REPUBBLICA ITALIANA             862/2003

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE CALABRIA

Composta dai seguenti Magistrati:

dott. Angelo Buscema                                  Presidente f.f. relatore

dott.ssa Rossella Scerbo                              Primo Referendario

dott. Domenico Guzzi                                   Referendario

Ha pronunciato la seguente

DECISIONE

Nel giudizio di responsabilità amministrativa iscritto al n.9540 del registro di Segreteria, promosso dal Procuratore regionale nei confronti di SCULCO Antonio, VULCANO Mario e BASTA Fedele, rappresentati e difesi dall'avvocato Valerio Zimatore del Foro di Catanzaro con studio in via Buccarelli 49, STASI Raffaele, rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio GENTILE con domiciliazione in Catanzaro in via Milelli 12 presso lo studio dell'avvocato Peppino MARIANO, SCIGLIANO Pina, rappresentata e difesa dell'avvocato Nicodemo MAZZONE, del Foro di Crotone, con studio in Cirò Marina via Fratelli Bandiera 3.

Uditi alla pubblica udienza del 14 luglio 2003 il relatore Consigliere dott. Angelo Buscema, l'avv. Valerio Zimatore, l'avvocato Antonio Gentile, l'avvocato Nicodemo Mazzone ed il Procuratore regionale dott. Nicola Leone.

Ritenuto in

FATTO

Con atto di citazione del 21 gennaio 2003 il Procuratore regionale presso questa Sezione ha chiamato in giudizio i signori SCULCO Antonio, VULCANO Mario, STASI Raffaele, SCIGLIANO Pina e BASTA Fedele, Sindaco ed amministratori del comune di Cirò, per ivi sentirsi condannare al pagamento a favore dell'Erario dell'importo complessivo di € 730.571,18 ovvero nella misura diversa, maggiore o minore, che risulterà addebitabile all'esito del giudizio ed ove necessario anche con determinazione equitativa, ai sensi dell'art.1226 c.c., oltre accessori e gli eventuali danni accertati. Per la ripartizione dell'addebito parte attrice chiede che la misura maggiore sia posta a carico del Sindaco dott. Sculco, promotore dell'iniziativa, e la parte restante ripartita in parti uguali tra gli altri convenuti.

La Sezione, a seguito di istanza depositata dalla Procura regionale l'8 agosto 2002, nella camera di consiglio del 24 ottobre 2002 ha autorizzato con ordinanza n.012/2002 la proroga del termine di 120 giorni decorrenti dalla scadenza di quello originario per l'emanazione dell'atto di citazione.

L'atto di citazione trae origine da una relazione della Commissione straordinaria amministratrice del comune di Cirò, insediatasi a seguito dello scioglimento del consiglio comunale per condizionamenti mafiosi, contenente una serie di ipotesi di “mala gestio” del comune, addebitabili a fatti e scelte degli amministratori precedenti e produttive di danni erariali.

La fattispecie oggetto dell'atto di citazione si riferisce alla deliberazione di acquisto del Castello di Cirò, immobile assolutamente fatiscente, al punto da creare pericolo per le cose e le persone, situato nel centro abitato in posizione elevata.

Nella relazione redatta dall'architetto Nicodemo Gagliardi del 1989, su committenza del comune di Cirò al progetto di restauro e riattazione del Castello di Cirò sono contenute alcune affermazioni sulle condizioni fatiscenti dell'immobile, puntualmente riportate nell'atto di citazione.

Le stesse affermazioni sono contenute nella relazione peritale commissionata con deliberazione di Giunta municipale di Cirò dell'8 maggio 1998 dell'architetto Liana Terlizzi di Roma, che anzi rileva un peggioramento rispetto al momento in cui venne effettuata la relazione dell'architetto Gagliardi.

L'architetto Terlizzi stima il prezzo unitario del Castello in lire 400.000/mq, tenendo conto dei prezzi unitario al mq nell'ultimo biennio per l'acquisizione di immobili di edilizia comune, con superficie, posizione e caratteristiche tipologiche del tutto ordinarie rispetto al bene oggetto della stima, nonché dell'importanza storica e sociale del manufatto.

Attribuendo tale prezzo al complesso del manufatto, comprese le aree scoperte (2300 x 400.000) si ha un valore di mercato dell'immobile di lire 920.000.000, all'interno del 5% di oscillazione previsto nella materia di estimo, tra le lire 874.000.000 e le lire 966.000.000.

Parte attrice dissente dalla valutazione in questione e fa riserva di una successiva perizia dell'immobile, ma tuttavia prescinde dall'attendibilità della valutazione dell'immobile.

Il Consiglio comunale di Cirò con deliberazione n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha approvato la predetta perizia.

In particolare, la delibera premette che l'acquisizione del Castello era compresa nel programma delle opere pubbliche per il triennio 1998- 2000, approva gli accordi preliminari con le parti aventi diritto sul bene e procede all'acquisto del medesimo Castello, impegnando la somma di lire 90.000.000 alla corresponsione dell'acconto sull'acquisto previa immissione nel possesso, dando atto che la complessiva somma relativa all'acquisto del Castello sul capitolo 2701/108 del bilancio in corso di esercizio, “che presenta la voluta disponibilità”.

Quindi in data 11 settembre e 21 settembre 1998 con il dott. Mario Giglio, incaricato della trattativa con delibera di Giunta municipale n.235/1997, e con gli eredi del signor Giglio, proprietario del Castello, tre distinte scritture private che nel complesso hanno previsto il prezzo di lire 900.000.000, di cui vengono corrisposte lire 90.000.000 a titolo di caparra penitenziale.

Con mandato del 1 dicembre 1998 era erogato tale acconto di lire 90.000.000.

Con deliberazione n.115/99 del 15 giugno 1999 la Giunta municipale di Cirò ha assunto un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti con quarantasei rate semestrali.

Nel mese di novembre 1999 veniva erogato il mutuo dalla Cassa Depositi e Prestiti.

Seguiva lo scioglimento del consiglio comunale per condizionamenti mafiosi.

La Commissione straordinaria con atto n.13/2002, constatato che, nonostante la somma necessaria fosse stata acquisita da oltre un anno, non si è proceduto alla conclusione del contratto definitivo di compravendita, con conseguente mancato pagamento di quanto pattuito, e constatato che a causa delle condizioni di incombente dissesto finanziario, l'ente non è in grado di far fronte ad un ulteriore rilevante spesa per un'operazione che non presenta apprezzabili profili di interesse o di utilità, ha deliberato di revocare l'atto deliberativo n.55 del 19 dicembre 1997 del Consiglio comunale, nonché tutti gli atti deliberativi conseguenti.

Con atto del 29 luglio 2002 il responsabile dell'Ufficio di ragioneria del comune di Cirò fa presente che “nella cassa comunale non esiste disponibilità della somma incassata con mutuo per l'acquisto del Castello in quanto predetta somma riportava in pareggio l'anticipazione di cassa dell'ente”.

In particolare, l'incasso suddetto è servito a pagare gli stipendi di novembre- dicembre e tredicesima mensilità, nonché i vari contributi, interessi al tesoriere comunale, telefono, gasolio per riscaldamento e tutto quant'altro serviva per il buon andamento e funzionamento dell'ente.

Il comune di Cirò alla chiusura dell'esercizio finanziario 1999 presentava un deficit di cassa di lire 453.178.476.

Lo stesso funzionario faceva presente che, trattandosi di un piccolo comune, informava puntualmente l'amministrazione degli incassi che pervenivano, anche perché si era sempre al limite di esposizione di anticipazione.

Segue nell'atto di citazione una dettagliata esposizione della precaria situazione economica e finanziaria del predetto comune, alle soglie del dissesto finanziario.

In particolare, secondo l'atto di citazione nel triennio 1996- 1998, mentre gli amministratori si lanciavano nella campagna per l'acquisto del Castello, le entrate di competenza diminuivano di due miliardi e quelle complessivi di due miliardi e quattrocento milioni, e le entrate tributarie sono state riscosse per meno del 50%.

Prima dell'atto di citazione sono stati emessi inviti a dedurre nei confronti dei signori SCULCO Antonio, BOCCUTO Giuseppe, COLUCCI Carlo, PUGLIESE Carmine, STASI Raffaele, SCIGLIANO Pina, MALENA Antonio, BASTA Fedele, CAVALLARO Giuseppe, SPATARO Luigi, VULCANO Mario ed ESPOSITO Angelo.

Il signor Angelo Esposito ha affermato di non avere potuto partecipare per ragioni professionali alle sedute del consiglio comunale di Cirò, nel quale sedeva in rappresentanza della minoranza.

Il signor Carlo Colucci deduce l'infondatezza della pretesa attrice in quanto il mancato utilizzo delle somme pervenute all'ente per le finalità istituzionali costituisce un illecito allorquando sussiste una distrazione delle stesse e che nessuna responsabilità può essere riferita alla condotta del semplice consigliere comunale che non ha alcun potere di gestione ovvero direzionale.

Il signor Giuseppe Cavallaro mette in evidenza di avere preso da tempo le distanze dalla maggioranza che amministrava il comune di Cirò e di avere una conoscenza limitata della vicenda relativa alla vendita del Castello. Sostiene, inoltre, di non essere stato presente alle riunioni della Giunta municipale nelle quali sono state adottate le delibere oggetto di contestazione.

La signora Pina Scigliano afferma la propria estraneità ai fatti ipotizzati di danno erariale, facendo presente che non rivestiva alcuna carica elettiva quando è stata assunta la deliberazione n.252/96. Fa presente che quando è stata assunta la deliberazione di Giunta n.253/97 si sono regolarizzate, nel rispetto della libera disponibilità della proprietà privata, le condizioni di acquisto, modalità ed oneri reciproci delle parti contrattuali.

Ricorda che il consiglio comunale ha approvato il Programma Triennale delle Opere Pubbliche che prevedeva l'acquisto e la ristrutturazione del Castello e che da parte dei funzionari degli Uffici preposti non sia stata mossa nessuna osservazione in termini finanziari e di fattibilità.

Afferma l'estraneità alla deliberazione di giunta municipale n.92/98 dell'8 maggio 1998 relativa all'incarico conferito all'architetto Terlizzi di valutare il manufatto.

Fa presente che le deliberazioni di giunta n.155/98 del 7 agosto 1998, di approvazione della proposta contrattuale, n.27/98 del 10 ottobre 1998, n.155/98 del 15 giugno 1999 sono state tutte assunte con il parere favorevole dell'Ufficio di ragioneria.

Afferma che non può essere chiamata come amministratore a rispondere della correttezza e dell'efficienza di uffici e servizi nella gestione amministrativa, sulla base della nota distinzione prevista nell'art.1 comma 1 ter della legge n.20 del 1994, come sostituito dalla legge n.639 del 1996.

Comunica di aver rassegnato le dimissioni dalla carica di assessore dal 2 dicembre 1999 fino alla data di scioglimento del Consiglio comunale.

Il signor Antonio Sculco, Sindaco del comune di Cirò, deduce l'infondatezza dell'azione di responsabilità in quanto si verrebbe a verificare un'estensione del sindacato della Corte dei conti su una scelta discrezionale dell'amministrazione attiva a seguito di un regolare procedimento e di atti amministrativi, mai censurati e tanto meno annullati in sede giurisdizionale.

Rileva come l'acquisto del Castello fosse una delle promesse della campagna elettorale condivisa dalla collettività e fa presente che se si consentisse un sindacato giurisdizionale di responsabilità contabile in merito alla validità stessa della scelta la democrazia rappresentativa sarebbe sostituita da una dittatura tecnocratica.

Nell'atto di citazione, in punto di diritto, sostiene parte attrice che costituisce danno erariale la somma intera assunta a mutuo per l'acquisto del Castello di Cirò e poi non utilizzata per pagare il Castello stesso ai proprietari venditori o promettenti venditori.

Difatti, le scelte discrezionali devono essere sorrette da razionalità oltre che dalla concreta possibilità di attuazione. Nella fattispecie, il comune acquistava un bene ad un prezzo eccessivo per un bene fatiscente senza avere chiara la prospettiva del suo utilizzo ed i mezzi finanziari necessari per il riadattamento.

Richiama l'atto di citazione l'art.46 del d.lgs n.504 del 1992 secondo il quale il,piano finanziario delle opere pubbliche doveva essere integrato con un ulteriore piano economico- finanziario diretto ad accertare l'equilibrio economico- finanziario dell'investimento e della connessa gestione.

Costituisce danno anche la somma versta a titolo di interessi sul mutuo alla Cassa Depositi e Prestiti, in quanto è mancata la realizzazione dello scopo per cui il mutuo è stato assunto.

Costituisce danno erariale,secondo parte attrice, la perdita della caparra, ancorché dovuta all'azione degli amministratori straordinari del Comune che hanno revocato la delibera di acquisto del Castello.

Fa presente che le entrate per mutui sono a destinazione vincolata e non possono essere utilizzate per spese correnti.

Il danno complessivo pari a lire 1.414.583.062, pari ad € 730.571.,18, è dato dalla somma di lire 900.000.000 del mutuo riscosso e non erogato per lo scopo per il quale è stato richiesto, di lire 486.223.062 pari agli interessi da pagarsi e lire 18.360.000 pagate all'architetto Terlizzi.

Del danno, secndo parte attrice, devono rispondere il Sindaco ed i componenti della Giunta municipale i quali hanno voluto l'acquisto del bene senza curarsi di tutte le successive conseguenze, senza curarsi dell'andamento della finanza del comune di Cirò.

A seguito dell'atto di citazione si è costituito il convenuto Raffaele Stasi, patrocinato e difeso dall'avvocato Antonio Gentile, con memoria difensiva depositata il 12 giugno 2003 presso la segreteria della Sezione.

Nella memoria si contesta il fondamento della pretesa attrice facendo presente che l'acquisto del Castello rientrava nel programma triennale per le opere pubbliche di cui alla delibera consiliare n.02 del 4 gennaio 1996. Fa presente di essere cessato dalla carica di assessore dal 30 aprile 1999.e quindi di non avere partecipato come assessore alla delibera di giunta n.115/99 del 15 giugno 1999.

Conclude chiedendo di dichiarare l'inammissibilità, l'improcedibilità della domanda attrice e nel merito la sua infondatezza.

La convenuta Pina Scigliano si è costituita in giudizio con il patrocinio dell'avvocato Nicodemo Mazzone del Foro di Crotone il quale ha depositato in data 16 giugno 2003 una comparsa di costituzione nella quale ribadisce l'estraneità alla realizzazione del presunto danno oggetto di giudizio.Fa presente che non vi è nesso di causalità tra il comportamento della convenuta e le azioni ed omissioni dei responsabili degli uffici e servizi nella gestione amministrativa. La manchevolezza gestionale sarebbe rinvenibile nella  mancata esecuzione del contratto di acquisto successivamente all'incasso delle somme erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ribadisce che la convenuta è cessata dall'incarico dal 2 dicembre 1999. Conclude chiedendo il rigetto della domanda attrice.

I convenuti Antonio Sculco, Fedele Basta e Mario Vulcano si sono costituiti in giudizio con il patrocinio dell'avvocato Valerio Zimatore il quale ha depositato in data 16 giugno 2003 una memoria costitutiva con la quale chiede il proscioglimento dei convenuti, ovvero in via subordinata l'esercizio del potere riduttivo del danno.

Eccepisce anzitutto che sarebbero trascorsi dalla data dell'audizione del dott. Sculco (14 giugno 2002) i termini per la proposizione dell'azione di responsabilità e che l'ordinanza di proroga dei termini sarebbe avvenuta “inaudita altera parte” in assenza di motivazioni valide ed oggettive. Rileva la mancata notifica dell'istanza di proroga dei termini per l'emanazione dell'atto di citazione.

Eccepisce inoltre l'indeterminatezza della domanda attrice e la sua tardività non essendo stata regolarmente notificata e disposta la proroga dei termini.

Nel merito, rileva la mancanza del presupposto dell'azione di responsabilità contabile in quanto non vi è sindacabilità della Corte dei conti della scelta discrezionale dell'amministrazione attiva assunta a seguito di un regolare procedimento e di atti amministrativi non censurati e tanto meno annullati in sede giurisdizionale. Richiama giurisprudenza della stessa Corte dei conti (Sezioni Riunite 22 dicembre 1997 n.82 A, II Sez. 27 novembre 1997, 232 A e 27 maggio 1999 n.162 A) con la precisazione che una eventuale verifica giudiziale sul corretto esercizio del potere discrezionale si giustifica solo in relazione a gravi vizi degli atti amministrativi, quali la incompetenza assoluta, ovvero la deviazione rispetto ai fini istituzionali dell'ente.

Nella fattispecie la decisione di acquistare il Castello non può configurare una deviazione rispetto ai fini istituzionali del comune ed è stata adottata dall'organo competente.

Si contesta il presupposto che le somme erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti sarebbe stata utilizzata per fare fronte a diverse esigenze di cassa dell'amministrazione, in quanto tale presupposto avrebbe dovuto essere dimostrato con una attenta ricostruzione delle movimentazioni contabili.

Se le somme fossero state destinate a spese obbligatorie (pagamento stipendi, erogazione servizi essenziali) non sarebbe concepibile una ipotesi di danno erariale bensì di irregolarità contabile ed in questa ipotesi la responsabilità dovrebbe ricadere sul funzionario di ragioneria che avrebbe dovuto osservare le norme di contabilità e non consentire il prelievo di fondi dal conto capitale per l'effettuazione di spese correnti.

Si osserva inoltre che il Ministero per i beni culturali, oltre ad aver decretato la natura storico artistica del Castello Caraffa, ha condiviso la scelta dell'amministrazione comunale di acquistarlo ed aveva espresso parere favorevole al restauro ed alla riattazione, preventivando un intervento che avrebbe comportato una spesa ben più onerosa di quella realmente deliberata dal Consiglio comunale.

Sostiene la validità della perizia in base alla quale l'amministrazione ha adottato la deliberazione di acquisto per lire 900.000.000.

La scelta discrezionale è stata ampiamente ponderata e discussa e supportata da motivazioni esplicitate in sede deliberativa.

Successivamente alla deliberazione di acquistare il Castello l'amministrazione ha adottato motivate deliberazioni consiliari ( 28 gennaio 1999 n.2; 6 maggio 1999 n.23) nelle quali si è tracciata una linea di intervento finanziario e si è approvato lo statuto di una società per azioni a capitale misto avente ad oggetto proprio il sostegno al detto programma finanziario.

Non può essere censurata la scelta di avvalersi di un professionista esterno.

Si sostiene, in via subordinata, che il danno erariale dovrebbe essere limitato a lire 90.000.000, unica somma concretamente spesa, mentre per la restante somma sarebbe necessaria un'altra autonoma contestazione rivolta peraltro nei confronti di altri soggetti.

Alla pubblica udienza l'avvocato Zimatore, per il convenuto Sculco, eccepisce che il prolungamento dei termini per l'emanazione dell'atto di citazione non è indifferente per i potenziali convenuti che andrebbero informati della richiesta dell'Ufficio di Procura prima che la Sezione si pronunci. Per dimostrare l'interesse dei potenziali convenuti al prolungamento o meno dei termini, fa l'esempio di un potenziale convenuto che, in presenza della richiesta in tal senso dell'Ufficio di Procura, dovesse spogliarsi del patrimonio, facendo venire meno la necessaria garanzia a favore dell'Erario, compromettendo il possibile recupero del danno asserito.

Rileva, inoltre, la palese contraddittorietà nell'atto di citazione e l'insindacabilità delle scelte effettuate dall'amministrazione comunale di utilizzazione delle somme erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti destinate all'acquisto del castello per fare fronte ad esigenze di cassa non procrastinabili.

Fa presente che la perdita della caparra, che potrebbe costituire un danno per il Comune, è conseguente ad una scelta della successiva amministrazione straordinaria del comune che ha annullato la delibera adottata dai precedenti amministratori, ma di essa dovrebbe nel caso rispondere l'amministrazione straordinaria.

Conclude con la richiesta di dichiarare l'infondatezza dell'atto di citazione nei termini riportati nella memoria difensiva.

L'avvocato Gentile per il convenuto Stasi si è riportato alla memoria defensionale ed insiste sul fatto che la scelta dell'acquisto del castello di Cirò- legata ad una vecchia vicenda ormai lontana nel tempo- non poteva costituire un fatto dannoso per il Comune, ma era indirizzata ad uno sviluppo storico ed artistico della comunità locale.

Il Pubblico Ministero nella persona del Procuratore regionale dott. Nicola Leone ha anzitutto respinto l'eccezione presentata dalla difesa dello Sculco in ordine alla mancata notifica della richiesta di proroga dei termini per l'emanazione dell'atto di citazione si richiama alla giurisprudenza più recente della Corte dei conti, che ritiene per tale richiesta non necessario garantire  il contraddittorio.

Ribadisce l'esaustività dell'atto di citazione, precisando che non si contesta l'acquisto del castello in sé, bensì il prezzo stabilito per l'acquisto sulla base di un procedimento pilotato, con una perizia chiaramente addomesticata.

Afferma che per la famiglia Giglio la vendita del castello, sul quale non pagavano da anni imposte, era un vero affare in quanto consentiva di intervenire a spese del Comune per eliminare lo stato di pericolo in cui versava il fatiscente castello.

Certamente, secondo il Procuratore regionale, un castello fatiscente non poteva valere 900 milioni delle vecchie lire

Sostiene che la clausola penale prevista nella scrittura sottoscritta dal Comune era palesemente a favore degli eredi della famiglia Giglio ed a scapito del medesimo Comune.

Ricorda che la vicenda del castello di Cirò va analizzata nell'arco di un triennio nel quale il Comune versava in una precaria situazione finanziaria e che per impostare correttamente l'acquisto era necessario redigere un dettagliato e sostenibile piano economico- finanziario da inserire nell'ambito delle opere da realizzare.

Rileva che mancavano progetti specifici in ordine all'utilizzo del castello da parte del Comune.

Sostiene che i bilanci del Comune di Cirò nel periodo considerato erano falsi in quanto non contenevano due miliardi di lire di debiti fuori bilancio.

Censura la circostanza che la scelta discrezionale sia stata effettuata senza avere a disposizione tutti gli elementi necessari.

Osserva che secondo le risultanze contabili dei bilanci del Comune le somme incassate con i mutui e destinate all'acquisto del castello sono state portate in avanzo di amministrazione ed utilizzate nei successivi esercizi per pagare in conto residui fatture arretrate e spese per stipendi.

In tal modo è stato violato il divieto normativamente previsto di utilizzare somme provenienti da mutui per il pagamento di spese correnti.

Sostiene che gli amministratori dovevano necessariamente essere a conoscenza della pesante situazione finanziaria del Comune e dell'esistenza di notevoli debiti fuori bilancio.

Nella fattispecie osserva che vi sono stati penetranti interferenze degli amministratori nella sfera degli operatori, a discapito della separazione tra attività politica e quella gestionale.

Rimarca che la cancellazione dei residui attivi non è avvenuta ad opera dell'ufficio di ragioneria, bensì è stata effettuata dalla Giunta comunale e che non è ammissibile che non si riscuotano entrate proprie del Comune e nel contempo si persegua un incauto ed oneroso acquisto di un castello.

Conclude chiedendo la condanna dei convenuti nei termini riportati nell'atto di citazione.

Considerato in

DIRITTO

La Sezione deve preliminarmente farsi carico di pronunciarsi in ordine all'inammissibilità della domanda per tardività della proposizione dell'azione, non essendo stata notificata e disposta l'istanza della Procura regionale di proroga dei termini, in quanto l'ordinanza di proroga è stata disposta “inaudita altera parte”, in assenza di motivazioni valide ed oggettive.

L'eccezione di rito non è meritevole di accoglimento in quanto la proroga dei termini,  avanzata dalla Procura regionale in data 8 agosto 2002, è avvenuta con ordinanza n.012 del 24- 28 ottobre 2002 nel rispetto dei principi che disciplinano il procedimento camerale di proroga alla luce dell'orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte.

Difatti, nel procedimento camerale di proroga del termine di 120 giorni, previsto dalla legge n.639 del 1996 nel giudizio contabile, non è prevista la sottoposizione alla garanzia del contraddittorio, secondo quanto autorevolmente espresso dalle Sezioni Riunite con la decisione n.27/QM del 7 dicembre 1999.

Secondo le Sezioni Riunite l'invito a dedurre, atto conclusivo dell'istruttoria del Pubblico Ministero, ha natura pre-processuale ma non assume le caratteristiche dell'atto giudiziale vero e proprio e quindi il soggetto cui è rivolto tale invito non acquista la veste di parte processuale in senso proprio e non è quindi destinatario della garanzia del contraddittorio.

Si tratta di una fase per la quale non è necessaria la notifica dell'istanza ai possibili convenuti rimanendo nella disponibilità del medesimo Pubblico Ministero procedere all'atto di citazione ovvero archiviare, entro 120 giorni dalla data di deposito dell'ordinanza di proroga.

A conferma della natura di tale invito a dedurre, si osserva che nella fattispecie il Pubblico Ministero aveva presentato invito a dedurre ad una serie di soggetti, dei quali solo una parte sono stati destinatari dell'atto di citazione in giudizio; difatti, l'attività istruttoria del Pubblico Ministero, comprensiva delle dichiarazioni rese dai soggetti auditi, ha portato a meglio orientare ed indirizzare la richiesta conclusiva presentata a questa Sezione.

Alla luce di tale consolidata giurisprudenza l'eccezione avanzata dalla difesa dello Sculco va pertanto respinta.

Altra eccezione sollevata dalla medesima difesa attiene alla presunta indeterminatezza della domanda attrice in quanto non vi sarebbe alcuna indicazione delle percentuali da porre a carico di ciascuno, ma solo una generica indicazione di una maggiore responsabilità del Sindaco.

Tale eccezione va respinta in quanto infondata.

Difatti, nella richiesta conclusiva di condanna il Procuratore regionale indica l'importo complessivo da porre a carico dei convenuti ed il criterio di ripartizione dell'addebito, in misura maggiore a carico del Sindaco in quanto promotore dell'iniziativa in contestazione ed in parti uguali tra i restanti convenuti, nella loro qualità di assessori del Comune di Cirò.

La richiesta appare sufficientemente determinata, con indicazione di criteri di ripartizione e relativa giustificazione, e lo stesso riferimento alla eventuale determinazione equitativa ex art.1226 c.c. appare pertinente in quanto può costituire ricorso alla valutazione equitativa del danno che va comunque ancorata ad elementi certi ed evidenti nella loro sussistenza, quali la posizione occupata dai convenuti e le funzioni da essi svolte (Sindaco ed assessori).

Alla luce delle predette considerazioni l'eccezione di indeterminatezza della domanda attrice va quindi respinta.

Nel merito la vicenda oggetto del giudizio attiene all'acquisto di un bene immobile fatiscente da parte di un Comune in precaria situazione finanziaria e in mancanza delle necessarie risorse disponibili, con utilizzo delle risorse finanziarie provenienti da mutui a sopperire ad altre spese correnti e con la perdita della caparra penitenziale a favor dei promettenti venditori.

Le difese dei convenuti eccepiscono il principio dell'insindacabilità delle scelte amministrative, richiamando consolidata giurisprudenza contabile (fra tutte Corte dei conti, Sez. Riun. 22 dicembre 1997 n.82/A; Sez. II 27 novembre 1997 n.232/A e 27 maggio 1999 n.162/A), con la precisazione che un'eventuale verifica giudiziale sul corretto esercizio del potere discrezionale si giustifica solo in relazione a gravi vizi degli atti amministrativi, quali l'incompetenza assoluta, ovvero la deviazione rispetto ai fini istituzionali dell'ente.

Osservano le difese che nella fattispecie la decisione di acquistare il castello non può configurare una deviazione rispetto ai fini istituzionali del Comune ed è stata adottata da parte dell'organo titolato del relativo potere.

Il principio dell'insindacabilità delle scelte discrezionali è stato oggetto, nel tempo, di diverse pronunce giurisdizionali della Suprema Corte di Cassazione e della Corte dei conti, nonché di uno specifico intervento legislativo (art.3 della legge 20 dicembre 1996 n.639).

E' indubbio che nell'ambito del settore pubblico costituisce esercizio di discrezionalità amministrativa la possibilità di scelta dei modi e dei mezzi di perseguimento del pubblico interesse e dei fini normativamente definiti.

Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.33/01 del 29 gennaio 2001 hanno affermato che “il discrimine tra sindacabilità ed insindacabilità delle opzioni possibili nell'ambito dell'attività amministrativa è assai sottile ed, inoltre, perché si tratta di contemperare due esigenze, ambedue meritevoli di tutela ma talora divergenti, come l'esigenza di impedire e/o sanzionare la dissipazione del pubblico denaro e la necessità di non ingessare l'iniziativa dei pubblici amministratori in confini così angusti da paralizzare o, quanto meno, gravemente condizionarne l'attività. Il principio generale ed astratto è che il giudice contabile può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente; ma una volta accertata tale compatibilità, l'articolazione concreta e minuta dell'iniziativa intrapresa dall'amministrazione rientra nell'ambito di quelle scelte discrezionali per le quali il legislatore ha stabilito l'insindacabilità”.

La valutazione della compatibilità delle scelte discrezionali con i fini istituzionali non può comunque prescindere dai principi che sorreggono l'azione amministrativa, cioè dell'economicità, efficienza e produttività, legislativamente previsti in applicazione dell'articolo 97 della Costituzione, quali canoni di legittimità e categorie dell'azione amministrativa.

I predetti canoni costituiscono precisi e puntuali dettami che devono indurre gli amministratori a considerare il denaro pubblico quale “frutto del lavoro del cittadino operoso” e che, pertanto, deve essere gestito e riguardato con ogni rispetto e considerazione morale. (Corte dei conti, Sez.II n.36/A del 16 novembre 1995).

Difatti, gli amministratori pubblici sono tenuti all'osservanza di una efficiente gestione del pubblico denaro per lo svolgimento delle attività previste dalla vigente normativa, in conseguenza dell'indisponibilità dei diritti soggettivi di pertinenza della collettività, quali erogatori dei fondi per il tramite del prelievo coattivo tributario.

Vi è quindi un obbligo in capo agli amministratori di enti pubblici di una gestione efficiente ed oculata del denaro proveniente coattivamente dai cittadini contribuenti e ciò in relazione al conseguimento dei “fini istituzionali” previsti.

In altri termini, il conseguimento dei “fini istituzionali” si connette alla compatibilità finanziaria dell'ente medesimo, in quanto le risorse finanziarie, provenienti coattivamente dal prelievo tributario, vanno destinate in modo razionale ed oculato per il conseguimento degli obiettivi prefissati, senza alterare l'equilibrio finanziario ed economico dell'ente.

La valutazione dell'economicità dell'azione amministrativa viene valutata dal giudice contabile non con riferimento a singoli atti, bensì nella globalità dei risultati conseguiti, con riferimento alla constatazione del rispetto tra adeguatezza e congruità delle risorse erogate rispetto al valore ed all'utilità effettivi dei beni o dei risultati concretamente conseguiti.

In altri termini, l'esame del giudice contabile attiene all'accertamento di eventuali costi spropositati per la realizzazione di opere o per la gestione di pubblici servizi, con sprechi o cattivi impieghi di risorse pubbliche, senza tuttavia sostituire le scelte del giudice contabile a quelle operate dall'autorità amministrativa nell'esercizio del potere discrezionale, con una ingiustificata confusione di ruoli.

Venendo ora ad applicare nella fattispecie i predetti principi giurisprudenziali, occorre brevemente riassumere la vicenda in questione.

La Giunta municipale di Cirò con deliberazione dell'8 maggio 1998 ha dato incarico all'architetto Liana Terlizzi di redigere una perizia in ordine al castello di Cirò, di proprietà degli eredi Giglio.

Nella perizia viene attribuito al manufatto il valore di 920 milioni delle vecchie lire.

Il Consiglio comunale di Cirò con deliberazione n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha approvato la perizia, con liquidazione della somma di lire 18.360.000 a fronte della fattura emessa dal predetto architetto.

In tale delibera viene indicato che l'acquisizione del Castello era compresa nel programma delle opere pubbliche per il triennio 1998- 2000, anche se non sono state soddisfatte le condizioni previste nell'art.14 della legge n.109 del 1994 per la loro inclusione in quanto non sono stati avviati studi di fattibilità indicanti le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico- finanziarie dei lavori connessi alla predetta acquisizione, studi comprensivi delle eventuali componenti storico- artistiche, architettoniche, paesaggistiche e nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio- economiche, amministrative e tecniche.

Non è stata neanche rispettata la previsione di cui all'art.14, comma 9, della predetta legge n.109 del 1994 secondo la quale tale elenco annuale, predisposto dalle amministrazioni aggiudicatici, deve essere approvato insieme al bilancio preventivo, di cui costituisce parte integrante, e deve essere comprensivo dell'indicazione dei mezzi finanziari stanziati in bilancio.

Inoltre, non è stato predisposto il piano finanziario delle opere pubbliche, di cui all'art.46 del lgs n.504 del 1992, dovesse essere integrato con un ulteriore piano economico- finanziario diretto ad accertare l'equilibrio economico- finanziario dell'investimento e della connessa gestione.

Con la stessa deliberazione consiliare sono approvati gli accordi preliminari con gli eredi Giglio proprietari del Castello ed è stato deliberato l'acquisto del medesimo manufatto, impegnando la somma di lire 90.000.000 come caparra penitenziale in acconto sull'acquisto previa immissione nel possesso. L'importo di 90 milioni è stato determinato in connessione con l'importo complessivo dell'acquisto, previsto in 900 milioni di lire.

 

Nella stessa delibera viene dato atto che la complessiva somma relativa all'acquisto del Castello (900 milioni di lire) sul capitolo 2701/108 del bilancio in corso di esercizio, “che presenta la voluta disponibilità”, e ad essa è allegato il parere favorevole del responsabile dell'ufficio di ragioneria circa la copertura finanziaria..

In data 11 settembre e 21 settembre 1998 tra il dott. Mario Giglio, incaricato della trattativa con delibera di Giunta municipale n.235/1997, e gli eredi del signor Giglio, proprietario del Castello, tre distinte scritture private, con la previsione della corresponsione di lire 90 milioni ai predetti eredi Giglio a titolo di caparra penitenziale.

Con mandato del 1 dicembre 1998 tale acconto di lire 90 milioni era erogato ai predetti soggetti.

Successivamente alla deliberazione di acquisto del castello, all'impegno di lire 900 milioni sul bilancio di previsione per l'esercizio 1998, alla stipula delle scritture private con gli eredi Giglio, alla corresponsione dell'acconto di lire 90 milioni a titolo di caparra penitenziale è stata assunta, con deliberazione n.115/99 del 15 giugno 1999, dalla Giunta municipale di Cirò un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti con la previsione di quarantasei rate semestrali.

Nel mese di novembre 1999 le somme previste nel mutuo sono state erogate dalla Cassa Depositi e Prestiti al Comune.

Non sono avvenuti fatti salienti in ordine alla procedura di acquisto del castello fino alla scioglimento del consiglio comunale di Cirò per condizionamenti mafiosi.

L'unico dato saliente è dato dalla pesante situazione finanziaria del Comune con scarsa capacità riscossione delle entrate e costante ricorso ad anticipazione di cassa.

La Commissione straordinaria, subentrata a seguito dello scioglimento del Consiglio, con atto n.13/2002, constatato che, nonostante la somma necessaria fosse stata acquisita da oltre un anno, non si è proceduto alla conclusione del contratto definitivo di compravendita, con conseguente mancato pagamento di quanto pattuito, e constatato che a causa delle condizioni di incombente dissesto finanziario, l'ente non è in grado di far fronte ad un ulteriore rilevante spesa per un'operazione che non presenta apprezzabili profili di interesse o di utilità, ha deliberato di revocare l'atto deliberativo n.55 del 19 dicembre 1997 del Consiglio comunale, nonché tutti gli atti deliberativi conseguenti.

A seguito di tale revoca il Comune di Cirò ha perduto la caparra penitenziale di 90 milioni di lire.

Con atto del 29 luglio 2002 il responsabile dell'Ufficio di ragioneria del comune di Cirò fa presente che “nella cassa comunale non esiste disponibilità della somma incassata con mutuo per l'acquisto del Castello in quanto predetta somma riportava in pareggio l'anticipazione di cassa dell'ente”. In particolare, l'incasso suddetto è servito a pagare gli stipendi di novembre- dicembre e tredicesima mensilità, nonché i vari contributi, interessi al tesoriere comunale, telefono, gasolio per riscaldamento e tutto quant'altro serviva per il buon andamento e funzionamento dell'ente.

Dalla ricostruzione dei fatti ora effettuata risulta evidente che non è oggetto di discussione o di censura la deliberazione del Comune di Cirò di acquistare il castello, acquisto che rientrava tra i fini istituzionali e che era finanziabile con mutuo della Cassa Depositi e Prestiti, ma l'intera procedura appare gestita con scarsa razionalità e cautela, impreparazione e superficialità che hanno portato all'impossibilità di attuazione ed in presenza di una pesante situazione finanziaria, preludio di un successivo dissesto finanziario.

In estrema sintesi il Comune di Cirò ha deliberato l'acquisto dell'immobile senza l'adozione della prevista progettualità, dei necessari studi e dei piani di fattibilità previsti dalla vigente normativa in materia di opere pubbliche e senza una sostanziale compatibilità finanziaria in relazione alla situazione di squilibrio nella gestione che avrebbe portato nel corso degli anni al dissesto finanziario.

L'acquisto è stato deliberato e la caparra penitenziale è stata consegnata ai promettenti venditori prima della concessione del mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti, cioè prima di avere l'affidamento delle necessarie risorse finanziarie.

Successivamente, le somme incassate a titolo di mutuo per l'acquisto sono state utilizzate per fare fronte a spese correnti, mentre trattandosi di entrate a destinazione vincolata dovevano essere destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento.

Dalla ricostruzione della vicenda risulta evidente che il Comune di Cirò ha avviato le procedure per l'acquisito del castello, sostenendo spese per caparra penitenziale in presenza di una situazione finanziaria che rendeva quanto meno improbabile la conclusione dell'acquisto, omettendo la prevista progettualità per il finanziamento e distogliendo le somme incassate per fare fronte a debiti pregressi.

Così delineata la vicenda, risulta evidente che nella fattispecie la contestazione nei confronti degli amministratori del Comune di Cirò non si riferisce alla scelta discrezionale di acquistare il castello bensì alle modalità con le quali è stata impostata e gestita la procedura di acquisto, alla compatibilità finanziaria della spesa prevista con la situazione in cui si è trovato a gestire in quel periodo il Comune stesso, alla perdita della caparra penitenziale incautamente pagata, alla violazione delle disposizioni in tema di utilizzo di entrate a destinazione vincolata.

Non si verte quindi in tema di valutazione di scelte discrezionali di merito degli amministratori ma di una vicenda che nel suo complesso è stata connotata da violazioni in ordine alle specifiche disposizioni riguardanti le procedure di gestione dell'acquisto, in quanto non sono state soddisfatte le condizioni previste nell'art.14 della legge n.109 del 1994 per l'inclusione nel programma delle opere pubbliche per il triennio 1998- 2000, e non sono stati avviati studi di fattibilità indicanti le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico- finanziarie dei lavori connessi alla predetta acquisizione, studi comprensivi delle eventuali componenti storico- artistiche, architettoniche, paesaggistiche e nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio- economiche, amministrative e tecniche.

Non è stata neanche rispettata la previsione di cui all'art.14, comma 9, della predetta legge n.109 del 1994 secondo la quale tale elenco annuale, predisposto dalle amministrazioni aggiudicatici, deve essere approvato insieme al bilancio preventivo, di cui costituisce parte integrante, e deve essere comprensivo dell'indicazione dei mezzi finanziari stanziati in bilancio.

Non è stato, infine, predisposto il piano finanziario delle opere pubbliche, previsto dall'art.46 del lgs n.504 del 1992, integrato con l'ulteriore piano economico- finanziario diretto ad accertare l'equilibrio economico- finanziario dell'investimento e della connessa gestione.

Non è stata valutata dagli amministratori del Comune di Cirò la compatibilità finanziaria della spesa complessiva rispetto alla situazione di squilibrio nella gestione che avrebbe portato nel corso degli anni al dissesto finanziario.

In proposito, nel verbale di audizione preliminare del Sindaco Sculco è riportata l'affermazione della piena consapevolezza degli amministratori delle difficoltà a pagare le spese correnti e gli stipendi.

La compatibilità finanziaria della spesa complessiva con la situazione gestionale del Comune in questione non può significare una preclusione rispetto all'esercizio del potere discrezionale degli amministratori dell'ente locale, ma deve essere oggetto di una attenta valutazione nel quadro delle priorità da perseguire rispetto ai rispettivi fini istituzionali, nel senso di una necessaria modulazione delle esigenze finanziabili nel corso dell'esercizio rispetto a quelle possibili.

Vi è stata una superficialità nella gestione della caparra penitenziale che è stata consegnata ai promettenti venditori prima della concessione del mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti, cioè prima di avere l'affidamento delle necessarie risorse finanziarie.

Una volta acquisite tali risorse non vi è stata alcuna iniziativa degli amministratori per dare concreta attuazione all'acquisto del castello e in sede di approvazione dei successivi bilanci di previsione e dei conti consuntivi del Comune non vi è stata alcuna osservazione in ordine all'eventuale sbilancio tra entrate e spese, con conseguente ricorso all'utilizzazione di anticipazioni di cassa.

Non vi è stata alcuna osservazione degli amministratori in ordine all'utilizzazione delle somme incassate a titolo di mutuo per l'acquisto del castello per fare fronte a spese correnti, mentre trattandosi di entrate a destinazione vincolata dovevano essere destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento.

Venendo alla determinazione del danno erariale, nell'atto di citazione si propongono tre richieste:

L'importo dell'intero mutuo concesso e non utilizzato per lo scopo, pari a lire 900 milioni;

L'importo di lire 486.223.062 per gli interessi pagati a favore della Cassa Depositi e Prestiti per l'utilizzo dell'importo di lire 900 milioni a titolo di mutuo;

L'importo di lire 18.360.000 pagato a favore dell'architetto Terlizzi per la perizia relativa alla valutazione del Castello.

Va subito detto che per quanto riguarda le somme pagate a favore dell'architetto Terlizzi per la sua consulenza, non vi è contestazione specifica nell'atto di citazione in quanto l'incarico è stato regolarmente assunto e comunque è stato espletato, a nulla rilevando che il valore indicato nella perizia possa essere considerato o meno affidabile; su tale punto il Procuratore regionale ha espresso riserva nell'atto di citazione, che non è stato nel presente giudizio successivamente sviluppato.

Tale richiesta non può quindi essere accolta.

Per quanto riguarda la somma di lire 486.223.062, a titolo di interessi sulla somma di lire 900 milioni concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti a titolo di mutuo, nell'atto di citazione non vi è contestazione circa la regolare assunzione del mutuo e non vi è alcuna indicazione delle relative modalità di calcolo, e ciò in quanto avrebbe dovuto essere dimostrato contabilmente l'utilizzo delle somme stesse, cioè da quando le somme stesse sono state pagate.

Resta poi l'importo di lire 900 milioni pari all'intero mutuo concesso e non utilizzato per lo scopo per il quale era stato richiesto, mentre non viene contestata agli amministratori la perdita della caparra penitenziale in quanto dovuta all'azione degli amministratori straordinari che hanno risolto il contratto producendo in via diretta ed immediata la perdita della predetta caparra.

Tale impostazione appare condivisibile in quanto l'amministrazione straordinaria, una volta constatato che non erano più disponibili le somme incassate dalla Cassa Depositi e Prestiti, non aveva altra possibilità, senza esporre il Comune a non sostenibili oneri finanziari, che quella di sciogliere un contratto di acquisto che non si aveva la concreta possibilità di portare a conclusione.

La difesa del Sindaco Sculco eccepisce che la somma di lire 900 milioni è stata utilizzata per altri scopi, probabilmente per pagare spese correnti, e che tale utilizzo andrebbe dimostrato e verificato mediante una attenta ricostruzione delle movimentazioni contabili.

Tale eccezione va respinta in quanto tale dimostrazione non può incombere al Procuratore regionale, ma avrebbe dovuto essere dimostrata dalla difesa; difatti, non vi sono dubbi che la somma di lire 900 milioni è stata regolarmente incassata dal Comune e che quando l'amministrazione straordinaria è subentrata, a seguito dello scioglimento del Consiglio comunale, non le ha rinvenute in cassa.

Trattandosi di gestione di pubblico denaro spetta agli amministratori la dimostrazione nei conti consuntivi, regolarmente deliberati, del loro utilizzo, con l'inversione dell'onere probatorio per responsabilità contabile.

Ricorrono nella fattispecie i due elementi qualificanti di tale responsabilità, la natura pubblica dell'ente per il quale gli amministratori agiscono e quella parimenti pubblica del denaro oggetto della gestione (Corte di Cassazione, Sezioni Unite 28 marzo 1974).

In ogni caso è espressamente vietato il pagamento di spese correnti con somme prese a mutuo, cioè non si possono pagare spese correnti facendo ricorso all'indebitamento e tale divieto costituisce uno dei punti salienti per la corretta gestione delle amministrazioni locali; tale divieto, già presente nella normativa riguardante l'ordinamento contabile degli enti locali (art.44 decreto legislativo n.77 del 1995) è stato anche recepito nell'art.119 novellato della Costituzione.

Non si può riconoscere l'utilità delle spese effettuate con la distrazione di somme a destinazione vincolata in quanto in tal modo verrebbero ad essere scardinati i principi cardine della corretta gestione pubblica, che prevedono la netta separazione tra spese correnti e quelle di investimento ed il divieto di indebitamento per fronteggiare debiti di parte corrente, che sarebbe prelusivo di un dissesto finanziario con negative conseguenze sulla collettività amministrata ed in disarmonia rispetto al principio fondamentale del buon andamento di cui all'art.97 della Costituzione.

Certamente, nell'utilizzo difforme delle somme incassate a titolo di mutuo e nell'approvazione di bilanci nei quali non vi era una chiara dimostrazione di tale difforme utilizzo ha contribuito il comportamento del responsabile dell'Ufficio di ragioneria, peraltro non chiamato in giudizio, ma di tale aspetto si tratterà di seguito in sede di esame dell'apporto causale dei soggetti chiamati in giudizio.

Venendo ad esaminare la posizione soggettiva dei soggetti chiamati in giudizio si possono delineare tre situazioni:

Il Sindaco Sculco;

Gli assessori;

Il responsabile dell'Ufficio di ragioneria.

Il Sindaco Sculco è stato il promotore dell'iniziativa diretta all'acquisto del castello ed ha fatto adottare la deliberazione della Giunta municipale di Cirò n.155/98 con la quale si approvano le condizioni da proporre ai proprietari del castello, eredi Giglio, per il componimento bonario avente ad oggetto l'acquisizione del medesimo castello.

Soprattutto, il Sindaco Sculco in sede di deliberazione del Consiglio comunale n.27/98 del 10 ottobre 1998 ha sostenuto l'acquisizione del castello anche di fronte a rimostranze sollevate dai consiglieri in ordine alle modalità di finanziamento dell'iniziativa ed alla convenienza della soluzione concretamente effettuata. Ha preannunciato che sarebbe stato acceso un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti, ma che in ogni caso “si provvederà con fondi di bilancio e senza comunque aggravio per i cittadini” e che “la somma della caparra serve per acquisire l'immediata disponibilità del bene: senza di essa difficilmente si possono ottenere finanziamenti”. Ed infine ha affermato che “la sicurezza di questa nostra linea ci proviene dal nostro impegno e dalla legge; sicurezza che si trasforma in certezza che non si detrarranno risorse per il comune per quanto programmato”.

In tal modo il Sindaco Sculco ha assicurato il Consiglio circa l'esistenza di sufficienti mezzi finanziari del Comune per il sostegno dell'iniziativa, la mancanza di aggravi ulteriori nei confronti dei cittadini, l'essenzialità di accettare una caparra penitenziale, la “certezza” che le somme destinate all'acquisto del castello non sarebbero state mai distratte per essere destinate a finalità diverse da quella prevista.

Le affermazioni del Sindaco Sculco che hanno direttamente contribuito all'approvazione consiliare della perizia giurata sul valore del castello e delle condizioni preliminari di compravendita con componimento bonario con i proprietari, sono state smentite sul piano dei fatti.

Difatti, il Comune era in una situazione finanziaria precaria che avrebbe portato nel corso di breve tempo al dissesto ed occorrevano molti e più cospicui fondi per gestire la ricostruzione del castello per il quale occorreva la predisposizione di una più dettagliata relazione e di un piano economico e finanziario, previsto dalla vigente normativa in materia di opere pubbliche.

Inoltre, la caparra penitenziale poteva essere perduta nell'ipotesi molto probabile, data la situazione finanziaria del comune, di non poter proseguire nell'iniziativa; la consegna della caparra penitenziale alla controparte non era condizione essenziale per l'erogazione del mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti.

Circa la mancanza di aggravi ulteriori nei confronti dei cittadini vi è stato il pagamento di interessi passivi conseguenti al mutuo in questione, che hanno costituito un onere finanziario a carico del bilancio del Comune.

Infine, è stata tradita la “certezza” che le somme destinate all'acquisto del castello non sarebbero state mai distratte per essere destinate a finalità diverse da quella prevista, essendosi concretamente verificata la predetta distrazione di somme.

In definitiva, il Sindaco Sculco, oltre ad essere il propulsore dell'iniziativa, ha indotto il Consiglio comunale, con affermazioni non sostenute da un minimo di affidabilità, ad accettare la proposta di deliberazione che avrebbe impegnato il Comune nei confronti degli eredi Giglio alle condizioni preliminari di compravendita.

Va da ultimo sottolineato che il medesimo Sindaco non si è fatto cura di verificare quale fosse la situazione delle riscossioni e dei pagamenti effettuati dagli Uffici finanziari del Comune.

La posizione degli assessori chiamati in giudizio (Vulcano Mario, Basta Fedele, Stasi Raffaele e Scigliano Pina) appare leggermente diversa da quella del Sindaco Sculco.

La Giunta municipale di Cirò con la delibera n.155/98 ha approvato le condizioni contrattuali da proporre ai proprietari del castello, eredi Giglio, per il componimento bonario avente ad oggetto l'acquisizione del medesimo castello.

Tale delibera di per sé non poteva, tuttavia, arrecare danno al Comune in quanto non impegnava all'esterno senza l'approvazione consiliare ed in tale sede è stato determinante l'apporto del Sindaco che ha fornito assicurazioni e garanzie accolte dai consiglieri comunali. Nessuno degli assessori è intervenuto in sede consiliare, fatta eccezione per l'assessore Stasi che si è limitato tuttavia ad indicare l'esigenza della ricerca di idonee forme di finanziamento, non contribuendo in modo essenziale e diretto al convincimento dei consiglieri comunali.

L'affermazione contenuta nell'atto di citazione secondo la quale gli assessori conoscevano la precaria situazione finanziaria del Comune non è sostenuta da elementi specifici e si basa su presunzioni di conoscenza di per sé non sufficienti per l'affermazione di una loro diretta responsabilità.

Diversa è invece la posizione del Sindaco che in qualità di capo dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto certamente conoscere la situazione finanziaria del Comune, anche nell'esercizio dei poteri di controllo sull'operato degli Uffici finanziari.

Vi è infine la posizione del responsabile dell'Ufficio finanziario del comune di Cirò, che non è stato chiamato in giudizio da parte del Procuratore regionale.

Certamente, uno degli addebiti è connesso all'utilizzo di fondi vincolati per fare fronte ad altre non indicate finalità ed allora, trattandosi di profili gestionali, vi è il coinvolgimento del servizio ragioneria.

Lo stesso coinvolgimento appare evidente con riferimento al profili della compatibilità della scelta di acquistare il castello con la situazione finanziaria del comune - che non sembra florida dal 1996- e non si spiega come il responsabile del servizio finanziario possa aver dato sulle deliberazioni in questione il parere favorevole sulla copertura finanziaria, non soltanto con riferimento ai 90.000.000 di caparra ma soprattutto ai 900.000.000 complessivi di spesa.

Infine, non si comprende come il responsabile del servizio finanziario possa avere dato parere favorevole alle proposte di bilancio di previsione che presentavano evidenti situazioni contabili anomale, puntualmente riportate nell'atto di citazione, che rendevano i bilanci stessi inaffidabili, venendo meno ad uno dei compiti essenziali del Servizio finanziario, definita anche come “la sentinella a tutela dell'erario”.

Il coinvolgimento del responsabile del servizio finanziario appare evidente dalle stesse affermazioni del Sindaco Sculco in sede di audizione preliminare dinanzi al Procuratore regionale nel quale si afferma che il medesimo responsabile “quando nel 1999, forse novembre , arrivarono i soldi del mutuo assunto per l'acquisto del castello, disse: possiamo pagare gli stipendi”.

E' evidente che tali comportamenti del responsabile del Servizio finanziario, pur non escludendo la responsabilità del Sindaco, servono a diminuire l'apporto causale rispetto al verificarsi del danno, in quanto una parte dell'addebito, pari al 40%, sarebbe da porre a carico del predetto soggetto, per il quale il Procuratore regionale non ha ritenuto necessaria la chiamata in giudizio.

Risulta evidente il ruolo propulsore del Sindaco titolare, nel nuovo come nel vecchio ordinamento delle autonomie locali, di poteri di direzione, controllo ed impulso dell'apparato burocratico (cfr. art.151 del T.U. n.148/1915 “sovrintende a tutti gli uffici ed istituti comunali” ed art.36, comma 1, della legge n.142 del 1990 “sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici, nonché dell'esecuzione di atti”).

Nella fattispecie, in virtù di tali poteri, esercitabili senza difficoltà in un apparato amministrativo di modeste dimensioni quale quello del Comune di Cirò, il Sindaco Sculco sarebbe dovuto intervenire per evitare il protrarsi per alcuni anni di una precaria situazione finanziaria con l'erosione delle disponibilità di cassa e con la distrazione di fondi vincolati.

E' evidente che l'attività richiesta, nella fattispecie, era quella necessaria all'adozione di provvedimenti ed all'avvio di iniziative diretti al ripristino della pesante situazione debitoria, tanto più in presenza degli obblighi assunti con la caparra penitenziale ai fini dell'acquisizione del castello.

Il Collegio giudica gravemente colposa la condotta dello Sculco nella considerazione che, in presenza di una precaria situazione finanziaria e di una inefficace attività di riscossione delle entrate, non ha ritenuto di accertarsi di quanto accadeva e sollecitare il responsabile del servizio finanziario per l'avvio delle necessarie iniziative e, se necessario, avviare nei suoi confronti provvedimenti disciplinari e/o sostitutivi.

In definitiva, questo Collegio, nell'assolvere i convenuti Vulcano Mario, Basta Fedele, Stasi Raffaele e Sicignano Pina per carenza del nesso di causalità nel verificarsi dell'evento, condanna il signor Sculco Antonio determinando il danno da risarcire a favore del Comune di Cirò nella misura di

Dalla data di pubblicazione della presente sentenza e fino alla data del soddisfo sono altresì dovuti gli interessi legali.

P.Q.M.

La Corte dei conti- Sezione Giurisdizionale per la Calabria

Definitivamente pronunciando.

Assolve Vulcano Mario, Basta Fedele, Stasi Raffaele e Sicignano Pina dalla domanda attrice;

Condanna Sculco Antonio al pagamento in favore del Comune di Cirò della somma di 27.888,72 E.

- Condanna il medesimo convenuto Sculco al pagamento degli interessi legali su tali somme dalla data della pubblicazione della sentenza e fino al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza.E. * 1305,54 * milletrecentocinquanta/54

Così deciso nella Camera di consiglio del 14 luglio 2003.

 

                                               IL PRESIDENTE F.F.RELATORE

f.to Angelo Buscema                      

depositato in segreteria il 23/10/2003

                                               IL DIRIGENTE

                                              f.to dr. Maurizio Arlacchi