222/2004A

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE D'APPELLO,

composta dai magistrati:

DOTT. TULLIO SIMONETTI                                  PRESIDENTE

DOTT. NICOLA MASTROPASQUA                     CONSIGLIERE REL.

DOTT. MARIA TERESA ARGANELLI                 CONSIGLIERE

DOTT. ROCCO DI PASSIO                                    CONSIGLIERE

DOTT. PIERA MAGGI                                            CONSIGLIERE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di appello iscritto al n.17229 del registro di segreteria, proposto da Salvatore Averna, rappresentato e difeso dagli avv. Federico Cipolla e Guido Romanelli avverso la sentenza della Sez. Giur. Regione Lombardia n.1955/02 del 6 dicembre 2002.

                  Visti gli atti e documenti di causa;

                  Uditi alla pubblica udienza del 27 aprile 2004 il relatore cons. Nicola Matropasqua, l'avv. Federico Cipolla per l'appellante ed il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore Generale dott. Antonio Galeota.

                  Ritenuto in

FATTO

                  Con atto depositato in data 10 marzo 2003 ed iscritto al n.17229 IC-A del registro di segreteria il sig. Salvatore Averna, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Romanelli e Federico Cipolla, ha proposto appello avverso la sentenza della Sez. Giur.Regione Lombardia n.1955/02 del 6 dicembre 2002, con la quale è stato condannato al pagamento di euro 5.164,57 per danno all'immagine dell'amministrazione di appartenenza.

                  Questi i fatti di causa.

                  Con atto di citazione depositato il 10 giugno 2002 la Procura Regionale Lombardia conveniva innanzi alla Sezione territoriale e ten. Col. Salvatore Averna, deducendo quanto segue: a) che nell'ambito di indagini penali svolte dalla Procura della Repubblica di Milano era emersa la percezione, da parte dei militari gen. Di Maria Giuseppe, col. Simone Francesco e ten. Col. Averna Salvatore, di lire 15 milioni versati dalla Ditta Politex di Novedrate (Como), aggiudicataria della fornitura alle Forze Armate di n.15.000 di materassi monoblocco in tessuto ignifugo; b) che la somma era stata corrisposta per ricevere un “compiacente comportamento” in sede di collaudo contrattuale per la predetta fornitura militare (dell'apposita Commissione il Gen. Di Maria era il Presidente, il Col. Simone era componente, oltrechè Direttore del Centro Raccolta e Smistamento Militare di Milano, mentre il Magg. Averna fungeva da perito collaudatore); c) che per i fatti suddetti i tre militari erano stati condannati in sede penale per corruzione continuata, ex art.444 c.p.p.; d) che per i medesimi fatti la p.a. aveva subito un danno patrimoniale, ricondotto dalla istante Procura regionale a due voci: la prima pari alla tangente percepita (corrispondente all'1% della fornitura collaudata), ovvero a lire 15 milioni, e la seconda corrispondente al danno all'immagine arrecato all'amministrazione, quantificato, col ricorso all'art.1226 del codice civile, in lire 30 milioni, il doppio cioè della tangente corrisposta; e) che si erano costituiti i convenuti chiedendo il rigetto della domanda attorea; f) che la Sezione territoriale, con sentenza 19 dicembre 2001 n.1921/01/R, aveva condannato il gen. Di Maria e il col. Simone al pagamento in solido della somma di lire 20 milioni a titolo di danno all'immagine, dichiarando nel contempo inammissibile la domanda nei confronti del ten.col. Averna per omessa notifica in mani proprie dell'invito a dedurre; g) che, a fronte di quest'ultima statuizione, era stato nuovamente notificato, in data 29 gennaio 2002, un invito a dedurre al Ten. Col. Averna, il quale non aveva presentato deduzioni.

                  Tutto ciò premesso, l'istante Procura regionale chiedeva la condanna dell'Averna al pagamento, a titolo di danno all'immagine cagionato alla p.a., dell'importo di 15.493,71 euro, ove ritenuta sussistente la solidarietà passiva con i coautori di Maria e Simone, ovvero, in via gradata, di 5.164,74 euro, quale quota parte addebitabile al solo Averna.

                  La Sezione territoriale riteneva sussistente ed ascrivibile all'Averna il danno all'immagine come sopra quantificato.

                  Nel gravame l'appellante considera in punto di fatto che, dopo la già citata sentenza della Sez. giur. Regione Lombardia n.1921/01 del 19 dicembre 2001 che aveva dichiarato inammissibile la domanda nei suoi confronti per radicale nullità della notifica dell'invito a dedurre, a lui fu notificato in data 29 gennaio 2002 un invito a dedurre per i medesimi fatti.

                  Per di più nell'atto venivano contemplati anche i due soggetti che già erano stati condannati in primo grado con la sentenza 19 dicembre 2001, n.1921/01/R, l'atto risultava datato 27 marzo 2000 e firmato da un Sostituto procuratore non più assegnato alla sede di Milano da molto prima del momento nel quale venne richiesta la notifica dell'atto stesso mentre l'entità del preteso documento per l'Erario veniva quantificata anche in lire 15.000.000 a titolo di danno diretto cioè in relazione ad un profilo di danno che era stata puntualmente escluso dalla sentenza 6 giugno/19 dicembre 2001, n.1921/01/R in relazione agli altri convenuti, oltre a L.30.000.000 per danno indiretto (o danno all'immagine).

                  L'11 luglio 2002 l'appellante venne convocato dal colonnello Salvatore Giordanella che, sulla base di una lettera de Il responsabile dell'ufficio notifiche della Procura regionale della Corte dei conti per la Lombardia in data 8 luglio 2002, gli consegnò una copia di un atto di citazione spiccato dalla stessa Procura regionale relativo al supposto danno derivato all'Amministrazione della Difesa in occasione dei già citati collaudi eseguiti il 23 maggio e il 28 giugno 1994, atto che non risultava essere mai stato consegnato agli Ufficiali giudiziari per la notifica. In quell'occasione, il colonnello comandante del corpo gli fece firmare un foglio di ricevuta intestato “Relata di notifica ai sensi dell'art.146 c.p.c.”.

                  Ritenendo radicalmente inesistente la notifica perche effettuata secondo una procedura secondo l'appellante inventata per l'occasione dalla Procura regionale (in quanto assolutamente eccentrica rispetto al chiaro disposto degli art.146 c.p.c. e 49 delle disp. att. c.p.c.), decise di non costituirsi al fine di non sanare tale nullità.

                  Valutò inoltre che, nella citazione, la marcata bipartizione delle voci di danno (diretto e indiretto) evidenziata dall'invito a dedurre era venuta meno, perché l'atto introduceva una richiesta di condanna limitata ad un 1/3 dell'importo del danno totale (€ 5.164,57) “con vincolo di solidarietà fino alla concorrenza del danno totale”: ciò evidenziava a suo avviso per un verso, una insussistente compatibilità dei contenuti della citazione con quelli dell'invito a dedurre e, per altro verso, un profilo di nullità della citazione ex art.164, 4 ° comma, c.p.c.

                  Quale principale motivo di gravame l'appellante deduce la radicale nullità della sentenza per inesistenza della notifica della citazione e conseguente violazione del principio del contraddittorio per non essere stato dall'attore osservato il disposto dell'art.146 c.p.c. e dell'art. 49 disp. attuazione c.p.c.

                  Infatti la Procura lombarda ha incaricato il responsabile di un proprio ufficio interno di rimettere in via diretta l'atto al Comando del corpo, eludendo l'intervento necessario dell'Ufficiale giudiziario e inducendo in errore l'Autorità militare con l'anteporre alla firma la dicitura “d'ordine del pubblico ministero”.

                  A suo avviso non v'è dubbio che il p.m. al quale si riferisce l'art.49 citato deve essere quello che è espressione dell'ufficio incardinato nell'A.G.O. e non già quello del Procuratore regionale presso la magistratura amministrativa speciale costituita dal Giudice contabile.

                  Da ciò la radicale inesistenza della notifica alla quale consegue la nullità dell'intero giudizio e della sentenza appellata, con la quale si è concluso.

                  L'iter seguito dalla Procura per la notifica rende ad avviso dell'appellante evidente la temerarietà dell'azione proposta e la necessità di condannare la stessa alle spese di giudizio, ivi comprese quelle irripetibili quale sanzione per la violazione dell'art.96 c.p.c.

                     L'appellante deduce ancora:

- la nullità dell'invito a dedurre, con conseguenti inammissibilità della domanda ed erroneità della sentenza gravata.

                  Nel caso di specie sarebbe stato inammissibilmente reiterato con l'atto notificato il 29 gennaio 2002 l'invito a dedurre datato 27 marzo, mai notificato al deducente;

- la inammissibilità della citazione per mancanza della preventiva notifica di effettivo e congruo invito a dedurre e conseguente erroneità della sentenza impugnata.

                  Nella citazione non si dà conto dell'esistenza di elementi valutativi sopravvenuti alla notifica dell'invito a dedurre che abbiano indotto la Procura a modificare l'impianto originario delle proprie contestazioni .

                  Mentre nell'invito a dedurre si fa riferimento ad una pretesa ammontante a £ 45.000.000 (£ 15.000.000 per danno materiale diretto determinato dall'asserito percepimento d'una tangente di quell'importo; £.30.000.000 per il danno materiale indiretto costituito dalla lesione dell'immagine) oltre a rivalutazione e interessi, la citazione abbandona ogni riferimento alla bipartizione e indica il danno totale nella somma di £.30.000.000.

                  Da ciò discende l'inammissibilità della citazione e la conseguente erroneità della sentenza impugnata per la discrasia che non si spiega con acquisizione di nuovi elementi valutativi da parte della Procura regionale;

- la nullità della citazione ex art.164, 4° comma, c.p.c.; violazione del principio del contraddittorio e conseguente nullità della sentenza impugnata.

                  In via subordinata, l'atto di citazione introduceva una richiesta di condanna limitata ad un 1/3 dell'importo indicato come danno totale (quantificato in £. 30.000.000 pari a € 15.493,71): di tale minor somma (€ 5.164,57) richiedeva l'imputazione all'appellante “con vincolo di solidarietà fino alla concorrenza del danno totale”, senza precisare con chi tale vincolo di solidarietà avesse a sussistere.

                  La citazione non spiega minimamente né quale sarebbero i fatti costituenti le ragioni della domanda (perché sembra riferirsi ad uno specifico collaudo di beni forniti in esecuzione di uno specifico contratto, ma si limita ad insistere sul fatto che la vicenda si inserirebbe in un quadro di corruzione ambientale la quale è del tutto ignorata sia dalle specifiche premesse narrative che dalle conclusioni assunte), né quale elemento di prova sorregga l'affermazione che il tenente colonnello Averna avrebbe partecipato alla percezione d'una tangente per il collaudo che qui occupa, né chiarisce quando la dazione vi fu e come avvenne. Neppure offre alcun documento per provarlo.

                  La sentenza impugnata poi avrebbe totalmente seguito l'impianto accusatorio della Procura senza acquisire idonei elementi di valutazione.

                  Nel merito l'appellante eccepisce ancora:

- la prescrizione della domanda risarcitoria azionata dalla Procura.

                  Il collaudo dei beni forniti da POLITEX S.p.A in esecuzione del contratto n.44178 del 21 settembre 1993, venne eseguito il 23 maggio e 28 giugno 1994.

                  Inoltre il 26 ottobre 1995 il tenente colonnello Averna, in relazione alla vicenda penale conclusasi con la sentenza resa ex artt.444 c.p.p. fu sospeso dal servizio.

                  Il quinquennio per la prescrizione iniziò quindi a decorrere il 28 giugno 1994 o, tutto voler concedere il 26 ottobre 1995, maturando così il 28 giugno 1999 e, al più il 26 ottobre 2000.

                  Il primo atto interruttivo della prescrizione rimesso dall'appellante fu la citazione relativa al giudizio conclusosi con la sentenza n.1921/01/R, che egli ricevette il 2 febbraio 2001, quindi ben oltre un quinquennio sia dal momento in cui il danno (supposto) fu prodotto sia da quello nel quale nel quale l'Amministrazione lo conobbe;

                  l'assoluta non rispondenza alla realtà dell'esposizione in fatto fornita dalla Procura e condivisa dalla sentenza gravata. L'appellante, nel quadro fattuale proposto da controparte e recepito dalla Corte milanese, avrebbe percepito con altri una tangente di £ 15.000.000 per concorrere al collaudo dei materassi monoblocco forniti all'Amministrazione della difesa da POLITEX S.p.A. in esecuzione del contratto n.44178 del 21 settembre 1993, ancorché gli stessi non presentassero i requisiti imposti da tale negozio giuridico.

                  Quell'irregolare collaudo sarebbe avvenuto il 23 maggio 1994 e il 28 giugno 1994.

                  Però, dalla citazione non è dato sapere da chi fu consegnata l'illecita somma che egli avrebbe ritenuto, né se fu consegnata a lui o ad altri, né quando quella dazione venne effettuata.

                  Neppure l'importo della stessa risulta da alcun dato, o elemento: è semplicemente calcolata (erroneamente e per eccesso) sul presupposto -affatto indimostrato- che per tutti i collaudi del CERACOMILES di Milano di quei mesi i fornitori avrebbero allungato ai collaudatori un'illecita regalia pari all'1% del valore del contratto: ora, poiché il contratto portava un valore di £. 1.462.500.000, l'1% ammontava al £ 14.625.000.

                  Per tale vicenda il tenente colonnello Averna sarebbe stato condannato ex art.444 c.p.p. per il delitto previsto e punito dall'art.319 c.p.: ciò non è vero, per il semplice fatto che nella sentenza del Tribunale di Milano n.592/98 emerge che al tenente colonnello Averna in sede penale venne contestata l'accettazione di una somma -proveniente da POLITEX- di £ 10.000.000, e non già £. 15.000.000, come afferma la Procura regionale, e tale somma non percepì in concorso né con il De Maria né con il Simone.

                  Dunque, dalla sentenza del Tribunale di Milano risulta: in primo luogo, che la dazione (se mai avvenuta, attesa la natura della sentenza di patteggiamento) si riferiva ad altra vicenda relativa a POLITEX S.P.A. mai contestata in sede contabile all'appellante; in secondo luogo, che il tenente colonnello Averna non è mai stato condannato per la vicenda che qui occupa; da ultimo, che la somma indicata dalla Procura è frutto di pura invenzione.

                  Per di più, in nessun atto del processo penale v'è, da parte dell'appellante, alcuna ammissione di responsabilità relativa al contratto n.44178 né una dichiarazione di un coimputato che affermi di aver consegnato personalmente denaro per quel contratto all'appellante;

                  - l'inesistenza radicale (e logica), nonché inesistenza in concreto, del danno patrimoniale indiretto e assoluta mancanza di prova sul punto con conseguente incondivisibilità ed erroneità degli argomenti della pronunzia che ne affermano il ricorrere: La sentenza gravata evince, dalla confusa esposizione e argomentazione dell'atto introduttivo gravato, che la Procura con l'espressione danno totale avrebbe inteso riferirsi solo al danno patrimoniale indiretto incidente sull'immagine della p.a.

                  Presumibilmente la Corte si è orientata in tal senso perché, a fronte della ondivaga organizzazione narrativa della citazione, ha colto un punto fermo nella quantificazione in via principale del danno: £ 30.000.000, ossia la stessa somma che nella precedente vicenda giudiziaria la Procura aveva fatto del danno indiretto.

                  Ma ciò non poteva fare, se non allontanandosi dalla via del giusto processo. Inoltre anche muovendo da quell'assunto essa non avrebbe comunque potuto giungere a fondare giuridicamente le proprie conclusioni circa la liquidabilità del danno indiretto sulla base di un coefficiente moltiplicatore applicato ad un preteso, indimostrato (e, anzi, inesistente) danno diretto.

                  In proposito richiama i principi fissati in sentenze di questa Corte.

                  Nelle proprie conclusioni il Procuratore Generale chiede il rigetto dell'appello e la conferma della decisione impugnata.

                  In particolare ritiene che la notifica dell'atto di citazione non è nulla ai sensi dell'art.156, terzo comma, c.p.c. avendo comunque raggiunto lo scopo cui era destinato.

                  Ritiene inoltre che alla notifica ex art.146 c.p.c. possa procedere anche il P.M. presso la Corte dei conti, stante l'unicità della figura del p.m.

                  In subordine rappresenta l'ammissibilità anche per il P.M. delle più moderne forme di notifica degli atti processuali.

                  Afferma, poi, che è da respingere la pesante e sgradevole accusa di temerarietà della azione proposta e la collegata richiesta di risarcimento ai sensi dell'art.96 c.p.c., comprensiva delle spese irripetibili.

                  La domanda di risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata di cui alla menzionata disposizione può essere proposta soltanto nello stesso giudizio nel quale il danno si è verificato(Cass., Sez. 3^ , sent.846 del 25.1.1995), che, nel caso di specie, è, di tutta evidenza, il primo grado. Peraltro, l'interessato stesso dichiara (pag.3 dell'atto di appello) di non aver voluto far valere in giudizio tale “radicale nullità” della notifica. Non avendo eccepito tale asserita nullità del giudizio di primo grado (in cui si sarebbe verificata), per rispettabile scelta di contumacia, la controparte non la può far valere per la prima volta, in appello, dove non si è verificata né si potrebbe più verificare. La parte rimasta contumace in primo grado non può godere, nel giudizio di appello, di diritti processuali più ampi di quelli spettanti alla parte ritualmente costituita in quel primo giudizio e deve accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni e le decadenze già verificatesi.

                  Ma anche a voler ritenere, con interpretazione ermeneutica estensiva, che il convenuto contumace non abbia consumato in primo grado il potere di eccepire la lite temeraria da parte del locale Ufficio di Procura, parimenti la eccezione deve essere respinta.

                  Detta eccezione, infatti, presuppone il venir meno, nella presente fattispecie, della funzione di garanzia obiettiva che, ontologicamente, è propria dell'Organo requirente di questa giurisdizione, evenienza che non appare essersi verificata. E' noto, infatti, che il Pubblico Ministero presso la Corte dei conti agisce in giudizio a tutela dell'ordinamento e nell'interesse della collettività, al contrario della parte privata, che agisce per la tutela del proprio interesse.

                  Di contro, la richiesta risarcitoria ai sensi dell'art.96 c.p.c. appare temeraria (a nocumento dell'Ufficio di Procura nel presente giudizio di appello, dove si è concretizzata con le accuse or ora menzionate) alla luce della interpretazione giurisprudenziale fornita dalla Suprema Corte in ordine alla fattispecie di cui al citato art.96 c.p.c.

                  Secondo la Cassazione (Sez.3^, sent.9060 del 6.6.2003), infatti, ai fini della condanna alle spese ex art. 96 c.p.c., il carattere temerario della lite- che costituisce presupposto necessario per la condanna al risarcimento dei danni, accanto alla totale soccombenza e alla esistenza del danno stesso- va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza.

                  L'appellante (vedasi pag.5 dell'atto di appello), in altri termini, accusa la parte pubblica di avere avuto coscienza della infondatezza della propria pretesa nonché di colpa grave per non avere acquisito tale consapevolezza, ritenuta evidente icto oculi.

                  Stante la predetta funzione di “parte imparziale” dell'Organo Requirente, che non può essere messa in discussione con accuse siffatte, totalmente indimostrate, il Procuratore Generale chiede, oltre a tutti gli oneri accessori conseguenti alla soccombenza, oltre alle spese per il presente grado di giudizio, la condanna dell'appellante per lite temeraria ex art.96 c.p.c. per la evidente consapevolezza della infondatezza di una siffatta richiesta.

                  Aggiunge, altresì, che a suo avviso il medesimo atto di appello contiene altre espressioni offensive e sconvenienti per il prestigio dell'organo requirente e per la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti lombarda che, ulteriormente, chiede che vengano sanzionate ai sensi dell'art.89 del c.p.c.

                  Si riferisce, in particolare:

                  - alla accusa di “ignoranza” delle disposizioni di cui agli artt.146 e 49 disp. Att. c.p.c.(pag.4);

                  -alla definizione dell'atto di citazione quale “atto sconclusionato privo di chiarezza espositiva e di elementi di certezza” (pag.10);

                  -alla definizione della sentenza gravata come atto che “imbocca una strada incognita e dagli esiti imprevedibili” (pag.10) nonché come frutto di una “attività extra ordinem che ha portato ad una sentenza priva di qualsivoglia coerenza giuridica e compatibilità con l'ordinamento” (pag.11);

                  alla “scarsa dimestichezza della Procura milanese con le operazioni di aritmetica elementare” (pag.14).

                  Specificamente chiede entrambe le sanzioni previste dall'art.89 c.p.c., che come è noto, sono distinte ed autonome (Cass. Sez. 3^, sent.11063 del 26.7.2002), e cioè, da un lato, la cancellazione delle suddette frasi offensive e, dall'altro, il risarcimento del danno, nella misura ritenuta più congrua dalla Sezione adìta.

                  L'insussistenza di alcun rapporto di pregiudizialità fa si che la sanzione del risarcimento del danno per l'offensività delle parole non sia subordinata alla preventiva cancellazione delle medesime in quanto sconvenienti.

                  Nell'udienza di discussione le parti hanno illustrato gli atti scritti.

                  Considerato in

DIRITTO

1. L'appellante deduce in primo luogo la nullità-inesistenza della notifica della citazione con conseguente nullità della sentenza impugnata fondando la propria tesi sulla mancata osservanza degli articoli 146 c.p.c. e 49 delle disposizioni di attuazione al c.p.c. In particolare l'appellante sostiene che il pubblico ministero il quale deve provvedere all'invio della copia dell'atto al comandante del corpo al quale il militare appartiene deve necessariamente essere il pubblico ministero incardinato presso l'A.G.O. e che l'invio deve essere preceduto dalla attività dell'ufficiale giudiziario descritta nell'art.49 disp. att. Sotto quest'ultimo profilo va, intanto, rilevato che la nota da redigersi dall'ufficiale giudiziario deve contenere gli elementi idonei ad individuare i soggetti del rapporto processuale, la natura dell'atto, l'organo giudiziario innanzi al quale pende o dovrà iniziarsi il giudizio, e cioè in sostanza gli elementi idonei ad attestare l'esistenza di un giudizio davanti ad uno specifico giudice tra due (o più) soggetti, senza necessità di alcuna attività accertativa del pubblico ministero.

                  Siffatta attività dichiarativa dell'ufficiale giudiziario non appare necessaria nell'ipotesi in cui la notifica ex art.137 e segg. c.p.c. sia stata richiesta dal pubblico ministero, il quale promotore della notifica e parte del giudizio ben conosce l'esistenza ed i termini degli elementi normalmente attestati nella nota dell'Ufficiale giudiziario.

                  Punto centrale della questione proposta dall'appellante è peraltro la competenza esclusiva del Pubblico Ministero presso il giudice ordinario a compiere l'attività di notifica prevista dall'art.146 c.p.c.

                  In proposito va in primo luogo ricordato che ai sensi dell'art.26 del regolamento di procedura n.1038/1933 nei procedimenti contenziosi di competenza della Corte dei conti si osservano le norme e i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni di detto regolamento.

                  Giurisprudenza risalente (cfr. per tutte SS.RR. 19/1965) specifica che l'applicabilità dalle norme richiamate postula non soltanto l'attitudine del sistema richiamante a recepire e adottare agli istituti già propri l'istituto richiamato, ma ben anche la idoneità di quest'ultimo ad essere applicato in ambito diverso da quello originario.

                  Si deve di conseguenza affermare che ove nel giudizio contabile si faccia ricorso ad istituti del processo civile questi vanno inseriti ed adattati, se e in quanto compatibili, nell'alveo del processo contabile.

                  Questa affermazione trova applicazione anche nella ipotesi che la norma processuale civile conferisca poteri e facoltà al giudice, al Pubblico Ministero e alle parti private.

                  Da ciò consegue che il pubblico ministero contabile in ipotesi di notificazioni ex art.146 c.p.c. a valere innanzi al giudice presso il quale egli esercita le proprie funzioni ha i medesimi poteri e facoltà del pubblico ministero presso il giudice ordinario il quale promuova l'azione civile ovvero intervenga nel processo da altri promosso, tenendo presente che nel processo contabile l'azione di responsabilità spetta in via esclusiva al Procuratore regionale.

                  Va ancora ricordato che pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato l'unicità dell'organo Pubblico Ministero, le cui funzioni sono in concreto esercitate dall'ufficio del Pubblico Ministero incardinato presso il giudice competente.

                  Nell'ordinamento giudiziario infatti la legittimazione processuale del pubblico ministero è legata non all'interesse di cui è portatore nel processo ma alla sua competenza in ragione all'appartenenza ad un determinato ufficio di procura. A svolgere attività processuali presso il giudice è ammesso soltanto il magistrato appartenente all'ufficio di procura costituito presso lo stesso giudice.

                  Dalle esposte affermazioni si deve dedurre che per gli atti del processo contabile il pubblico ministero che deve procedere all'attività di cui all'art.146 c.p.c. è l'ufficio di procura presso la sezione adita.

                  Va ancora affermato che non prevedendo l'art.146 c.p.c. una competenza funzionale inderogabile di uno specifico ufficio del pubblico ministero né comminando la norma alcuna nullità per essere l'attività svolta da uno o altro ufficio del pubblico ministero, non può pronunciarsi la nullità della notificazione (artt.156 e 157 c.p.c.).

                  Come si è innanzi detto la nota dell'ufficiale giudiziario prevista dall'art.49 delle disp.attuazione, al c.p.c. è intesa ad individuare, sotto la sua responsabilità i soggetti del rapporto processuale ed il giudice innanzi al quale si incardina il rapporto stesso.

                  Detto adempimento appare non necessario quando l'atto provenga da un soggetto che svolge la propria attività in funzione neutrale di tutela dell'ordinamento ed è tecnicamente particolarmente qualificato come il Pubblico Ministero che procede all'attività di cui all'art. 146 c.p.c.

                  Va in proposito ancora osservato che il soggetto incaricato della consegna dell'atto di citazione nelle mani proprie del militare è il comandante del corpo al quale egli appartiene, soggetto abilitato quindi a procedere in tal forma alla notifica su impulso del pubblico ministero.

                  Momenti rilevanti della notificazione ex art.146 c.p.c sono la consegna della copia al pubblico ministero (adempimento implicito quando l'atto da notificare provenga dal medesimo pubblico ministero), l'invio della copia a cura del P.M. al comandante del corpo, la consegna al militare a mani proprie da parte del comandante del corpo( cfr. Cass. Sez.II° civ. n,.1202/1996)

                  Secondo l'ordinamento infatti la notificazione a mani proprie è fra le varie forme quella che meglio garantisce che l'atto sia giunto a cognizione del destinatario come risulta inequivocabilmente dall'art.138 c.p.c. e come è confermato dall'art.146 c.p.c.

                  Nel caso di specie risulta pacificamente che l'atto è stato consegnato all'Averna in mani proprie dal comandante del corpo e, pertanto, la notificazione dell'atto ex art.146 c.p.c. ha raggiunto inequivocabilmente lo scopo al quale è destinato, con conseguente impossibilità di pronuncia della nullità (art.160 e 156 c.p.c.) quand'anche esistente. L'eccezione va, pertanto, respinta.

2. L'appellante ha di seguito eccepito la nullità dell'invito a dedurre con conseguente inammissibilità della domanda. L'eccezione è fondata sul fatto che l'invito a dedurre notificato all'Averna il 29 gennaio 2002 è identico a quello datato 27 marzo 2000 mai a lui notificato, circostanza per la quale è stato dichiarata con la sentenza della Sez. giur. Reg. Lombardia n.1921/2001 l'inammissibilità dalla domanda proposta nei suoi confronti.

                  L'eccezione è manifestamente infondata.

                  Come afferma lo stesso appellante l'invito a dedurre datato 27 marzo 2000 non è stato a lui mai notificato.

                  Di conseguenza detto atto non ha mai prodotto nei suoi confronti alcun effetto giuridico, come è attestato dalla sentenza invocata dallo stesso Averna passata in giudicato nei suoi confronti.

                  Non vi è stata, pertanto, nessuna reiterazione dell'invito a dedurre nei confronti dell'Averna dal momento che l'unico atto produttivo di effetti è quello a lui notificato il 29 gennaio 2002.

                  D'altro canto, va rilevato, sottesa alla tesi dell'appellante è l'affermazione aberrante che la mancata valida notifica dell'invito a dedurre comporti la decadenza del diritto per impossibilità di far conseguire effetti giuridici all'atto mediante una nuova e corretta notifica.

                  Va, peraltro, precisato che la tesi della inammissibilità della mera reiterazione dell'invito a dedurre (peraltro oggi minoritaria in giurisprudenza) attiene alla diversa ipotesi di una regolare notifica dell'invito a dedurre cui sia seguita l'emissione dell'atto di citazione oltre i termini previsti dall'art.5 del d.l. 15 novembre 1993, n.453 convertito nella l.n.19/1994 e successive modificazioni.

                  L'appellante eccepisce ancora la inammissibilità della citazione per mancanza della preventiva notifica di effettivo e congruo invito a dedurre. L'eccezione è fondata sul fatto che nell'invito a dedurre il danno era quantificato in £.45.000.000, ripartito tra danno diretto e danno lesione all'immagine, mentre nell'atto di citazione viene indicato il danno totale di £.30.000.000 senza dar conto della sopravvenienza di elementi valutativi successivi all'invito a dedurre.

                  E' giurisprudenza pressocchè pacifica che vi deve essere sostanziale coincidenza tra invito a dedurre e citazione limitatamente ai fatti posti a fondamento dei due atti, intesi come circostanze, accadimenti, eventi sui quali si basa la domanda. Questi possono essere modificati solo sulla base di circostanze sopravvenute ed in particolare sulla base degli elementi dedotti dall'invitato a dedurre e dei relativi accertamenti. Nessuna norma né alcun principio giuridico impedisce però all'attore di svolgere ulteriori accertamenti e valutazioni sui fatti posti a fondamento della domanda, con riflessi anche sul petitum purchè relativa ai fatti contestati.

                  Non va dimenticato, infatti, che l'invito a dedurre è atto preprocessuale inteso a consentire al destinatario dell'atto di svolgere proprie difese anche prima dell'inizio del processo, sia dando una diversa interpretazione ai fatti contestati, sia negandone l'esistenza sia ponendo in evidenza altre responsabilità o circostanze diminuenti la propria responsabilità. La difesa avanzata si rapporta, pertanto, ai fatti contestati ed il relativo diritto verrebbe leso solo se la domanda giudiziale venisse fondata su fatti sostanzialmente diversi.

                  Peraltro l'esatta configurazione giuridica della domanda, le richieste avanzate, gli elementi probatori dedotti sono esclusivamente indicati nell'atto introduttivo del giudizio, che ne segna il relativo ambito nel quale il convenuto potrà svolgere le opportune difese anche ulteriori e nuove rispetto a quelle prospettate nella risposta all'invito a dedurre. La funzione dell'invito a dedurre è intesa infatti a chiarire tutti gli elementi posti a fondamento della domanda, evitando processi inutili o male incardinati, ma come atto preprocessuale non può delimitare l'ambito del processo che è definito dalla domanda contenuta nella citazione e dalle eccezioni dedotte dalle difese.

                  L'eccezione è, pertanto, infondata.

3. L'appellante ulteriormente eccepisce la nullità della citazione ex art.164, 4° comma, c.p.c. per indeterminatezza del petitum, avendo l'attore chiesto la condanna dell'Averna con vincolo di solidarietà fino alla concorrenza di un danno totale pari ad euro 15.493,71 con soggetti non specificati e per mancanza di indicazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda.

                  In proposito il petitum viene individuato nell'atto di citazione in primo luogo nella somma di euro 15.493,71 con vincolo di solidarietà con soggetti (il gen. Di Maria ed il col. Simone) inequivocabilmente individuati nella parte in fatto dell'atto di citazione, già coinvolti e condannati nel precedente processo per essi conclusosi con sentenza di condanna solidale per i due terzi della somma totale e per l'Averna con la dichiarazione di inammissibilità della citazione (sentenza n.1921/01/R del 19 dicembre 2001 delle Sez. giur. Reg. Lombardia più volte citata).

                  Tale circostanza risultava, poi, palesemente manifesta all'Averna, dal momento che il suo difensore nell'odierna udienza dibattimentale ha invocato, facendo valere i principi propri dell'obbligazione solidale, la sentenza d'appello resa nei confronti del Di Maria e del Simone nel giudizio proposto avverso la citata sentenza n.1921/2001.

                  Quanto ai fatti posti a fondamento della domanda, questi si fondano sull'affermazione che l'Averna ha percepito una tangente di £.15.000.000 in relazione al collaudo di beni forniti dalla ditta Politex (materassi monoblocco in tessuto ignifugo) di cui al contratto n.44178, nelle dichiarazioni confessorie rese in proposito innanzi all'autorità giudiziaria dell'Averna e dal funzionario della Politex Vittorio Sarchi, sulla condanna in sede penale dell'Averna a pena patteggiata ex art.444 c.p.p.

                  Risultano, pertanto, chiaramente indicati i fatti posti a fondamento della domanda, salva la valutazione di merito in punto di effettiva esistenza e di prova.

                  L'eccezione va, pertanto, respinta.

4. Va, poi, dichiarata inammissibile l'eccezione di prescrizione del diritto azionato dal Procuratore Regionale perché proposta per la prima volta in appello in contrasto con l'art.345, secondo comma, c.p.c., norma applicabile anche ai soggetti contumaci in primo grado.

5. Nel merito l'appellante ha dedotto l'inesistenza del danno all'immagine della P.A. e comunque la mancanza di prove di tal danno come a lui ascrivibile.

                  La natura ed i riferimenti normativi del danno non patrimoniale all'immagine, oggetto di approfondimento nelle numerose sentenze di questa Corte che di recente hanno pronunciato su tal danno nonché di una specifica pronuncia delle Sezioni Riunite (n.10/2003/Qm del 23 aprile 2003) definitoria di questione di massima, vanno oggi rimediati alla luce delle recentissime sentenze della Corte di Cassazione nn.8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e n.19057 del 12 dicembre 2003 nonché della sentenza della Corte Costituzionale n.233 dell'11 luglio 2003.

                  Con le citate sentenze la Corte di Cassazione ha criticamente riletto il contenuto precettivo dell'art.2059 c.c., disancorandolo dalla esclusiva connessione con l'art.185 c.d. pen.

                  Nella nuova lettura la norma non è più diretta ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo determinato da fatto illecito integrante reato secondo l'interpretazione dell'art.2059 c.c. di gran lunga prevalente nella giurisprudenza e fondata sui lavori preparatori del Codice civile del 1942. La giurisprudenza recentissima afferma, invece, che “nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione- che, all'art.2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona”.

                  In una siffatta prospettiva la riserva di legge prevista dall'art.2059 c.c. deve di conseguenza essere riferita non solo agli artt. 185 cod. pen. e 89 cod. proc. civ. ed alle ipotesi espressamente previste dalla legislazione successiva, ma in una lettura costituzionalmente orientata va estesa anche ai “valori della persona costituzionalmente garantiti… atteso che il riconoscimento nella costituzione di diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”.

                  Sul piano della ricostruzione dommatica le sentenze della Corte di Cassazione hanno segnato la rottura del precedente schema ricostruttivo fondato sull'ampliamento dell'ambito di operatività dell'art.2043 c.c. e di una marginale valenza dell'art.2059 c.c., delineandone uno nuovo fondato sulla dicotomia tra danno patrimoniale (riportabile alla previsione dell'art.2043 c.c.) e danno non patrimoniale (riportabile alla previsione dell'art.2059 c.c.).

                  Quest'ultimo, poi, conterebbe al proprio interno due sottocategorie costituite da un lato dal danno morale e dall'altro dai danni derivati dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, comprensivi anche del danno biologico.

                  La nuova ricostruzione sistematica è stata sostanzialmente recepita da Corte cost. 11 luglio 2003, n.233 che, scarna ed essenziale nei contenuti, fa riferimento alle innanzi citate sentenze della Corte di cassazione nn.8027 e 8028 del 2003. Di quest'ultima anzi accoglie l'auspicio di far rientrare anche il danno biologico nella sistematica dell'art.2059 c.c.

                  Peraltro nella ricostruzione della Corte costituzionale il danno non patrimoniale ex art.2059 c.c. viene fondato, anziché su due, su tre elementi configurando in modo autonomo il danno biologico in senso stretto.

                  Nella nuova lettura della norma la lesione di un diritto della persona costituzionalmente tutelato costituisce la prima, indispensabile condizione per la operatività della previsione dell'art.2059 c.c. e, quindi, per il risarcimento del danno, superando il valore di chiusura sino ad allora attribuito alla riserva di legge prevista dall'art.2059 c.c.

                  Dopo le innanzi citate sentenze anche il danno non patrimoniale all'immagine della P.A. causato da un comportamento illecito tenuto da un soggetto legato da rapporto di servizio con l'amministrazione pubblica e fatto valere innanzi a questo giudice va sistematicamente riconsiderato con riferimento alle nuove prospettive giurisprudenziali.

                  Infatti anche in questa sede l'ambito della risarcibilità o della riparabilità del danno ingiusto segue l'evoluzione giurisprudenziale che ha ampliato i limiti della tutela di beni e valori giuridici come quelli inerenti alla persona non solo fisica ma anche giuridica attraverso forme riparatorie di diritto civile.

                  Va affermato, infatti, che la tutela in questa sede del danno all'immagine è conseguenza diretta dell'evoluzione della configurazione anche per il danno non patrimoniale come danno ingiusto tutelato prima attraverso l'interpretazione estensiva dell'art.2043 c.c. ed ora attraverso la lettura costituzionalmente orientata dall'art.2059 c.c.

                  Non è condivisibile, infatti, la tesi prospettata nella citata sentenza delle SS.RR. di questa Corte n.10/2003 secondo la quale la tutela in questione sarebbe conseguenza di una funzione sanzionatoria della responsabilità amministrativa.

                  La risarcibilità del danno all'immagine può fondarsi sull'artt. 82, primo comma, del R.D. n.2440/1923 (secondo il quale “l'impiegato che, per azione ed omissione,… nell'esercizio delle sue funzioni cagioni danno allo Stato è tenuto a risarcirlo”) nonché sugli artt. 13 e 52 del T.U. n.1214/1934.

                  Risulta evidente dalla lettura della norma che l'ambito della risarcibilità è segnato dalla nozione di danno ingiusto e quindi dalla configurabilità del danno all'immagine come danno ingiusto.

                  Dette disposizioni quanto al danno costituiscono, infatti, “norme in bianco” poste a tutela delle conseguenze pregiudizievoli per la P.A. derivanti dai comportamenti illeciti dei soggetti legati da rapporto di servizio.

                  La precisazione è rilevante anche a fini di giurisdizione.

                  Come è ben noto ormai pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che il c.d. danno all'immagine, conseguente alla condotta illecita dei pubblici funzionari che scredita l'Amministrazione, pur se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, la cui cognizione spetta alla Corte dei Conti.

                  Questa affermazione va raffrontata con la più recente configurazione del danno non patrimoniale innanzi illustrata.

                  La nuova ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione non sembra possa avere effetti in tema di giurisdizione: disancorata l'operatività dell'art.2059 c.c. dall'art.185 cod. pen. ciascuna azione risarcitoria fondata sulla lettura costituzionalmente orientata dell'art.2059 c.c. verrà fatta valere innanzi al giudice competente a pronunciarsi sulla tipologia di danno e perciò, secondo i casi, innanzi al giudice civile o innanzi al giudice contabile quando ricorrano le condizioni soggettive (rapporto di servizio dell'autore del danno) ed oggettive (danno causato alla P.A.) per adire quest'ultimo giudice.

7.             Peraltro taluni aspetti della configurazione del danno meritano opportune precisazioni.

                  Dopo le citate sentenze della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale anche nel giudizio di responsabilità amministrativo contabile (come d'altro canto in tema di responsabilità civile della P.A. verso terzi) il risarcimento del danno esistenziale deve fondarsi sulla verifica dell'esistenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.

                  In termini, peraltro, la giurisprudenza di questo giudice già aveva configurato il danno all'immagine della P.A. con affermazioni che di seguito si riportano (cfr. Sez. I n.373/2003 del 4 novembre 2003).

E' stato innanzi tutto rilevato che la giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. SS.UU. n.5668/1997, 744/1999, n.98/2000) secondo la quale il c.d. danno all'immagine, conseguente alla condotta illecita dei pubblici funzionari che scredita l'Amministrazione, pur se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, la cui cognizione spetta alla Corte dei Conti, non è meramente attributiva di competenza giurisdizionale alla Corte dei Conti ma innanzitutto connota il c.d. danno all'immagine della P.A. quale presupposto necessario per l'affermazione della giurisdizione.

                  Il primo elemento determinativo è che il danno all'immagine espressamente previsto e tutelato dall'art. 10 c.c. per la persona fisica è nozione estensibile alla persona giuridica, salvo a tener conto della diversità ontologica di questa rispetto alla persona fisica.

                  E' stato così riconosciuto che anche l'immagine della persona giuridica è un bene della vita tutelato dall'ordinamento non solo in sede penale nelle specifiche ipotesi di reato ma anche in altre sedi attraverso le forme inibitorie di comportamenti illeciti e risarcitorie del danno.

                  Il secondo elemento è che, in forza della diversità tra persona fisica e persona giuridica, il risarcimento della lesione è limitata alla sola sfera patrimoniale dell'ente sub specie di danno emergente o di lucro cessante.

                  Il terzo elemento è che assume particolare connotazione la lesione del bene causata da comportamento illecito di soggetto legato all'ente da rapporto di servizio.

                  Alle esposte considerazioni consegue che il riconoscimento dell'immagine della persona giuridica come bene della vita oggetto di tutela dell'ordinamento (bene giuridico) si colloca nell'alveo della giurisprudenza che tende ad estendere, in relazione all'evolversi dei fenomeni sociali, la tutela degli interessi dei soggetti dell'ordinamento connotandoli come beni della vita che possono essere oggetto di risarcimento del danno, in quanto anche la persona giuridica è titolare di diritti assoluti personalissimi.

                  Può essere così prospettata la tutela giuridica rispetto ad un interesse attinente alla sfera personalissima della persona giuridica connotandolo quale diritto assoluto la cui lesione sia oggetto se non di risarcimento in senso stretto, ove la conseguenza dell'illecito non si presti ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, almeno di riparazione.

                  Senza prendere posizione sulla configurazione dommatica del danno all'immagine è stato precisato che il richiamo al meccanismo tecnico-giuridico dell'art. 2043 c.c. è utile solo come punto di riferimento delle modalità di individuazione di protezione di un diritto assoluto.

                  Sul piano della imputazione soggettiva della lesione del diritto all'immagine (della P.A.) fatta valere nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, è stato affermato che nel caso la lesione non proviene da un qualsiasi comportamento di soggetto dell'ordinamento ma si radica su comportamenti illeciti contrari ai doveri d'ufficio tenuti da chi è legato da rapporto di servizio con l'amministrazione, e che la conformazione della lesione del diritto e la sua gravità è segnata dall'esistenza di detto rapporto.

                  Occorre, in proposito, considerare che i soggetti chiamati in giudizio per responsabilità amministrativa sono quei soggetti che, titolari di pubblici uffici o incardinati negli stessi, in virtù del rapporto organico fanno agire la pubblica amministrazione, secondo le competenze e le mansioni che nell'organizzazione amministrativa sono assegnate a ciascun dipendente in base a disposizioni di legge.

                  In forza di tale modulo organizzativo e delle disposizioni che regolano la vita giuridica di relazione dei soggetti persone - giuridiche non solo le intere fattispecie degli atti che compie l'organo vengono imputate all'ente, ma gli stessi fatti comportamentali dei pubblici funzionari, compiuti in ragione del servizio, costituiscono l'agire dei pubblici uffici.

                  L'impegno di cooperazione all'uopo dovuto dai soggetti legati da rapporto in servizio con la P.A. sia in forza di un rapporto di lavoro sia in forza di un rapporto elettivo o onorario od anche coattivo si caratterizza non solo per il contenuto specifico dell'obbligo nascente dal rapporto ma anche per le peculiari modalità del comportamento. Detto comportamento, infatti è anche dovuto in vista del raggiungimento di finalità immanenti all'attività, ulteriori rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell'azione ma incidenti sull'eticità dello Stato-comunità, fondamento costituzionale dei poteri attribuiti allo Stato-complesso coordinato di enti ed allo Stato-amministrazione.

                  Vengono in rilievo in proposito gli artt. 28,98,101 della Costituzione e le norme attuative che connotano l'impegno di cooperazione richiesto a chi svolge una pubblica funzione ed è titolare di un pubblico ufficio.

                  E' evidente che in ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione commessi dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle proprie funzioni l'attività criminale di questi non è imputabile alla pubblica amministrazione. Ed, infatti, anche in ipotesi di concussione la P.A. non è responsabile né direttamente né indirettamente nei confronti del soggetto leso, il quale tra l'altro è ben consapevole che l'agire del pubblico dipendente è motivato da fini propri estranei alla P.A..

                  Ma anche in queste occasioni l'attività funzionale del pubblico dipendente invera l'azione della P.A.. In detti casi vi è la dimostrazione che l'attività della P.A. non si è svolta secondo i principi fissati dall'art. 97 Cost. perché nell'esercizio dei pubblici poteri il soggetto preposto all'ufficio o incardinato nell'ufficio ha perseguito in concreto fini contrastanti o comunque diversi da quelli pubblici, di cui è centro di imputazione quella amministrazione nel quale l'ufficio o l'organo è inserito, e per il raggiungimento dei quali il potere è conferito. Questo fatto incide potenzialmente anche al di là del singolo episodio sui rapporti tra pubblica amministrazione lesa dall'attività criminosa e cittadini, non solo in generale rispetto allo svolgersi del processo democratico ma in modo specifico nei confronti di quei cittadini (o di quei soggetti o categorie di soggetti) che utilizzano i pubblici servizi o sono incisi dall'esercizio di un potere autoritativo.

                  In questi può ingenerarsi la convinzione che l'organizzazione dei pubblici poteri non sia conformata ai principi fissati dall'art. 97 Cost., ma sia in concreto strutturata sia per l'attribuzione soggettiva dei poteri sia oggettivamente in modo tale, attraverso un esercizio distorto dei pubblici poteri, da costringere, o comunque indurre, i soggetti fruitori di servizi pubblici o interessati a provvedimenti dei pubblici poteri a pagamenti illeciti per esercitare i propri diritti o per ottenere il servizio ovvero da indurre soggetti o categorie di soggetti a ritenere possibile conseguire vantaggi illeciti.

                  Come ben si vede viene in primo luogo in rilievo la potenzialità dannosa della lesione del diritto operata dal comportamento del pubblico dipendente rispetto alla potenzialità dannosa del comportamento lesivo del “chiunque”. Viene inoltre in rilievo il comportamento dell'autore del danno non come genericamente lesivo del diritto personalissimo all'immagine ma come lesivo attraverso la violazione di principi costituzionali di azione della pubblica amministrazione perpretata attraverso l'uso distorto di poteri funzionali conferiti al soggetto agente “ratione offici”.

                  Non va, in proposito, dimenticato che lo Stato e gli altri enti pubblici rappresentativi della comunità si caratterizzano in modo specifico rispetto a tutte le altre persone giuridiche per essere posti a tutela degli interessi fondamentali della comunità e per il raggiungimento di finalità che spesso trovano la loro radice nella stessa costituzione. L'organizzazione di questi enti è poi caratterizzata da principi costituzionali cogenti, che determina la struttura e l'attività degli organi e degli uffici.

                  L'immagine pubblica si connota, pertanto, in modo peculiare.

                  La sua lesione è determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti, comportamenti (oggetto anche della specifica previsione dell'art. 54 Cost.) che possono essere tenuti nella generalità dei casi da chi deve porre in essere i moduli organizzativi e l'attività della P.A..

                  Il comportamento illecito così caratterizzato è lesivo dell'immagine dell'amministrazione perché ne determina un modo di essere non conforme ai principi costituzionali in attività di promozione e tutela di interessi, anche adespoti, della collettività e quindi da questa percepibile. Il comportamento lesivo poi si inserisce in un circuito tipico sul quale si fonda lo stato democratico di cooperazione e partecipazione dei cittadini che si rafforza o si attenua a secondo che le istituzioni e gli enti rappresentativi della collettività agiscano o meno per le finalità funzionalmente ad essi attribuite secondo i principi sostanziali ed organizzativi espressi nella costituzione formale e materiale.

                  Nell'an la lesione all'immagine, pertanto, sussiste quando il pubblico amministratore o dipendente abbia tenuto un comportamento illecito che si ponga in contrasto con i sopraenunciati principi fondanti della P.A..

                  In tal senso può qualificarsi il danno all'immagine come danno evento, ma non va dimenticato che a fini risarcitori o riparatori del danno, qualificati dalla giurisprudenza come danno patrimoniale, occorrono altri elementi idonei ad attestarlo e quantificarlo.

                  In proposito viene in primo luogo in rilievo la gravità della lesione del diritto della personalità, che deve superare una soglia minima per tradursi in danno risarcibile. Questa soglia minima non è sicuramente segnata dall'esistenza di un reato perché il danno all'immagine non è un danno morale subiettivo, ma è la conseguenza patrimoniale di un comportamento illecito lesivo di un diritto personalissimo, né è segnata dalla coesistenza di un danno ad un bene materiale dell'ente (cfr. SS.RR. n. 16/99/Q.M. del 28 maggio 1999), perché ciascuna tipologia di danno è posta a tutela di un diritto (diritto relativo di credito o diritto assoluto di proprietà) diverso dall'altro (diritto assoluto personalissimo).

                  Ne consegue che la soglia minima va individuata con una indagine di fatto sul comportamento tenuto con riferimento particolare all'elemento soggettivo e sulla potenzialità lesiva di detto comportamento.

                  La potenzialità dannosa nei termini delineati del comportamento illecito dei pubblici poteri va saggiata in concreto nei singoli casi. Infatti ove si tratti di episodi sporadici e di cui non si è avuta diffusione può mancare un evento di danno (e comunque questo va dimostrato attraverso specifici indici), laddove invece la pluralità degli episodi criminosi o la gravità in sé dei fatti ed il conseguente impatto sull'opinione pubblica o sulle categorie interessate sia sicuro indice della diffusione della conoscenza da parte dei cittadini dell'esistenza di una distorta organizzazione dei pubblici poteri è conseguenza ineludibile il danno per la P.A. sia in termini di danno emergente sia in termini di lucro cessante. Detti episodi vengono infatti ad incidere sia sull'organizzazione dell'attività amministrativa, con conseguenti maggiori costi, sia sulla necessità di ripristinare l'immagine, sia sulla posizione della P.A. la quale, ove eserciti correttamente ed imparzialmente il proprio potere, può ottenere l'adesione convinta dei cittadini, il loro apprezzamento o quantomeno non subire azioni di contrasto. In questi termini esiste per la P.A. un danno certo, che può essere quantificato equitativamente.

                  Infatti la Pubblica Amministrazione nell'acquisire le entrate e nel fornire servizi svolge sia attività economica di natura imprenditoriale sia attività autoritativa.

                  In ambedue i casi un primo aspetto del danno è costituito dalla spesa necessaria (sostenuta, da sostenersi, soltanto eventuale) per il ripristino dell'immagine.

                  Inoltre, come ulteriore danno, sotto il primo profilo vengono in rilievo la minore richiesta del servizio da parte degli utenti, la loro minore soddisfazione se reso in condizioni di monopolio ecc..

                  Sotto il secondo profilo va invece ricordato che l'attività funzionale della P.A. è indirizzata al conseguimento dei fini pubblici di cui è attributaria e per i quali ad essa sono conferiti correlativi poteri autoritativi..

                  Nello Stato democratico, poi, viene promossa ed incentivata la partecipazione dei cittadini nei processi decisionali e nei procedimenti amministrativi nei quali vengono funzionalmente spesi poteri pubblici conferiti alla Pubblica Amministrazione.

                  In questo senso l'immagine di un apparato organizzativo dei poteri pubblici che agisce in modo imparziale, efficiente, efficace al fine di realizzare gli interessi pubblici incentiva i cittadini a tenere il comportamento richiesto da leggi, regolamenti od altri atti normativi a carattere generale per il raggiungimento dei fini pubblici, contemperando così l'interesse generale con gli interessi individuali.

                  La lesione dell'immagine della P.A., deteriorando il prestigio della personalità pubblica degli enti rappresentativi della collettività in tutti i casi nei quali l'apparato organizzativo esercita i propri poteri per fini personali e contrastanti con quelli pubblici o secondo criteri di parzialità e di favoritismo, induce i cittadini a privilegiare con ogni mezzo il proprio interesse particolare, con gravi ricadute anche sullo svolgimento dell'attività amministrativa. Da qui le gravità della lesione sia in termini di danno emergente che di lucro cessante.

                  Pertanto ogni volta che i poteri attribuiti alla P.A. per il raggiungimento di specifici fini pubblici vengono illecitamente esercitati per scopi diversi, può derivare oltre al danno diretto un danno indiretto valutabile in termini di minore possibilità di acquisizioni di entrate ovvero di minori prestazioni di servizio ai cittadini, di deterioramento della qualità della vita dei cittadini. In questa valutazione va, inoltre, tenuto presente che spetta agli enti esponenziali della collettività tutelare interessi adespoti e, pertanto, il danno può essere valutato sotto l'aspetto della lesione di un bene collettivo, il cui centro di riferimento è l'ente esponenziale della collettività.

                  Assumono rilievo in relazione all'an ed al quantum del danno all'immagine i seguenti elementi e criteri:

- l'attività funzionale attribuita all'ente, organo, ufficio nel quale è incardinato l'autore del danno relazionato all'interesse della collettività tutelata;

- la posizione funzionale dell'autore dell'illecito, che assume maggior gravità quando riveste una posizione di vertice idonea a determinare l'azione della P.A., a impedire o ritardare i controlli, a coprire l'illecito;

- se, come è stato notato in dottrina, il danno esistenziale è un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente, la sporadicità o la continuità o la reiterazione dei comportamenti illeciti, caratterizzando essi la relazione tra cittadini e pubblica amministrazione; la necessità o meno di interventi modificativi dell'organizzazione la necessità o meno di interventi sostitutivi o riparatori dell'attività illecitamente tenuta;

- in ipotesi di tangenti l'entità del denaro ricevuto per operare illeciti interventi;

- le conseguenze economico-sociale degli interventi intesi a favorire illecitamente terzi, soprattutto in materia di pubblici appalti o di acquisizione di entrate fiscali;

- le conseguenze sociali fondate sulla negativa impressione e ripercussione suscitate nell'opinione pubblica dal fatto illecito, favorito dal clamor fori e dalla diffusione ed amplificazione datane dagli organi di stampa, tali da suscitare sfiducia nei confronti dell'ente stesso.

                  Il risarcimento del danno all'immagine, in quanto ancorato ai suddetti parametri, va pertanto necessariamente determinato in via equitativa ex art. 1226 c.c., valorizzando i costi del ripristino del bene, che hanno valenza economica sotto il profilo del danno emergente (costi del mancato conseguimento della finalità pubblica, dell'inefficienza e inefficacia dell'organizzazione, ecc.) o di lucro cessante (soprattutto sotto il profilo dei vantaggi derivanti alla P.A. dell'adesione della generalità dei cittadini o di quelle particolari categorie di cittadini professionalmente qualificate investite dall'attività dell'ente) ed allontanandosi così sia dal risarcimento del danno in senso classico che dalla riparazione della sofferenza tipica del danno morale.

                  Se si vogliono valorizzare approcci qualificatori del danno all'immagine si può così affermare che in esso l'evento lesione costituisce il momento fondante della catena causale nella quale confluiscono le perdite derivanti dalla vanificazione dei costi sostenuti per assicurare ed elevare il bene-valore sacrificato ed i costi sostenuti e sostenendi volti al recupero di tale bene, e perciò elementi tipici del danno-conseguenza.

8. Le conclusioni alle quali era giunta la giurisprudenza di questa Corte delineano un quadro ricostruttivo coerente con l'impostazione costituzionalmente orientata prospettata nelle citate sentenze della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale.

                  Infatti, se il nucleo essenziale del danno esistenziale è dato dalla lesione di un interesse costituzionalmente protetto, la violazione delle previsioni dell'art.97 cost. e delle altre norme costituzionali innanzi citate conseguenti ai comportamenti illeciti tenuti da dipendenti o amministratori pubblici   lede  interessi costituzionalmente protetti della P.A., anche nelle sue articolazioni e nello svolgimento delle funzioni degli enti esponenziali della collettività ed impone, quindi, il risarcimento del danno non patrimoniale ex art.2059 c.c. nella particolare accezione del danno esistenziale.

                  Assumono rilievo nel nuovo contesto la ripartizione dell'onere della prova dell'illecito nonché i criteri di quantificazione del danno.

                  La Corte di Cassazione nella sentenza n.8228 del 31 maggio 2003 e nella recentissima n.19057 del 12 dicembre 2003 fissa in ordine alla prova del danno i seguenti principi il danno non coincide con la lesione dell'interesse protetto (non è in re ipsa); si tratta di un danno-conseguenza che deve essere allegato e provato; considerando che si tratta di un pregiudizio che si proietta nel futuro è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che sarà onere del danneggiato fornire.

                  La liquidazione del danno non potrà, che avvenire in base a valutazioni equitativa ex artt.1226 e 2056 c.c. Tale valutazione va fatta tenendo conto della fattispecie concreta in cui il danno si è verificato.

                  Raccordando le affermazioni innanzi esposte con le fattispecie di danno all'immagine fatte valere innanzi a questo giudice, va intanto affermato che anche nel giudizio di responsabilità amministrativo contabile la liquidazione del danno deve avvenire facendo ricorso all'art.1226 c.c.

                  Allo scopo l'attore deve fornire elementi obiettivi ai quali ancorare il danno.

                  Questo però non è costituito solo da spese sostenute o da sostenere precisamente determinabili a priori ma può estendersi con valutazioni prognostiche e presunzioni (desumibili anche dall'id quod plerimque accidit) alla propagazione presente e futura della lesione.

                  Il riflesso sul piano probatorio è che l'attore deve indicare e dimostrare a fini di esistenza del danno il comportamento illecito lesivo ed a fini di quantificazione gli elementi tra quelli indicati determinativi della dimensione ed entità della lesione.

                  E' esperienza comune che in questa tipologia di danno vengono versate nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile le risultanze e le prove acquisite nel quasi sempre coesistente giudizio penale fondato su comportamenti almeno parzialmente coincidenti.

                  In quest'ambito vengono in rilievo, oltre agli effetti del giudicato penale a seguito di dibattimento, gli effetti della sentenza ex art. 444 c.p.p. e i problemi relativi alla valutazione delle prove acquisite in sede penale.

                  Quanto alla natura della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti una corrente dottrinaria e giurisprudenziale le riconnette natura di sentenza di condanna (cfr. C. Cost. n. 313/1990, Cass. n. 2065/1999, n. 3490/1996). Si assume, infatti, che diversamente si giungerebbe all'assurdo di una rinuncia all'esercizio dell'azione penale e al diritto di difesa, inconciliabile con il disposto di cui agli artt. 112 e 24 Cost.. Tale effetto non può certo costituire un corollario del principio di disponibilità della prova fatto proprio dall'art. 190 c.p.p. anche perché in una simile evenienza il giudice sarebbe chiamato a sopperire ex art. 507 dello stesso codice.

                  Altra corrente ritiene invece che non si possa attribuire a detta sentenza natura di sentenza di condanna, sul presupposto dell'assenza /dell'affermazione di colpevolezza, essendo anzi più vicina quanto a valore delle statuizioni ad una sentenza di proscioglimento (cfr. C. Cost. n. 251/1991, Cass. SS.UU. 26 febbraio 1997).

                  Il legislatore della legge 27 marzo 2001 n. 97 sembra avallare la prima tesi, disponendo l'art. 445 c.p.p. novellato attraverso il richiamo all'art. 653 c.p.p., l'efficacia di giudicato non solo della sentenza di assoluzione, ma anche quella di condanna a pena patteggiata.

                  Ad ogni modo, dopo la novella legislativa, non si può dubitare della parificazione operata sul piano del valore probatorio.

                  Significativa appare ai fini del  valore da attribuire alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti in un giudizio diverso da quello penale, la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione - Sez. Tributaria (cfr. 10 dicembre 1998, n. 11301 e 17 gennaio 2001, n. 630) secondo la quale la sentenza ex art. 444 c.p.p. costituisce “un importante elemento di prova circa la percezione di illeciti proventi e, quindi, della produzione di un reddito imponibile”.

                  Tale elemento di prova circa l'effettivo compimento dei fatti costituenti reato potrà esere disatteso nel giudizio di merito solo nel caso in cui il contribuente spieghi le ragioni per cui ha ammesso una responsabilità penale e il giudice non lo abbia assolto.

                  In sostanza la richiesta di pena patteggiata non comporta un accertamento invincibile di responsabilità, come invece accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento ex art. 651 c.p.p., ma può essere contestato in un giudizio diverso da quello penale fondato sui medesimi fatti attraverso la prova della inattendibilità della veridicità dei fatti versati nel giudizio penale iniziando dai motivi per i quali è stato chiesto di patteggiare la pena pur non essendo il richiedente autore dei fatti illeciti.

                  Ne consegue che nei giudizi diversi da quello penale, pur non essendo precluso al giudice l'accertamento e la valutazione dei fatti difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444 c.p.p., questa assume particolare valore probatorio vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie.

                  Quanto alle prove formatesi nel giudizio penale, queste possono essere acquisite nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile per essere oggetto di valutazione del giudice in questa sede, nella quale possono essere oggetto di contestazione e di dialettica processuale.

9.             Nella applicazione degli enunciati principi al caso di specie va rilevato che la prova del comportamento illecito tenuto dall'appellante è supportata da un complesso univoco e concordante di atti ed elementi tratti dal giudizio penale relativo ai medesimi fatti.

                  Per vero l'appellante afferma che la tangente da lui percepita per cui è condanna in sede penale non si riferisce al collaudo dei materassi forniti dalla ditta Politex in esecuzione del contratto n.44178 del 21 settembre 1993 ma ad altra vicenda.

                  Tale affermazione dell'appellante è fondata sulla circostanza che in sede penale all'Averna era stata contestata la percezione di una somma di £.10.000.000 (e non di £.15.000.000 unitamente con il De Maria ed il Simone come contestato dal Procuratore regionale della Corte dei conti), per di più riferendosi ad un contratto del valore di £.1.462.500.000, il cui uno per cento è pur a £.14.625.000 e non lire 15.000.000.

                  In proposito va rilevato quanto segue:

                  -il collaudo dei beni di cui al contratto n.44178 è stato effettuato in due tempi (23 maggio 1994 e 28 giugno 1994) con probabile pagamento delle tangenti in due tranches;

                  -la vicenda penale conclusasi con la sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.p. iniziò nell'ottobre 1995 ed aveva ad oggetto i collaudi relativi ai periodi di poco precedenti, e quindi anche il contratto con la ditta Politex di che trattasi;

                  -in sede penale non è rilevante l'esatta determinazione della somma percepita quale tangente, venendo in rilievo fondamentalmente i fatti costitutivi del reato ascritto;

                  -nell'atto di citazione del Procuratore regionale viene affermato che le tangenti pagate erano pari circa all'uno per cento del valore del contratto e non che erano pari alla lira a tal valore;

                  -che è del tutto irrilevante ai fini dal presente giudizio accertare se l'intera tangente venne consegnata personalmente all'Averna dal datore, ovvero fu consegnata ad altro soggetto coinvolto nella vicenda e quale sia stato il soggetto che ha materialmente consegnato la somma di denaro. Ciò che importa è accertare se l'Averna abbia percepito o meno la tangente, quale che siano state le modalità delle dazioni.

                  D'altro canto l'Averna avrebbe potuto assai agevolmente dimostrare che la vicenda penale riguardava altro contratto con la ditta Politex indicando il diverso contratto per il quale era stato condannato in sede penale, fatto se rispondente al vero, a lui ben noto.

                  Il comportamento dell'Averna va valutato anche per questo aspetto secondo i principi fissato dagli artt.88 e 116 c.p.c.

                  Non v'è, infine, negli atti processuali neppur un indizio che nel periodo di tempo considerato la Politex abbia fornito all'Amministrazione della difesa materassi, da collaudarsi dal CERACOMILES di Milano, in esecuzione di contratto diverso dal n.44178.

                  A fini probatori possono essere pertanto utilizzati la condanna a pena patteggiate ex art.444 c.p.p., gli atti versati in tale sede come le dichiarazioni confessorie rese dal rappresentante della Politex in ordine al pagamento delle tangenti e le dichiarazioni confessorie rese da altri soggetti.

                  Rilevante, a fine di prova, è anche il contesto corruttivo nel quale lo specifico episodio si è inserito, dal quale risulta, per dichiarazione resa dagli stessi percettori delle tangenti, il sistema in uso presso il CERACOMILES di Milano di percepire una somma rapportata all'uno per cento dell'appalto in sede di collaudo dei beni e la costituzione di un fondo comune per l'uso di tali somme.

                  Come si vede un imponente ed univoco materiale probatorio attesta non solo il versamento di tangenti nel caso specifico ma anche e soprattutto un comportamento generalizzato di percezioni di tangenti in occasione di ogni appalto collaudato dal CERACOMILES di Milano.

                  Nel descritto contesto il comportamento illecito dell'Averna non è ravvisabile solo nell'aver percepito tangenti nello specifico caso (come in un'altra serie di casi), ma anche nel non aver posto fine e denunciato l'esistenza di una prassi corruttiva di estrema gravità perché coinvolgente tutti gli appalti. Il comportamento omissivo da parte di ufficiali superiori preposti al servizio (e che avevano quindi l'obbligo di vigilare sulla regolarità delle operazioni oltre a quelle previste in Costituzione per il loro status) è stato comunque causativo dei danni arrecati all'Amministrazione, in quanto non ha impedito un evento che avevano l'obbligo di impedire. In tal senso ai fini della causazione del danno non appare neppure rilevante la percezione o meno da parte loro di somme provenienti da tangente nello specifico caso, esistendo comunque il nesso di causalità tra il loro comportamento omissivo e il danno subito dalla P.A.

                  Quanto alla esistenza ed alla quantificazione del danno vanno posti in rilievo i seguenti elementi rilevanti anche in una visione prospettica del danno:

- la corresponsione di tangenti in occasione del collaudo di ciascuna fornitura di merci, tra l'altro commisurata a percentuali su prezzo, non solo può aver secondo l'id quod plerumque accidit, inciso sulla formazione del prezzo di appalto o sulla qualità della merce nello specifico caso (cfr. Cass. SS.UU. 4 aprile 2000 n. 98) ma, proprio per la sua generalizzazione, ha determinato effetti distorsivi sugli appalti. Infatti gli imprenditori nel fare la loro offerta hanno dovuto tener conto anche della tangente quale elemento di costo ovvero, per non commettere un illecito penale, non hanno partecipato alla gara. E' di tutta evidenza infatti che comportamenti corruttivi generalizzati vengono conosciuti tra tutti i soggetti del settore e che, quindi, almeno la gran parte degli imprenditori del settore erano a conoscenza del sistema tangentizio.

                  Dal sistema sono così derivati effetti economico-sociali rilevanti, riflettendosi sia sui prezzi degli appalti sia sulla corretta aggiudicazione degli appalti. Sotto quest'ultimo profilo la dimensione quantitativa delle merci occorrenti all'esercito può aver anche determinato attraverso aggiudicazioni di appalti non corretta effetti distorsivi del mercato e della concorrenza;

- il comportamento illecito è stato tenuto da ufficiali di grado elevato preposti al servizio. La loro posizione soggettiva non solo ha facilitato l'illecito, ma ne ha impedito la scoperta e può aver dissuaso imprenditori onesti dal denunciare i fatti;

- detto comportamento in quanto tenuto da ufficiali di grado elevato hanno dato all'esterno l'immagine di un comportamento dell'Amministrazione pubblica, in uno dei settori, quale quello della Difesa, immediatamente riconducibile alla sovranità dello Stato ed alla tutela dei beni essenziali e fondanti dello Stato comunità, inteso non al raggiungimento ottimale dei fini pubblici, ma alla ricerca di illeciti vantaggi economici personali dei soggetti di vertice dell'Amministrazione;

- la necessità per l'Amministrazione, se correttamente organizzata e se doverosamente sensibile agli effetti dirompenti dei comportamenti tenuti dagli odierni appellanti, di modificare la propria organizzazione e di individuare e potenziare più incisivi sistemi di controllo.

                  Dal complesso di questi elementi risulta evidente che il danno all'immagine subito dall'Amministrazione, da quantificare equitativamente ex art. 1226 c.c., è di gran lunga superiore al modestissimo importo della condanna rapportata esclusivamente alla tangente percepita, e perciò rapportata esclusivamente al singolo episodio.

                  Da quanto sopra consegue il rigetto dei motivi di appello.

10. In sede di discussione orale il difensore dell'Averna ha invocato la sentenza di questa Sezione n.208/2003 resa nei confronti di De Maria e Simone in sede di appello avverso la sentenza della Sezione territoriale n.1921/2001, chiedendo che la condanna dell'Averna venga limitata con il vincolo della solidarietà alla somma complessiva stabilita nella sentenza n.208/2003 invocando il disposto dell'art.1306 c.c.

                  Indipendentemente dalla superabilità dei termini per la proposizione del motivo di gravame, va in ogni caso affermata la inammissibilità di qualsiasi eccezione o deduzione proposta per la prima volta in sede di discussione orale al di fuori delle modalità e termini previsti dagli artt.170 e 190 c.p.c.

                  A fini di giustizia va, peraltro, rilevato che la richiesta è del tutto infondata.

                  Erroneamente il giudice di primo grado nella sentenza n.1921/2001 ha fatto applicazione di un “ibrido” tra obbligazione solidale ed obbligazione parziaria. Infatti, estromesso dal giudizio l'Averna, ha condannato il De Maria ed il Simone ai due terzi del danno richiesti dal Procuratore regionale, facendo applicazione dei principi dell'obbligazione parziaria, ma contemporaneamente li ha condannati in solido tra loro. L'Averna, poi, con la sentenza impugnata è stato condannato all'ulteriore terzo di danno e perciò secondo i principi dell'obbligazione parziaria e senza alcun vincolo di solidarietà. Ai sensi del comma 1 quinquies dell'art.1 della l.n.20/1994 e successive modificazioni i concorrenti nell'unico fatto dannoso che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo (nel presente caso sotto entrambi i profili) sono responsabili solidalmente. Elemento tipico dell'obbligazione solidale è che ciascuno dei debitori può essere costretto all'adempimento per la totalità (mentre l'adempimento da parte di uno libera tutti). Il giudice di primo grado avrebbe dovuto, pertanto, condannare ciascun debitore all'intero con il vincolo di solidarietà con gli altri condebitori, anche attraverso più sentenze, non sussistendo in ipotesi di azione di condanna litisconsorzio necessario tra tutti i condebitori solidali.

                  L'erroneità delle sentenza di primo grado in ordine alla solidarietà non può però essere rilevata in questa sede in mancanza di gravame sul punto, così come non vi è stato sul punto appello nel giudizio conclusosi con la sentenza di questa Sezione n.208/2003.

                  E', pertanto, passato in giudicato il punto di decisione che la condanna dell'Averna è avvenuta a titolo parziario.

                  Va ancora notato che con la sentenza n.208/2003 è stata ridotta la condanna del De Maria per ragioni personali di tale condebitore (sua partecipazione ad uno solo dei collaudi). Pertanto la sentenza, essendo fondata in parte qua su ragioni personali del De Maria, non può essere opposta al creditore dall'Averna ai sensi del secondo comma dell'art.1306 c.c.

                  Conclusivamente vanno rigettati tutti i motivi di gravame e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata.

11. Vanno a questo punto esaminate le richieste del Procuratore Generale relative alla cancellazione di talune espressioni contenute nell'atto di appello dell'Averna nonché alla sua condanna ex art.96 e 89 c.p.c.

                  Indubbiamente talune espressioni usate dal difensore dell'Averna nel gravame appaiono eccedenti la dialettica processuale ed inutilmente offensive.

                  Va, pertanto, ordinata la cancellazione nell'atto di apello dell'Averna delle seguenti parole:

-a pagina 10 alla riga undicesima le parole “così sconclusionato così”.

-a pagina 10 alla righe quindici e sedici le parole “imbocca una strada incognita e dagli esiti imprevedibili”.

-a pagina 11 alle righe dieci, undici e dodici le parole da “una attività” sino a “l'ordinamento”.

-alla pagina 14 alle righe sedici e diciassette tutto l'inciso racchiuso in parentesi da “ma”, sino a “£.15.000.000”.

                  Non possono essere invece accolte le ulteriori richieste della parte pubblica.

                  Infatti l'art.96 c.p.c. è applicabile in ipotesi di temerarietà della lite e non della assoluta infondatezza di talune tesi sostenute.

                  E' d'altro canto fuori discussione il principio della libera appellabilità delle sentenze anche per motivi non fondati (e salvo a valutare ove esistenti limiti per la proposizione del singolo gravame), quale espressione applicativa dell'art.24 Cost.

                  Quanto alla richiesta di condanna ex art.89 c.p.c. il collegio non ritiene che le frasi usate siano di tale gravità da dover dar luogo al risarcimento del danno, mentre è sanzione sufficiente la loro cancellazione dall'atto nel quale sono contenute.

                  Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

                  La Corte dei Conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello:

a) rigetta il gravame proposto da Salvatore Averna avverso la sentenza in epigrafe;

b) ordina la cancellazione nell'atto di appello dall'Averna dalle parole indicate in parte motiva;

c) condanna l'appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in euro 269,97 ( duecentosessantanove/97

                  Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 27 aprile 2004.

L'ESTENSORE                                                           IL PRESIDENTE

f.to Nicola Mastropasqua                                                                   f.to Tullio Simonetti

                  Depositata in Segreteria il  18/06/2004

IL DIRIGENTE

f.to MARIA FIORAMONTI