripristino della pesante
situazione debitoria, tanto più in presenza degli obblighi assunti con la
caparra penitenziale ai fini dell'acquisizione del castello.
Il Collegio giudica gravemente
colposa la condotta dello Sculco nella considerazione che, in presenza di una
precaria situazione finanziaria e di una inefficace attività di riscossione
delle entrate, non ha ritenuto di accertarsi di quanto accadeva e sollecitare
il responsabile del servizio finanziario per l'avvio delle necessarie
iniziative e, se necessario, avviare nei suoi confronti provvedimenti
disciplinari e/o sostitutivi.
In definitiva, questo Collegio,
nell'assolvere i convenuti Vulcano Mario, Basta Fedele, Stasi Raffaele e
Sicignano Pina per carenza del nesso di causalità nel verificarsi dell'evento,
condanna il signor Sculco Antonio determinando il danno da risarcire a favore
del Comune di Cirò nella misura di
Dalla data di pubblicazione della
presente sentenza e fino alla data del soddisfo sono altresì dovuti gli
interessi legali.
P.Q.M.
La Corte dei conti- Sezione
Giurisdizionale per la Calabria
Definitivamente pronunciando.
Assolve Vulcano Mario, Basta Fedele,
Stasi Raffaele e Sicignano Pina dalla domanda attrice;
Condanna Sculco Antonio al pagamento
in favore del Comune di Cirò della somma di 27.888,72 E.
- Condanna il medesimo convenuto Sculco al pagamento
degli interessi legali su tali somme dalla data della pubblicazione della
sentenza e fino al soddisfo.
Le spese di giudizio seguono la
soccombenza.E. * 1305,54 * milletrecentocinquanta/54
Così deciso nella Camera di
consiglio del 14 luglio 2003.
IL
PRESIDENTE F.F.RELATORE
f.to Angelo Buscema
depositato in segreteria il
23/10/2003
IL
DIRIGENTE
f.to dr. Maurizio Arlacchi