N.
272/2005REL
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
PER LA
REGIONE TOSCANA
composta dai seguenti magistrati:
Prof. Giancarlo GUASPARRI Presidente
Dott. Carlo GRECO Consigliere
Dott. Leonardo VENTURINI I Ref. relatore
ha pronunciato la seguente
Nel giudizio
di responsabilità, iscritto al n. 53474/R
del registro di segreteria ad istanza della Procura regionale nei
confronti di
1) CHECCHI cav. Americo, via della Furicaia
n.18, PESCIA, rapp. e difeso dall'avv.to Bechi del foro di Pistoia, el.te
dom.to presso lo studio dell'avv.to
Buiani in Firenze, via Venezia 14;
2) GUIDI
dott. Galileo, via Cap. Maraviglia n.1, PESCIA, rappresentato e difeso dagli
avv.ti A. Cuccurullo del Foro di Firenze e M. Guidi del Foro di Pistoia, el.te
dom.to presso lo studio del primo in Firenze, Lungarno Vespucci n. 20;
3) SVENJAK
dott. EDOARDO, via Pieve S.Stefano trav. VI, n.186/A, S.Alessio, LUCCA,
rappresentato e difeso dall'avv.to B. Valeriani ed el.te dom.to presso il suo
studio in Firenze, via Masaccio n. 172;
4) SBRAGIA
dott. Claudio, via Bruno Baronti n.80, MONSUMMANO TERME, rappresentato e difeso
dall'avv.to G. Morbidelli, el.te dom.to presso il di lui studio in Firenze via
A. La Marmora 14;
5) NARDUCCI
Daniele, via XVII Aprile 1859 n.17, PESCIA, rapp. e dif. dagli avv.ti A. Pucci
Narducci e C. Rosellini ed el.te dom.to preso il loro studio in Firenze, via
Ponte Vecchio n. 2;
6) GIORGI
Roi, via IV Novembre n.16, loc. Medicina, PESCIA, rappresentato e difeso dall'avv.to Prof. Duccio M. Traina ed el.te
dom.to presso il di lui studio in Firenze, via A. La Marmora, 14;
7) SIMONI
Siro, via della Torre n.12, PESCIA rappresentato e difeso ut supra;
8) D'AMADDIO Roberto, via
Prepassa n.28, loc. Castellare, PESCIA, rapp. e difeso ut supra ;
9) GUIDI Angelica, via Lorenzini
n.18, PESCIA, rappresentata e difesa dall'avv.to C. Perugini ed el.te dom.ta
presso il suo studio in Firenze, Lungarno Vespucci n. 20;
Uditi, nella
udienza pubblica del 17 novembre 2004, con l'assistenza del segretario sig.ra
Pellino, il I Ref. relatore dott. Leonardo Venturini, gli avv.ti C. Strufaldi
su delega dell'avv.to Bechi per Checchi, A. Cuccurullo e Guidi M. per Guidi, A.
Pucci per Narducci, E. Burlamacchi in
sostituzione e per delega degli avv.ti Morbidelli e Traina per Sbragia,
D'Amaddio, Simoni e Giorgi, D. Valeriani per Svenjak ed il Pubblico Ministero
Nicola Bontempo.
Visti gli
altri atti e documenti della causa;
FATTO
I. Con
atto di citazione depositato presso la segreteria di questa Sezione in
data 7 aprile 2004 la locale Procura ha citato i convenuti di cui sopra per
sentirli condannare al pagamento delle somme dappresso specificate, ciascuno
secondo l'individuata partecipazione causale al danno, più interessi dalla
condanna al soddisfo.
In fatto, l'Ufficio remittente
tratteggia la seguente vicenda, da cui sarebbe derivato nocumento erariale: con
deliberazione n.84 del 15.03.1985 il Consiglio Comunale di Pescia, con effetto
di dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità ed urgenza, approvava
il progetto di realizzazione di un parcheggio pubblico a servizio della zona
ospedaliera, stabilendo in 12 e 36 mesi i termini, rispettivamente, per
l'inizio e la conclusione delle procedure espropriative. Con successiva
deliberazione della Giunta Municipale n.1399 del 03.12.1985 veniva autorizzata
l'occupazione d'urgenza delle aree occorrenti, senza determinazione
dell'occupazione stessa e, pertanto, con l'effetto di rendere applicabile il
termine di anni cinque previsto dall'art. 20 L. 865/1971, secondo
l'interpretazione giurisprudenziale prevalente, seguita dalla Procura e
copiosamente richiamata (v. TAR Lazio,I,9.2.2000 n.850; T.Sup.Acque, 12.2.1998
n.7; T.Sup.Acque, 7.6.1993 n.65; C.Stato, IV, 19.12.1990 n.1012; TAR Toscana,
I, 28.9.1989 n.858; C.Stato, IV, 18.11.1980 n.1082); ciò, d'altro canto, vi è
premura di precisare nell'atto di citazione, entro il termine di scadenza della
dichiarazione di pubblica utilità (v. ex plurimis Cass., I, 15.07.2002 n.10251;
Cass., I, 29.08.2002 n.12650; TAR, Catania, 18.10.1997 n.2033; Cass., I,
08.11.1994 n.9266), e, dunque, con termine al 15.03.1988. Viene reso noto a questa Sezione che l'occupazione d'urgenza dei fondi
veniva poi concretamente effettuata in data 28.01.1986; di questo dato fattuale
la Procura sottolinea l'incontestabilità dato che, pur in mancanza del
reperimento agli atti del Comune di Pescia del relativo verbale (la ricerca,
effettuata al fine di dare esecuzione a decreto di esibizione della Procura, è
risultata lacunosa, come da attestazione del Segretario Generale di quel
Comune), può ritenersi certo sulla scorta di quanto riferito nella relazione
30.04.1993 dal C.T.U. della causa civile R.G. n. 2762/1990 svoltasi dinanzi al Tribunale
di Pistoia che ivi dà conto essere in atti detto verbale (come doc. n. 1 delle
produzioni attoree). Venivano ultimate, il giorno 21.06.1988, le opere (come risulta dalla citata
relazione di C.T.U. 30.04.1993), e l'occupazione d'urgenza scadeva (anche a
volerla ritenere prorogata di un biennio ex art.14 D.L. 29.12.1987 n.534 conv.
con L.29.02.1988 n.47), senza che fosse stato emesso il decreto di esproprio;
come risulta anche dalla specifica attestazione emessa addì 25.06.1997 dal
Segretario Generale del Comune di Pescia ed allegata, sub B), alla relazione di
C.T.U. del 10.09.1997 prodotta agli atti di causa.
Pertanto, ne conseguiva l'acquisizione
a titolo originario della proprietà dei fondi in capo all'Amministrazione
comunale (cd. accessione invertita) ed insorgenza in capo al già proprietario
dei fondi stessi del diritto al risarcimento dei danni.
Dai fatti
esposti traeva origine una controversia giudiziaria: infatti, con atto di
citazione del 13.11.1990 la CONCERIA CECCHI & C. S.p.A., già proprietaria
dei fondi, conveniva il Comune di Pescia dinanzi al Tribunale di Pistoia per
sentirlo condannare al pagamento dell'indennità di esproprio e di occupazione
secondo il valore del bene all'attualità; precisa la Procura che detta domanda, per essere formulata quando l'accessione
invertita si era già verificata, doveva intendersi riferita al risarcimento del
danno (per l'esposta interpretazione si citano da ultimo Cass., S.U.,
21.07.1999 n. 484; Trib. Sup. Acque 05.06.2000 n.84), aspetto di pretesa, peraltro,
dalla parte attrice specificato in corso di giudizio.
Il Comune di
Pescia si costituiva in giudizio resistendo alla domanda attorea. In corso di
causa veniva espletata C.T.U. (sono agli atti le relazioni del 30.04.1993 e 10.09.1997), la quale stimava il
valore del fondo al 21.06.1988 (data di ultimazione delle opere) in
£.60.869.000.
In sede di
integrazione della C.T.U. (v. relazione del 10.09.1997), stimava, altresì, il
consulente, che il danno da accessione invertita ex art.5-bis comma 7-bis D.L.
333/1992 conv. con L.359/2992, dovesse determinarsi nella ridetta somma di £.
60.869.000 maggiorata del 10%, come previsto da detta disposizione.
A tale
valore il C.T.U perveniva considerando come il bene fosse privo di rendita
catastale, e, dovendo perciò stimarsi quella presunta, questa fosse da
ritenersi pari al valore venale, e che, pertanto, “dovendo fare la media
aritmetica fra due valori identici, il risultato è ancora lo stesso valore, per
cui il sottoscritto ritiene di indicare anche l'indennità di espropriazione ai
sensi dell'art.5-bis della L.359/1992, in £. 60.869.000.” La mancata adozione
del decreto di esproprio nei tempi dovuti, è uno degli elementi di addebito,
come dappresso meglio si specificherà, indicando anche gli ipotizzati
responsabili secondo l'Ufficio requirente. Secondo la Procura, poi, la
metodologia di calcolo del citato CTU sarebbe errata, posto che, allorchè il
bene sia privo di rendita catastale il valore da assumere a base di calcolo
quale uno dei due elementi della media prescritta dall'art.5-bis D.L. 359/1992
deve essere pari a zero (cfr. in proposito App.Firenze, 173/1996). Il valore di
esproprio sarebbe dunque, al 21.06.1988 (che, dato il brevissimo lasso di
tempo, deve ritenersi valido anche per il marzo dello stesso anno, epoca di
cessazione della validità della dichiarazione di p.u. e, dunque, per ciò
stesso, anche della occupazione d'urgenza) pari alla metà del valore venale maggiorato nella misura del 10%, e
cioè 33.477.950. Peraltro il profilo contenzioso non perveniva ad esito con
statuizione in seno al processo, ma veniva risolto in via stragiudiziale.
Ancora in corso di giudizio, con determina n.285 del 25.05.2000 il Segretario
Generale del Comune di Pescia dott. Claudio SBRAGIA, quale responsabile del
Servizio Affari Generali, accettava la transazione con la Conceria Cecchi &
C. SpA consistente nel pagamento alla controparte, a saldo e stralcio di ogni
sua pretesa, la somma di £. 165.000.000. La determina subordinava
l'accettazione di detta transazione alla condizione sospensiva del
riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Consiglio Comunale.
Il Consiglio
Comunale procedeva a deliberare in data 28.09.2000 (delibera n.71) il
riconoscimento del debito fuori bilancio col voto favorevole dei consiglieri
GIUNTOLI Renzo, SIMONI Siro, BRIZZI Vittoriano, PUTRONE Antonino, BIRINDELLI
Alessandro, GIURLANI Oreste, GIORGI Roi, ASTA Alessandra, GUIDI Angelica,
TROIANO Antonio, BINDI Fabio, D'AMADDIO Roberto.
Veniva,
quindi, sottoscritto (dal Segretario Generale), in data non precisata (l'atto
ne è privo ) ma verosimilmente compresa tra il 23.10.2000 (in detta data il
legale di controparte glielo trasmetteva per la firma) e il 06.11.2000 (in
detta data l'Avv. Arizzi comunicava al Comune di avere ricevuto l'atto formato dalla
controparte e dal Segretario Generale, che, peraltro, ricusava di firmare),
l'atto di transazione.
La somma
veniva poi liquidata con determina n.223 del 30.03.2001 del Segretario
Generale. Rileva la Requirente che la transazione veniva dal Segretario
Generale conclusa senza e contro il parere del difensore del Comune, Avv.
Arizzi, che si limitava a prenderne atto e, come detto, ricusava di
sottoscriverla (v. in proposito note 29.05.2000 e 06.11.2000 dell'Avv. Arizzi
al Comune; nota 25.05.2000 del Segretario Generale all'Avv. Arizzi),
comportamento ritenuto contrario (la costante assistenza e l'apporto
collaborativo del patrocinatore) a
regola di comune buon senso, ancora prima che di corretto operare
amministrativo, atteso anche che per le amministrazioni dello Stato la
consultazione con l'Organo Legale è addirittura obbligatoria per legge.
Seguendo la metodologia espositiva della Procura stessa, nella presente vicenda
verrebbero in rilievo tre ordini di somme con riferimento alle quali vanno
delineate le responsabilità circa le quali si dibatte: a) una prima somma - £.
57.214.779 (€ 29.548,97) pari alla somma di £. 30.434.500 (€ 15.718,11) e gli
interessi legali su detta dal 1988 al 2000 in £. 26.780.279 (€ 13.830,86) - è
quanto sarebbe stato dovuto nell'ipotesi di corretta procedura espropriativa “(potendo
al riguardo, prescindersi dalla riduzione del 40% ex art.5-bis, che, quanto
agli espropri già conclusi all'entrata in vigore dell'art.5-bis, è raramente
applicato in giurisprudenza)”. Detto importo non viene ritenuto danno; B)
costituisce invece danno erariale la somma di £. 76.431.646 (€ 39.473,65) “pari alla somma di £. 3.043.450 (€
1.571,81) quale 10% del valore di esproprio ex art.5-bis), di £. 2.672.227 (€
1.380,09) per interessi dal 1988 al 2000 sul £ 3.043.450, di £. 21.406.917 (€
11.055,75) quale rivalutazione, infatti, l'indennità di esproprio, siccome
debito di valuta, non avrebbe soggiaciuto, ex art. 1124 c.c.), e di £.
49.309.052 (€ 25.466,00) per interessi dal 1988 al 2000 sulla rivalutazione di
£. 33.477.950 computata anno per anno come da Cass., SU, 1712/1995- è (s.e.o.)
l'aggravio dovuto al maturare dell'accessione invertita”; c) la ritenuta
eccessiva onerosità della transazione di cui sopra si è detto, conduce all'individuazione
di un ulteriore danno quantificato in £. 31.353.575 (€ 16.192,77) quale somma residua fino a concorrenza
dell'importo di £. 165.000.000 (€ 85.215,39) versate transattivamente alla
controparte citante. Per quanto attiene alle individuali responsabilità, la
Procura ritiene che la somma indicata sopra sub B) coinvolge coloro che omisero
di curare che il procedimento espropriativo si concludesse con l'adozione di
decreto di esproprio, cagionando così, a carico dell'erario, l'aggravio dovuto
ai maggiori importi dovuti per il risarcimento da accessione invertita. I
responsabili di detto danno sono stati individuati nel Sindaco dell'epoca dott.
GUIDI Galileo (cui competeva l'adozione del decreto di esproprio e la
sovrintendenza sull'intera organizzazione comunale), nell'Assessore ai LL.PP.,
competente in materia di espropri per esecuzione di oo.pp., in capo
all'assessore Cav. CHECCHI Americo (che, nell'ambito della sua competenza,
aveva obblighi di sovrintendenza analoghi a quelli spettanti al Sindaco
sull'intero Comune), nel responsabile dell'U.O. LL.PP. dott. SVENJAK Edoardo,
nonchè nel Segretario Generale dott. LA ROSA Antonio (cui competeva la
vigilanza sull'organizzazione comunale e sull'esecuzione delle deliberazioni),
peraltro deceduto e la cui quota resta a carico dell'erario mancando le
condizioni per la trasmissione ereditaria della responsabilità. Come detto, la
somma indicata sub c), invece, attiene alla ipotizzata responsabilità di coloro
che, stipulando l'atto transattivo, senza adeguata ponderazione e senza e
contro il parere del difensore del Comune, sostiene l'Ufficio remittente,
avrebbero cagionato a carico dell'erario un aggravio superiore a quello che, in
difetto, sarebbe conseguito a titolo di risarcimento per la maturata accessione
invertita. Responsabili sarebbero, allora, coloro, tra i consiglieri comunali,
che presero parte alla seduta della commissione (ed ebbero perciò modo
maggiormente e più in dettaglio di esaminare la stessa) e che poi approvarono
in assemblea la delibera n. 71 (vale a dire GIORGI Roi, SIMONI Siro, D'AMADDIO
Roberto, GUIDI Angelica), e, inoltre e soprattutto, secondo la Procura, il dr.
SBRAGIA Claudio, che, con condotta che si ritiene connotata da colpa grave, fu
soggetto di prioritario rilievo nelle definire il contenuto e nel formalizzare
la transazione senza l'ausilio, rimarca la Procura, del difensore del Comune in giudizio, né dando rilievo e ponendo
la necessaria riflessione sull'esorbitanza della somma, ed al quale è dunque
ritenuto addebitabile in maniera prevalente il danno.
Avrebbe
altresì perpetrato illecito di responsabilità amministrativo-contabile
l'Assessore alle Finanze e Bilancio NARDUCCI Daniele. Non si ritiene
condivisibile, infatti, la ricostruzione operata dalla difesa dello stesso in
occasione dell'invito a dedurre non recependo la Procura la tesi che a lui -che
tanto in sede di commissione quanto in sede di assemblea ebbe a svolgere le
funzioni di relatore- incombesse solo
l'esame della situazione finanziaria generale, senza alcun riferimento alle
singole vicende dalle quali sorgevano i debiti il cui riconoscimento il
Consiglio era chiamato a deliberare su proposta dello stesso NARDUCCI.
Vi era poi “pienezza
di valutazioni e di poteri decisionali da parte del Consiglio circa la
riconoscibilità o meno dei debiti fuori bilancio de quibus (tanto più che il
riconoscimento del debito da parte del Consiglio costituiva espressamente
condizione sospensiva della transazione tra l'.A.C. e la CONCERIA CECCHI SpA)“
cui “corrispondeva e non poteva non corrispondere, viceversa, analoga
pienezza di responsabilità da parte di chi quel riconoscimento -che comportava oneri a carico del bilancio
e che, inverando la prevista condizione sospensiva, rendeva pienamente effettiva
la transazione di cui trattasi- proponeva”.
Così
completata l'esposizione delle ragioni, in fatto e diritto, alleate dalla
citante, la stessa perviene, in sintesi alle seguenti conclusioni requisitorie,
venendo in rilievo secondo tesi di accusa, allora, la responsabilità, secondo
quote uguali (o secondo quelle, diverse, che saranno ritenute di giustizia), di
:
· dott. GUIDI Galileo,
· cav. CHECCHI
Americo,
· dott. SVENJAK
EDOARDO,
· dott. LA ROSA
Antonio, che però è medio tempore deceduto e la cui quota, quindi, resta a
carico dell'erario per il danno elencato sopra sub b) (Euro 39.473, 65).
Per quanto attiene il danno costituito dalla somma
sub c) (euro 16.192,77), viene posta in rilievo la responsabilità del :
· Segretario
dott. Claudio SBRAGIA;
· Assessore al
Bilancio NARDUCCI Daniele;
· dei
consiglieri comunali che approvarono la delibera n.71 determinando la efficacia
e vincolatività della transazione GIORGI Roi, SIMONI Siro, D'AMADDIO Roberto,
GUIDI Angelica i soli, in capo ai quali, nell'ambito del Consilio comunale
(GIUNTOLI, SIMONI, BRIZZI, PUTRONE, BIRINDELLI, GIURLANI, GIORGI, ASTA, GUIDI,
TROIANO, BINDI, D'AMADDIO), viene ravvisato il requisito della colpa grave. In
particolare, il danno “de quo” va ripartito (salvo diversa ripartizione secondo
il convincimento di questa Sezione):
- per il 50% a carico del dott. SBRAGIA Claudio;
- per il 10% a carico dell'Ass. NARDUCCI Daniele;
- per il 40% a carico (per 1/12 ciascuno) ai citati
consiglieri comunali, - per 1/12 ciascuno a carico dei consiglieri GIORGI Roi,
SIMONI Siro, D'AMADDIO Roberto, GUIDI Angelica.
L'ing. Svenjak, con breve ma esaustiva
memoria difensiva, in relazione alla pregnanza della tesi di difesa che adduce,
rileva che, premesso che ad egli viene addebitato il danno per l'avvenuta
occupazione acquisitiva e che il relativo nocumento - permanendo, “medio
tempore”, il potere di adottare il definitivo decreto di esproprio - si è verificato al termine della legittima
occupazione acquisitiva, segnala che, al momento della scadenza di efficacia di detta occupazione di urgenza,
(marzo 1988), non era più responsabile dell'U.O.LL.PP. del comune di Pescia.
Il dott. Galileo Guidi, dal canto suo,
eccepisce in via preliminare l'inammissibilità dell'azione per mancato rispetto
dei tempi concessi dalla legge - 120 giorni -
fra l'invito a dedurre, dato che il periodo concesso per fornire le
predette deduzioni sarebbe scaduto il 24.12.2003, e l'emissione dell'atto di
citazione, notificato il 26 aprile 2004. Inoltre rileva l'avvenuta
prescrizione, atteso che i cinque anni previsti in tal senso per l'istituto
della responsabilità amministrativa dovrebbero trovare il loro decorso iniziale
il 21.6.1988, data dalla quale si sono venuti a creare i presupposti per
l'istituto dell'accessione invertita. Quale altro motivo di eccezione
rappresenta l'ipotesi giustificativa del suo ruolo di organo politico che,
quindi, secondo le recenti innovazioni (art. 1, comma 1-ter della L. 14 gennaio
1994, n. 20, come novellato dalla L. n. 639 del 1996), in tema di
responsabilità amministrativa, non coinvolgono lo stesso nelle questioni di
carattere tecnico proprie dei competenti uffici, approvati o autorizzati in
buona fede dai predetti organi politici. Inoltre rileva l'insussistenza del
danno erariale asseritamene causato dal suo operare, in ragione della specifica
normativa vigente al tempo dei fatti a lui addebitati, che prescriveva il
ristoro da occupazione acquisitiva secondo il pieno valore venale del bene e
non la dinamica indennitaria, parzialmente satisfattiva, ancorchè dichiarata
legittima dalla Consulta, successivamente introdotta normativamente: tesi
difensiva che lambisce anche aspetti comuni al convenuto Sbragia, e che tra
poco si esporrà.
L'eccezione di prescrizione, dovendosi il “dies a
quo” farsi risalire, per quanto lo riguarda, dal momento della verificazione
dell'occupazione acquisitiva è avanzata anche dal convenuto Checchi, il
quale rileva, in subordine, anche l'insussistenza del requisito della colpa
grave a suo carico. Secondo la difesa
del convenuto Sbragia, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura è
destituita di ogni fondamento poiché non è ravvisabile il presupposto oggettivo
della imputata responsabilità, in quanto il comportamento tenuto dal comparente
con la sottoscrizione della transazione, lungi da arrecare danno all'erario,
avrebbe evitato al Comune di far fronte a ben più ingenti esborsi.
Secondo la tesi difensiva che si espone, infatti,
l'ammontare del risarcimento del danno arrecato alla Conceria Cecchi a fronte
dell'occupazione del fabbricato e della realizzazione dell'opera pubblica, non
doveva essere determinato ai sensi del richiamato comma 7 bis dell'art. 5 bis
D.L. 333/1992 conv. in legge 359/1992, ma, invece, tenendo conto esclusivamente
del valore venale dell'immobile per le seguenti ragioni:
oggetto dell'occupazione di cui si discute non
furono "aree" ovvero "fondi" ma un fabbricato. La
fattispecie in questione, presenta, infatti, come oggetto di
espropriazione un'area edificata e non
soltanto edificabile. Ciò si evince, si rileva, da quanto rappresentato nella
CTU resa in data 30.4.1993, ove il perito dà atto che "in data 28.1.1996,
come verbalmente in liti, fu preso possesso con urgenza, da parte
dell'Amministrazione Comunale, di una porzione del fabbricato sopra citato, e
più precisamente della porzione termine a Nord". Tale circostanza
escluderebbe in radice che l'indennità
dovuta al proprietario a fronte di una
espropriazione ovvero il risarcimento dei danni dovuto dalla P.A. a fronte del
verificarsi dell'accessione invertita, possa essere determinato ai sensi del
più volte citato art. 5 bis d.l. 333/1992 conv. in l. 359/1992. In tal senso deporrebbe la costante interpretazione
giurisprudenziale che, in sostanza, afferma che “il criterio indennitario
introdotto dall'art. 5 bis I. 8 agosto 1992 n. 359, ed il meccanismo di
determinazione del risarcimento del danno da occupazione appropriativa che ad
esso si collega, di cui al comma 7 bis L. 22 dicembre 1996 n. 662, è
applicabile alle sole aree edifìcabili, cioè ai suoli suscettibili di
edificazione ma non ancora edificati al momento dell'imposizione del vincolo
ablatorio, ma non ai fabbricati con aree annesse. Ne deriva quindi che per un fabbricato con area annessa va liquidato il
risarcimento integrale del danno (si citano Cassazione civile, sez. I, 24
novembre 1998, n. 11911. Nello stesso senso fra le tante, Cass., Sez. I,
20.2.2003, n. 2580; Cass., Sez. I, 13.6.2000, n. 7202).
D'altronde non varrebbe l'obiezione che tale fabbricato sia stato demolito per
la realizzazione dell'opera pubblica. Al riguardo si cita sempre giurisprudenza
a suffragio dell'argomentazione secondo la quale "quando oggetto di
espropriazione sia un fabbricato con latistante terreno, il manufatto
costituisce un'entità economica da valutarsi come bene autonomo, il cui valore
deve essere considerato in aggiunta al valore del suolo, effettuando la
liquidazione corrispondente con riferimento al valore di mercato per l'edificio
(comprensivo di area di sedime, che da esso non è scindìbile né autonomamente
apprezzabile), senza che rilevi il fatto che il fabbricato sia destinato
dall'espropriante alla demolizione". (Cass., Sez. I, 26.3.2004, n. 6091. Nello stesso senso, Cass., Sez. I,
11.4.2001, n. 5370). Dovendosi corrispondere il valore di mercato del bene, quindi,
l'atto transattivo che si ipotizza costituisca fonte di danno è, al contrario,
un risparmio per l'ente comunale in questione, dovendosi tener conto anche
delle evitate spese giudiziarie (dato il valore della controversia, che rientra
nello scaglione compreso fra 200 e 500 milioni, l'attività svolta - redazione
atto di citazione, esame Ctu, esame supplementi istruttori partecipazione a
udienze, redazione comparse conclusionali, redazione memorie di replica,
secondo le tariffe professionali - D.M. 31.10.1985 e P.M. - avrebbero condotto
ad un esborso di Lit. 8.000.000);
l'opera pubblica è stata completata dopo la
scadenza del termine fissato per la fine della procedura espropriativa e dei
lavori. Di conseguenza la irreversibile trasformazione del suolo e la
realizzazione dell'opera pubblica è avvenuta in un momento in cui non vi era
una valida dichiarazione di pubblica utilità per scadenza dei relativi termini.
In questo caso, come affermato dalla costante giurisprudenza "non si
produce automaticamente l'effetto acquisitivo a favore della p.a. ed il
proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato e, se a tanto non
ha interesse e quindi vi rinunzi, può avanzare domanda di risarcimento del
danno, che deve essere liquidato in misura integrale" (Cassazione civile,
sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853) È stato altresì chiarito che "in tema di
espropriazione, l'occupazione cosiddetta "appropriativa" va distinta
dalla cosiddetta "occupazione usurpativa", confìgurabile, a differenza
della prima, soltanto in assenza (originaria o sopravvenuta) di una
dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, così che l'acquisizione del bene
alla mano pubblica non consegue automaticamente (come nell'occupazione
appropriativa) all'irreversibile trasformazione di esso, ma è logicamente e
temporalmente successiva, e dipende da una scelta del proprietario usurpato
che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per una tutela
(integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria
" (Cassazione civile, sez. 1, 28 marzo 2001, n. 4451 ).
Secondo un terzo profilo difensorio la tesi attorea
per cui la rendita catastale, da sommare al valore venale debba essere pari a
zero sarebbe equiparazione - che in sostanza conduce ad un "brutale"
dimezzamento dell'ammontare del risarcimento dei danni subiti - palesemente in
contrasto con il principio affermato dalla Corte Costituzionale che, pur
ritenendo legittimo l'art. 5 bis, ha sottolineato come l'indennità di
espropriazione debba costituire un serio ristoro al sacrificio imposto al
privato (sent. 20.11.1985, n. 296).
In conclusione, il risparmio transattivo viene così
quantificato:
a) la somma che "l'A. C. comunque avrebbe
pagato anche in caso di esproprio legittimamente concluso" e che - anche
secondo la Procura - non rappresenta danno erariale è pari a:
aa) Lit.
60.869.000 (anziché Lit. 30.434.500 come sostiene la Procura) quale valore
venale del bene;
ab) più Lit.
54.048.337 (anziché Lit. 26.780.279 come sostiene la Procura) a titolo di
interessi legali su Lit. 60.869.000 dal 15.3.1988 (data di scadenza della
dichiarazione di P.U.) al 23.10.2000 (data di sottoscrizione della
transazione);
c) più Lit. 6.545.502 (voce di cui la Procura non
ha tenuto conto) a titolo di indennità di occupazione legittima per il periodo
compreso tra il 28.1.1986 e il 15.3.1988 (indennità che corrisponde agli
interessi legali sull'indennità di espropriazione, pari, nella specie, al
valore venale del bene);
d) più Lit.
5.812.047 (voce di cui la Procura non ha tenuto conto) a titolo di interessi
legali su Lit. 6.545.502 di cui sub c), dal 15.3.1988 al 23.10.2000.
Complessivamente, applicando gli stessi criteri di
calcolo indicati - e tenendo conto del corretto ammontare di quanto alla
Conceria Cecchi dovuto a titolo di espropriazione (che ammonta - si ripete - al
valore venale del bene) nonché tenendo conto dell'indennità di occupazione
legittima - l'importo ammonta a Lit. 127.274.88 (anziché Lit. 76.431.646 come
sostiene la Procura). Si esclude quindi il danno.
Proseguendo nell'esame delle tesi difensive, il Narducci,
premesso che il predetto Segretario Generale del Comune di Pescia, Dott.
Claudio Sbragia, attenendosi ad un indirizzo della Giunta Municipale concordato
anche con il Collegio dei Revisori dei Conti, svolse con meritorio impegno una
lunga attività di ricognizione e accertamento dello stato delle liti pendenti a
carico del Comune di Pescia, al fine di rendere esplicito il costo prevedibile
a carico del Bilancio comunale di quelle liti per le quali erano alte le
probabilità di soccombenza del Comune, rileva come si presentasse conveniente,
tenuto conto della somma da corrispondere per l'occupazione acquisitiva, degli
interessi e delle spese processuali, l'ipotesi transattiva: nessuna
responsabilità può essere ascritta
al Narducci stesso, allora, in merito
alla definizione del quantum della transazione, poichè la sua funzione quale
Assessore alle Finanze e Bilancio e relatore in commissione consiliare Finanza
e Bilancio, si è concretizzata nella partecipazione all'adozione dell'indirizzo
impartito dal Dott. Sbragia, al quale, ai sensi del combinato disposto
dell'art.107 T.U.E.L. 267/2000 e dell'art. 16 comma 1 lett. f) del D. Lgs.
165/2001, "in qualità di dirigente spetta unicamente il potere di consiliare
e transigere". Inoltre, oltre alla
valutazione dell'opportunita di raggiungere un accordo transattivo, indirizzo
proposto dal segretario - dirigente Dott. Sbragia, vi era stato il parere
favorevole di regolarità tecnica e contabile rilasciata dal Ragioniere Capo
(documentazione prodotta in atti) ed infine parere ancor più rilevante e
fondamentale era quello favorevolmente espresso dal Collegio dei Revisori del
Conti, massimo organo contabile dell'ente.
Gli organi tecnici avevano, dunque, ravvisato l'opportunità
e la congruità di approvare la proposta di transazione, sulla base di una dovuta previa
effettuazione dei riscontri contabili in ordine all'esistenza dl debiti fuori
bilancio e sull'andamento degli accertamenti ed impegni, sia nella gestione dei
residui che in quella di competenza. In sostanza, quindi, la commissione, e
l'assessore referente nella stessa esprime, un parere politico, amministrativo,
consultivo e non obbligatorio. Argomentazione ribadita anche dal Giorgi,
dal D'Amaddio, dal Simoni e dalla Guidi Angelica che,
inoltre, riprende le eccezioni di inammissibilità già avanzate dal Guidi
Galileo, per la tardività dell'atto di citazione, così come l'esenzione da
responsabilità nell'ipotesi di comportamento in buona fede osservato dall'organo
politico a fronte di atti di competenza degli uffici tecnici.
Nella pubblica udienza del giorno 17 novembre 2004,
le parti hanno ribadito e precisato quanto illustrato nei rispettivi atti. In
particolare il Pubblico Ministero, nella persona del S.P.G. dott. Nicola
Bontempo, si è premurato di soffermarsi con maggiori dettagli su taluni punti
di particolar rilievo nella dialettica processuale: anche con l'ausilio di note
di udienza, non introduttive di alcun nuovo “thema decidendum” ha contestato
quanto asserito da alcuni convenuti nelle memorie depositate in merito alla
temporalità dell'ultimazione dell'opera e alla sussistenza di un'occupazione
acquisitiva.
Tutti i patroni hanno sottolineato i vizi delle
tesi - richiamandosi alle memorie depositate - della Procura e delle
metodologie di quantificazione del danno fatte proprie dalla stessa
Al termine della pubblica udienza la causa è stata
trattenuta in decisione;
I. Va, in primo luogo, nell'ambito delle
eccezioni di rito, esaminata l'eccezione di inammissibilità ricollegata al
mancato rispetto dei 120 giorni che devono decorrere fra il termine concesso
per fornire le deduzioni e la proposizione dell'atto di citazione. Detto
termine è stato rispettato, fondandosi le rigettate eccezioni su di un errato
presupposto, ovvero il computo finale del termine considerando il momento della
notifica dell'atto di citazione laddove è giurisprudenza pacifica che nel giudizio amministrativo-contabile
l'impedimento del termine perentorio di 120 giorni posto al p.m., per emettere
l'atto di citazione, stabilito dall'art. 5 comma 1 d.l. 15 novembre 1993 n.
453, conv. dalla l. 14 gennaio 1994 n. 19 e ulteriormente modificato dalla l.
20 dicembre 1996 n. 639, si verifica a seguito del deposito di tale atto nella
segreteria della sezione giurisdizionale competente (“ex multis” Corte Conti,
sez. I, 3 ottobre 2003, n. 340/A).
I.b) Sempre nel contesto della delibazione delle
eccezioni preliminari di rito, va ora posta al vaglio l'eccezione di
prescrizione sollevata dal convenuto Guidi. Questa risulta destituita di
fondamento, in quanto riposa - la decisione del Collegio - sull'essersi
consumato il termine quinquennale facendo (e solo in questo caso detto termine risulterebbe oltrepassato)
ricorso all'oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza della
responsabilità amministrativa, secondo la
quale, essendo l'evento danno elemento costitutivo della relativa
fattispecie, è da quando detto nocumento si realizza con le caratteristiche
della concretezza, certezza ed attualità che inizia la decorrenza del “ dies a
quo” prescrizionale (Corte Conti, sez. riun., 15 gennaio 2003, n. 2/Q); e, nel
caso in cui l'irreversibile trasformazione del bene intervenga durante il
periodo di occupazione legittima, il fatto illecito si concretizza alla
scadenza dell'occupazione, sicché da tale momento decorre il termine
quinquennale per esperire l'azione di risarcimento dei danni derivanti
dall'occupazione acquisitiva (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 11 dicembre 2003,
n. 3860). Peraltro non va taciuto l'indirizzo che ravvisa il “tempus “del
nocumento erariale non nell'evento materiale o nella formazione del titolo
legittimante una spesa o una mancata entrata, ma - nelle fattispecie in cui
questo nocumento si concretizza - nel fattuale esborso, indirizzo che, calato
in ipotesi similare a quella che qui ne occupa, ha condotto ad affermare che
sussiste la responsabilità per danno erariale a carico di sindaco per l'esborso
di somme effettuato dal Comune a titolo di risarcimento danni da occupazione di
fondi (suoli), per avere omesso, in qualità di capo dell'amministrazione
comunale, di attivare e perfezionare le procedure per l'esproprio dei medesimi.
”Pertanto, il "dies a quo" della prescrizione del danno erariale
coincide con il momento in cui l'ente locale ha effettuato il pagamento delle
somme”. (Corte Conti, sez. II, 2 maggio 2001, n. 157/A).
II. precedente giurisprudenziale citato
anticipa, e per certi versi risulta più incidente ai fini della soluzione - in
senso negativo rispetto alle tesi di difesa - la sollevata questione di
giurisdizione in ragione della vantata esimente politica vantata dal sindaco
Guidi G. e dall'assessore Guidi A. Nel primo caso, l'eccezione è infondata per
due motivi: per l'insussistenza della buona fede, dato che risulta conforme ai
canoni di buona diligenza richiedibili all'organo politico di vertice di
amministrazione comunale essere vigile sul corretto andamento di una procedura
di esproprio; in secondo luogo perché il decreto, non adottato nei tempi di
rito, non era, all'epoca, competenza dirigenziale, sopravvenuta con la l. n.
142 \90 e la normativa susseguente (si veda, peraltro, la generale disposizione
dell'art. 45 comma 1 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, in base al quale le
disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di
atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3
comma 2 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, si intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti, T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 17 giugno 2003, n.
4091) ma del capo dell'amministrazione comunale, a ciò delegato dall'art. 1
della LR Toscana n. 50 del 1984, stante l'attribuzione alla legislazione
regionale delle funzioni amministrative in materia di procedimenti ablatori
(art. 106 DPR n. 616/1977). Pertanto, l'omessa definizione del procedimento
ablativo per carenza nell'adozione del decreto di espropriazione è imputabile
al sindaco sia in relazione all'inosservanza dei termini di legge per
l'emanazione del decreto di esproprio sia per la perpetrata violazione del
dovere di impartire direttive all'apparato amministrativo, e di vigilare
sull'esecuzione dei singoli adempimenti connessi alla procedura per pubblica
utilità (C.Conti reg. Lazio, sez. giurisd., 10 febbraio 2004, n. 496; C.Conti
reg. Calabria, sez. giurisd., 10 aprile 2003, n. 347); argomentazione similare
va svolta per quanto attiene l'addebitata responsabilità del consigliere
comunale Guidi Angelica, in quanto a questi viene imputatoa la censurabile
mancata accortezza nell'adozione di un
atto proprio quale la relazione, l'esame collegiale e l'approvazione di un atto
transattivo.
“Vanno infatti ravvisati comportamenti illeciti,
caratterizzati altresì da colpa grave, nel comportamento della Giunta (Consiglio,
“mutatis mutandis”) che abbia deliberato di resistere, senza un effettivo
fondamento e per fini meramente dilatori, all'azione di risarcimento di danni
proposta dal proprietario di immobili occupati d'urgenza "sine
titulo"; ne consegue che, in tal caso, i componenti dello Giunta rispondono
a titolo di colpa grave per le maggiori spese erogate dall'ente per
corresponsione d'interessi legali e rifusione di costi legali (Corte Conti,
sez. II, 19 novembre 2003, n. 320/A).
III. Passando ad esaminare la controversia nel
merito, la vicenda sottoposta al vaglio della Corte impone una sintetica
esposizione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui la stessa si
inserisce, necessariamente considerato sotto un profilo diacronico, data la -
come dappresso si denoterà - stratificazione del interventi sia del legislatore
che delle Corti. La fattispecie in esame richiama l'istituto che è stato
definito come espropriazione sostanziale, locuzione comprensiva di due fenomeni
contigui, seppur differenziati dalla sussistenza o meno di un dichiarato pubblico
interesse: la c.d. occupazione appropriativa e quella usurpativa cui fanno
riferimento, con diverse opzioni interpretative, come si è visto in narrativa,
le parti avverse. La prima trova la sua genesi teorica con la pronuncia delle Sezioni Unite 26
febbraio 1983, n.1464 per consolidarsi in successive pronunce (fra cui SS.UU.10
giugno 1998, n.3490) fino a diventare diritto vivente. In particolare, si è
statuito, essi si configurano secondo i seguenti tratti distintivi: a) la
trasformazione irreversibile del fondo, con destinazione ad opera pubblica o ad
uso pubblico, che determina l'acquisizione della proprietà alla mano pubblica;
b) il fenomeno, in assenza di formale decreto di esproprio, ha il carattere
dell'illiceità che si consuma alla scadenza del periodo di occupazione
autorizzata (e, quindi, legittima) se nel frattempo l'opera pubblica è stata
realizzata, oppure al momento della trasformazione qualora l'ingerenza nella
proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere
perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di
occupazione legittima; c) l'acquisto a favore della p.a. si determina soltanto
qualora l'opera sia funzionale ad una destinazione pubblicistica e ciò avviene
solo per effetto di una dichiarazione di p.u. formale o connessa ad un atto
amministrativo che, per legge, produca tale effetto, con conseguente esclusione
dall'ambito applicativo dell'istituto di comportamenti della p.a. non collegati
ad alcuna utilità pubblica formalmente dichiarata (viene qui in rilievo, allora
la sopra menzionata nozione di occupazione usurpativa): ciò può avvenire o per
mancanza “ab initio” della dichiarazione di p.u. o perché questa è venuta meno
in seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza
dei relativi termini. In tale ultima ipotesi, il predetto effetto acquisitivo
non si produce a favore della p.a. ed
il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato anche se, qualora
non vi abbia interesse il proprietario medesimo può optare per la domanda di risarcimento del danno, che deve
essere liquidato in misura integrale, formulando così un implicito negozio
abdicativo del diritto dominicale); d) da ultimo va detto che il soggetto che
ha subito l'ablazione di fatto, per ottenere il risarcimento del danno, ha
l'onere di proporre domanda in sede giudiziale entro il termine di prescrizione
quinquennale (art. 2947), la cui decorrenza è ancorata alla data di scadenza
dell'occupazione, oppure al momento dell'irreversibile trasformazione del
fondo, se essa è avvenuta dopo quella scadenza (o in assenza di decreto di
occupazione d'urgenza, ma sempre nell'ambito di valida dichiarazione di p.u.).
Nei suoi tratti sintetici, quindi, come da
interpretazione consolidata, l'occupazione acquisitiva indica la perdita da
parte del proprietario e il contestuale acquisto a titolo originario da parte
della pubblica amministrazione della proprietà di un terreno, non fatto oggetto
di espropriazione, a seguito della sua irreversibile trasformazione derivante
dalla realizzazione di un'opera pubblica. Altri elementi salienti
dell'istituto sono rappresentati poi: dal vincolo per la p.a. di
risarcire il danno corrispondente al valore del fondo, oltre agli interessi e
alla rivalutazione monetaria; dall'inefficacia dell'eventuale atto di esproprio
intervenuto dopo l'acquisizione; infine, e in particolare, dal presupposto
costituito dall'occupazione del terreno a seguito della dichiarazione di
pubblica utilità dell'opera da realizzare. Viene chiaro da quanto detto che
è la mancanza della dichiarazione di
p.u. a rappresentare l'elemento
caratterizzante l'occupazione usurpativa, e discriminante rispetto a quella
appropriativi, figura individuata dalla giurisprudenza a partire dal 1997.
L'assenza del titolo abilitativo, impedendo il collegamento teleologico fra
l'occupazione e le finalità pubbliche perseguite dal procedimento
espropriativo, comporta il diverso trattamento della fattispecie, consistente
anch'essa nella trasformazione, non accompagnata dall'espropriazione, di un
fondo privato a seguito dell'esecuzione di un'opera pubblica: mancando il
titolo che giustifichi la prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato,
non si verifica l'effetto estintivo-acquisitivo della proprietà. Il privato
pertanto può esperire i normali rimedi possessori e petitori, a meno che egli,
a fronte della compromissione del terreno causata dalla realizzazione
dell'opera, non preferisca chiedere il risarcimento del danno, da apprezzarsi
come rinuncia abdicativa implicita della proprietà. Come già sopra a tratti
delineato, la cosiddetta occupazione acquisitiva non si realizza nell'ipotesi
(di occupazione cosiddetta usurpativa) in cui la dichiarazione di pubblica
utilità manchi ovvero debba ritenersi giuridicamente inesistente per essere
carente dei suoi caratteri essenziali tipici, fra i quali la prefissione dei
termini richiesti dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1985 per il compimento
delle espropriazioni e dei lavori, configurandosi in tal caso soltanto una mera
occupazione - detenzione illegittima dell'immobile privato, inquadrabile
nell'illecito di cui all'art. 2043 c.c., con, in particolare, il conseguente
diritto dell'interessato, il quale non intenda conseguire la restituzione del
bene, di ottenere l'integrale risarcimento del danno, senza applicazione del
criterio riduttivo previsto dall'art 5 bis, comma 7 bis (introdotto dall'art.
3, comma 65, della legge n. 662 del 1996) d.l. n. 333 del 1992 (conv., con
modif., legge n. 359 del 1992; Cassazione civile, sez. I, 16 maggio 2003, n.
7643) Inoltre, il danno va integralmente risarcito e in ordine al relativo
diritto non corre la prescrizione, permanendo in capo al privato la proprietà.
In sintesi, allora, riassumendo quanto detto, la realizzazione di un'opera pubblica
su un'area di proprietà privata, in mancanza di provvedimento autorizzativo
della sua occupazione ovvero ad avvenuto decorso dei términi di occupazione
legittima, determina l'acquisto originario della proprietà da parte della P.A.;
e la posizione del proprietario inciso
viene in tal caso a qualificarsi come diritto al risarcimento del danno per la
perdita del bene (il principio è stato enunciato, come detto, da Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1983, n.
1464).
Il termine per l'esercizio di tale diritto è quello
fissato dall'art. 2947 cod. civ., sulla base della qualificazione del
comportamento della P.A. come illecito aquiliano (v. Cass., sez. un., 25
novembre 1992, n. 12546).
Da tali illiceità scaturiscono, da un lato, la
scelta dell'ordinamento di non equiparare, per sanatoria, la fattispecie della
occupazione appropriativa a quella della espropriazione per pubblica utilità e,
dall'altro, la configurazione del ristoro del privato come risarcimento del
danno (e non come indennità), con conseguente prescrizione del relativo diritto
in cinque anni.
Per quanto concerne la decorrenza del términe
prescrizionale dell'azione risarcitoria, la prescrizione decorre sempre dalla
scadenza del periodo di occupazione legittima.
Occorre, tuttavia, distinguere; nel caso in cui
l'opera venga realizzata nel periodo di occupazione legittima, si deve
attendere, per l'inizio della prescrizione, la scadenza del termine di
occupazione d'urgenza, perché è solo in questo momento (laddove non sia stato
nel frattempo emanato un decreto di espropriazione) che si consuma l'illecito,
fonte del diritto al risarcimento del danno.
In ipotesi, invece, di occupazione illegittima per
totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini del
precedente provvedimento, è la radicale trasformazione del fondo che,
determinando la perdita della proprietà del bene da parte del privato,
costituisce illecito istantaneo ad effetti permanenti; tale illecito abilita il
privato stesso a richiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dalla
data della trasformazione, il risarcimento del danno.
Da ultimo, occorre ricordare che, in questa
pacifica ricostruzione del fenomeno della occupazione acquisitiva, l'eventuale
provvedimento di espropriazione, intervenuto successivamente alla estinzione
del diritto di proprietà per irreversibile trasformazione del fondo, deve
considerarsi privo di ogni rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario,
sia ai fini della responsabilità da illecito (cfr. Cass.: sez. I, 8 giugno
1979, n. 3243; sez. un., 16 febbraio 1983, n. 1464).
In sintesi, dunque, a compendio di quanto detto, ai
fini di quanto qui rileva, con particolare accento sul momento consumativo
dell'illecito:
- durante il periodo di occupazione legittima,
l'illecito si consuma allo scadere del provvedimento di occupazione d'urgenza
(cfr. Cass., sez. I: 29 novembre 1993, n. 11796; 22 febbraio 1994, n. 1725; 22
luglio 1994, n. 6825; 18 ottobre 1994, 8495; 20 ottobre 1994, n. 8567);
- dopo la scadenza del periodo di occupazione
legittima, l'illecito si consuma nel momento in cui si realizza la radicale
trasformazione del fondo occupato (cfr. Cass., sez. I, 12 aprile 1994, n.
3403);
- in caso di occupazione illegittima ab initio,
l'illecito si consuma nel momento della irreversibile trasformazione del fondo
(cfr. Cass., sez. I, 29 aprile 1994, n. 4174).
Va appena fatto cenno - tematica su cui si tornerà
con maggior dettaglio più tardi, che, se, invero, condizione della
realizzazione della cosiddetta "occupazione acquisitiva" è il fatto
che sia stata posta in essere la radicale trasformazione del terreno con
l'irreversibile sua destinazione alla realizzazione dell'opera pubblica, tale
condizione, che determina la impossibilità di restituzione del terreno, con la
conseguente perdita della proprietà dello stesso da parte del privato e la
ulteriore conseguente acquisizione della relativa proprietà da parte
dell'Amministrazione, deve dirsi realizzata, nella fattispecie che ne occupa,
nel giugno 1988, con la scomparsa definitiva dei caratteri originari del
terreno (che ha reso questo un “quid novi”, insuscettibile di utilizzazione
quale terreno).
E infatti il momento di radicale trasformazione del
bene costituisce, nel caso di specie, con l'estinzione del loro diritto di
proprietà conseguente a tale illecito istantaneo (seppure ad effetti
permanenti), il “dies a quo” della prescrizione del diritto al risarcimento del
danno subito dai privati interessati.
Quanto affermato può ritenersi sufficiente bagaglio
teorico per ritenere insufficienti le tesi difensive che si appuntano su due
valutazioni:
l'occupazione si è verificata non verso, nel
concreto, un terreno edificabile, ma un immobile, laddove allora il terreno su
cui poggia è terreno di sedime e l'occupazione non può prescindere
dall'illecita immissione in possesso di tale immobile;
l'opera non è stata terminata entro il periodo
statuito per l'occupazione - da ritenersi legittima - dato che la consegna ed
il collaudo della stessa è avvenuto dopo tale periodo, né sussisteva altro
lasso di tempo nel quale perdurava la dichiarazione di pubblica utilità, la cui
giuridica validità era da ritenersi già venuta meno.
Quanto al primo punto, oltre alla considerazione
che trattavasi di costruzione fatiscente, il cui restauro sarebbe peraltro
risultato più costoso di una nuova costruzione, deve qui valere la
considerazione che l'utilità cui tendeva l'amministrazione era il terreno, non
già l'immobile, la cui necessaria distruzione, per trasformare il relativo
terreno di sedime in superficie su cui edificare l'opera pubblica si configura da un lato come costo
aggiuntivo, dall'altro, per giusto rispetto del sacrificio imposto al privato,
e del suo diritto ad un giusto ristoro come maggiorazione di valore
dell'indennità, “sub specie” di un maggior somma legata ad uno degli elementi
costitutivi dell'indennità, il costo del bene. Giustamente, dunque, per le
ragioni anidette, la Procura reputa irrilevante la circostanza che
l'espropriante, per la realizzazione degli interventi cui l'esproprio era
destinato, debba procedere alla demolizione del manufatto. Detta irrilevanza è
ravvisabile quando, infatti, il manufatto insistente sull'area si trovi in
condizioni tanto degradate da non consentirne un qualche utilizzo se non a
seguito di quel tipo di ristrutturazione che consiste nella demolizione e
riedificazione (ed allora va ricordato -riprendendo giuste annotazioni della
citante - che “la nozione di
ristrutturazione edilizia ex art. 31, 1° comma, lett. d), I. 5 agosto 1978 n.
457, include anche la demolizione e la ricostruzione di un edificio
preesistente, a condizione, però, che l'eventuale diversità del nuovo organismo
edilizio rispetto a quello precedente consista nel ripristino o nella
sostituzione di alcuni elementi costitutivi del fabbricato stesso, nonché
nell'eliminazione, nella modifica o nell'inserimento di nuovi elementi o
impianti e non mai nella realizzazione dì nuovi volumi, in caso contrario
pervenendosi al nocivo risultato per cui sarebbe sufficiente la mera
preesistenza di un edifìcio per definire «ristrutturazione» qualunque nuova
realizzazione effettuata in luogo o sul luogo, di quello precedente.": (C.
Stato, V, 5.3.2001 n. 1246); laddove, invece "Il concetto di
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi
o su un edificio già da tempo demolito costituisce una nuova costruzione e
richiede un'apposita concessione edilizia." (C. Stato,V,1.12. 1999
n.2021). il costo allora, sarebbe superiore alla nuova edificazione su area
(originariamente) nuda; ed il valore di mercato (cui, ex art.39 L.2359/1865,
occorrerebbe far riferimento) del fondo è dato non dal manufatto (che, come tale, non ha alcuna autonoma “utilitas”,
e, dunque, alcun valore di scambio, e dunque di mercato) bensì dalla possibilità che sull'area di sedime sia
edificato (o ri-edificato) un manufatto di analoga volumetria.
E' di tutta evidenza come in questo caso (giuste
sono sul punto le espressioni della Procura)
la rilevanza del manufatto non è quella di costituire un bene avente una
propria funzionalità economica (rispetto alla quale l'area di sedime resti
inglobata e priva di autonomo rilievo) bensì e semplicemente quella di
conferire al suolo su cui insiste una capacità edificatoria e un indice di
edificabilità pari alla volumetria del fabbricato preesistente, anche a
prescindere agli indici di edificabilità risultanti dalle previsioni di piano
per la zona in cui l'area di che trattasi sia collocata.
In tal caso, infatti, non esiste una valutabilità
di scambio - e, dunque, un prezzo di mercato - del manufatto che non si
compendi e non si esaurisca nel prezzo del suolo; o, in altri termini, il
valore di mercato del manufatto altro non è (e non si differenzia dal) valore
-e dal prezzo- dell'area di sedime (se ed in quanto) avente un indice di
edificabilità pari alla volumetria del manufatto esistente (e da demolire). Nel
caso di specie, si ricava dalla documentazione in atti, in particolare da
quanto detto dal CTU della causa civile svoltasi dinanzi al Tribunale di
Pistoia tra l'A.C. di Pescia e la Conceria Cecchi nella relazione datata
30.04.1993, il quale oltre ad avere prodotto significativa documentazione
fotografica ha riferito che "da un punto di vista estrinseco, la posizione
è abbastanza centrale e comunque molto ben servita, mentre da un punto di vista
intrinseco le strutture in esame, oltre che vetuste e globalmente modeste, non
risultavano tali da permettere, se non con interventi di pesantissimo
rifacimento, una certa flessibilità di impiego." Segnala la Procura che,
in mancanza di interventi manutentivi, detta condizione dell'immobile ha
portato, in seguito al crollo del tetto e al conseguente intervento dei W.FF.,
all'emissione di ordinanza sindacale contingibile ed urgente volta alla
eliminazione di una situazione di grave pericolo per la pubblica incolumità.
Per quanto attiene al concetto di irreversibile
destinazione del bene, ed ai suoi criteri identificativi, vale quanto segue,
anche ripetendo, per chiarezza espositiva,
nozioni già toccate.
Quest'ultima figura, come è noto e già illustrato,
va mantenuta distinta dalla c.d. "occupazione usurpativa" -
denominazione coniata dalla I Sezione civile della Corte di Cassazione 18
febbraio 2000 n. 1814 - che si verifica in relazione alle aree occupate in
assenza di originaria dichiarazione di pubblica utilità formalmente dichiarata,
o per mancanza ab initio della dichiarazione o perché questa è venuta meno in
seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei
relativi termini.
L'occupazione appropriativa (o acquisitiva) del
terreno è anch'essa, come detto, figura di elaborazione pretoria, - oggi
positivamente valutata in sede di vaglio di costituzionalità (Corte cost. sent.
n. 188 del 1995, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) - risalente ad una decisione
delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 1464 del 1983), per la quale,
si ripete, la radicale trasformazione del fondo occupato dalla Pubblica
Amministrazione, quando implichi la sua irreversibile destinazione alla
realizzazione di un'opera pubblica, si traduce in un illecito di natura
istantanea che comporta l'estinzione della proprietà del privato e la
contestuale acquisizione della stessa, a titolo originario, da parte dell'ente
costruttore, per cui il diritto al risarcimento del danno del privato per la
perdita della proprietà si prescrive nel termine di cinque anni e il
provvedimento espropriativo, emesso dopo la consumazione dell'illecito diventa
irrilevante, in ragione dell'avvenuta estinzione della proprietà privata.
Per la precisione, si rammenta quanto detto sopra,
una volta intervenuta l'irreversibile trasformazione del terreno legittimamente
occupato in virtù di un provvedimento d'urgenza per la realizzazione di
un'opera dichiarata di pubblica utilità, l'accessione invertita (od occupazione
acquisitiva) a favore della Pubblica Amministrazione si verifica a seguito
della semplice cessazione del periodo di occupazione legittima del fondo senza
che sia stato ancora emanato il decreto di espropriazione, a nulla rilevando il
fatto che il distinto termine finale per l'adozione dell'atto ablatorio non sia
ancora decorso (Cass. civ. 3 maggio 1991 n. 4848; Cons. St. Sez. IV 11 luglio
2001 n. 3882).
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa,
mostra di ritenere essenziale - al fine dell'individuazione del momento
temporale in cui sia da considerarsi verificato il fenomeno della c.d.
occupazione acquisitiva - la nozione di ultimazione sostanziale dell'opera
pubblica programmata, quella cioè in grado di imprimere al bene occupato
alterazioni fisiche e funzionali non emendabili, attraverso la realizzazione di
tutte le componenti essenziali dell'opera stessa, anche se necessitino ancora
completamenti e rifiniture per la sua effettiva destinazione a fini pubblici
(Cons. St. Ad. Plen. n. 1 del 7 febbraio 1996).
In altri termini (vedi anche Cass. Sez. I 3 maggio
1996 n. 4086) il momento in cui il bene occupato subisce un'irreversibile
trasformazione ad opera pubblica si verifica quando l'opera assume di fatto le
caratteristiche proprie dei beni cui appartiene : così, nel caso di una strada,
essa, per assumere i connotati minimi suoi propri, deve rivelare l'astratta
idoneità ad essere percorsa come tale, anche se ancora priva di opere
accessorie destinate a renderne l'uso più agevole e sicuro ed a consentirne in
concreto l'effettiva apertura al traffico, restando in ogni caso escluso che,
ai fini della decorrenza della prescrizione, possa aver rilievo la data del
collaudo.
Ancor più duttile si rivela il parametro
individuato dalla pronuncia del 27 maggio 1999 n. 5166 sempre della medesima
Sezione I della Cassazione, secondo cui il fenomeno dell'occupazione acquisitiva
si può realizzare:
- anche prima dell'ultimazione dei lavori,
allorquando il suolo abbia subito una radicale (ma non necessariamente perpetua
ed ineliminabile) trasformazione nel suo aspetto materiale, in modo da perdere
la sua conformazione fisica originaria e da risultare stabilmente ed
inscindibilmente incorporata, quale parte distinta e non autonoma, nel nuovo
bene costituito dall'opera stessa;
- ovvero, anche in assenza di una profonda modifica
materiale del fondo, purché si sia verificata una diversa collocazione nella
realtà giuridica, in relazione alla natura dell'opera realizzanda.
Le suesposte acquisizioni giurisprudenziali
ritornano utili per affermare che l'ultimazione sostanziale dell'opera pubblica
di cui si discute sia avvenuta allorquando non era ancora scaduto il
termine di validità quinquennale
dell'occupazione autorizzata, giusta indicazione emergente dal certificato di
ultimazione dei lavori rimasto
incontestato dai convenuti (per le argomentazioni esposte sopra si vedano anche,
analogamente, le pregnanti osservazioni di T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 14
ottobre 2003, n. 994). Infatti, se si considera la tipologia delle lavorazioni
che l'appaltatore doveva, per contratto, realizzare, costituite da:
· demolizioni
di porzioni di fabbricato;
• scavi
di sbancamento;
• scavi
di fondazione;
• calcestruzzo
cementizio per opere di fondazione e in elevazione;
• fognatura
bianca in tubi in cemento;
• fognatura
nera in tubi in PVC con pozzetti prefabbricati e chiusini in ghisa;
• canalizzazione
in PVC per l'alimentazione dei punti luce;
• impianto
di illuminazione pubblica;
• riempimenti
e massicciate stradali;
• bitumatura
delle aree destinate a parcheggio;
• sistemazione
dell'area a verde con opere in economia;
e si tiene conto che dette lavorazioni sono state
completamente ultimate, come risulta dalla documentazione afferente il
collaudo, in data 21.06.1988, nonché del tempo occorrente per la loro
esecuzione e per la loro tipologia e natura, non può non escludersi che il loro
stato di avanzamento alla data di cessazione degli effetti della dichiarazione
di p.u. fosse tale da comportare che, alla menzionata data fosse intervenuta la irreversibile
trasformazione dell'immobile occupato.
In conclusione, quindi, si deve affermare che, nel
caso di specie, si è assistito ad un piena fattispecie di occupazione
acquisitiva, che ha natura oggettivamente illecita e, nella vicenda che qui ne
occupa prospetta anche un comportamento
gravemente colposo di talchè si può sostenere che si è verificato un
comportamento di assoluta inerzia, mantenuto dal Sindaco e dal competente
Assessore che non soltanto manifesta carattere di evidente illiceità e di grave
dispregio nell'assolvimento dei doveri posti dai mandati elettivi in questione,
ma costituisce, di per sè soltanto, fatto causalmente rilevante e determinante
del danno indirettamente cagionato all'ente locale in conseguenza del
risarcimento chiesto ed ottenuto dai terzi danneggiati (Corte Conti, sez. II, 9
ottobre 2003, n. 286/A).
La sopra adombrata tematica del danno risulta,
però, nel caso di specie, più complessa. Il procedimento ablatorio avviato
dall'Amministrazione comunale in questione non poteva trovare più la sua fonte normativa nella legge 23 ottobre
1971 n.865 che aveva novellato la disciplina degli espropri, introducendo un
nuovo modello procedimentale, nuovi termini, nuovi criteri per calcolare
l'indennità di esproprio; va rammentato, infatti,che la Corte costituzionale
con la sentenza n.5/1980 aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art.16 della legge n.865/1971 e della legge n.247/1974, che stabilivano i
criteri di determinazione della indennità di esproprio dei terreni edificabili
facendo esclusivo riferimento al valore agricolo dei suoli, ed escludendo così
qualsiasi riferimento al valore derivante dalla edificabilità dei terreni; a
titolo di completezza nella ricostruzione del quadro normativo così come
delineatosi all'epoca, non può essere obliterato il successivo -alla predetta
decisione della Consulta - intervento del
legislatore, con la legge n.385 del
1980, ove veniva reintrodotto il criterio del valore agricolo (già, appunto
dichiarato incostituzionale della Corte costituzionale), ma solo a titolo di
acconto, salvo il conguaglio che le amministrazioni esproprianti avrebbero
corrisposto in futuro, non appena fosse entrata in vigore una nuova normativa,
entro termini di legge più volte prorogati; e però la Corte costituzionale, con
sentenza n.223 del 1983, annullava sia la legge n.385/1980, sia le varie leggi
di proroga, facendo quindi cessare definitivamente l'applicabilità dei criteri
di determinazione dell'indennità di esproprio introdotti dalla legge n.
861/1971; è stato allora compito della giurisprudenza definire l'indirizzo
secondo il quale che per tutte le espropriazioni in corso al momento della
pronuncia della corte costituzionale n. 5/1980 dovesse applicarsi, in luogo
della legge n. 865/1971, la disciplina della legge n. 2359/1865 la quale, in
relazione alla determinazione della indennità di esproprio, faceva riferimento
al libero valore di mercato dei suoli (art. 39); articolo che ha trovato
applicazione sino all'entrata in vigore del decreto - legge n. 333/1992,
convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992, il cui art. 5 bis ha
fissato nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione
per le aree edificabili. Nel lasso di tempo in cui il sindaco Guidi, prima
della cessazione del mandato, nel giugno 1988,
doveva adottare il decreto di esproprio quindi, i criteri di calcolo del
valore dell'indennità in relazione ad un bene espropriato con regolare
procedura ed i criteri di ristoro da risarcimento danno per l'illecita
acquisizione del bene, a seguito di irreversibile destinazione a pubblica
utilità di opera (l'enunciata occupazione acquisitiva, basantesi sul valore
effettivo del bene), risultavano coincidenti. E' la tardiva erogazione di detta
indennità, con il maturare degli interessi e rivalutazione che costituisce
danno all'amministrazione. Nella realtà, l'attesa, seppur colpevole, nel
definire la vicenda, ha causato un risparmio per l'erario, poiché, dallo “ius
superveniens” costituito dall'art. 5 bis della L. 359 del 1992 il valore
dell'occupazione acquisitiva, da quello venale è divenuto inferiore, anche dopo
l'intervento migliorativo (art. 3, comma 65, L. 662\1996), per il titolare del
bene espropriato, passato indenne al
vaglio della Consulta, che ha posto fine alla vicenda dell'indennizzo da atto
illecito definito dalla l. 662 del 1996 per le occupazioni perpetrate prima di
tale data. Pur se connotato da colpa grave, quindi, il comportamento del Guidi
e del Checchi non configura nella sua pienezza - data l'assenza
dell'indefettibile requisito del nocumento erariale - una fattispecie di
illecito da responsabilità amministrativa.
Ancora meno questo è ravvisabile nel comportamento
dello Svenjak, non più responsabile, poiché incardinato in altra
amministrazione, del settore opere pubbliche del comune di Pescia già da pochi
mesi dall'inizio dell'occupazione temporanea e nel lasso di tempo in cui era
ancora giuridicamente efficace la dichiarazione di pubblico interesse, e
sussistenti i termini per adottare il decreto di esproprio.
Occorre quindi allora valutare la responsabilità di
coloro che dettero luogo alla transazione appuntandosi l'analisi: 1)
sull'opportunità della transazione, con prioritario vaglio sul valore
dell'indennità; 2) sull'ampiezza delle loro mansioni nel valutare la
convenienza della transazione o, nel caso degli assessori comunali, nel
sindacare la proposta del segretario Sbragia. Quanto al primo punto, va subito
affermato che la stima del CTU è palesemente inattendibile, poiché
identificando la rendita catastale, di cui l'immobile espropriato era privo,
nel valore venale, così duplicato e poi diviso, dato l'aumento del 10%
normativamente previsto ha definito un valore di indennizzo superiore alla
perdita patrimoniale, quindi un arricchimento. E' ben vero che il principio del
serio ristoro cui deve essere connessa l'espropriazione,e, ancor più il canone
risarcitorio cui deve ispirarsi l'indennizzo da occupazione acquisitiva rendono l'interprete sensibile a recepire
con massima accuratezza i due parametri - valore venale e rendita catastale -
su cui appuntare il calcolo dell'indennizzo stesso. E' anche vero che la stessa
Consulta ha affermato che il principio di cui alla legge 662 del 1996, pur
discostandosi dal completo valore venale del bene, è legittimo. D'altro canto,
la carenza di una rendita catastale, e l'impossibilità di riferirsi a beni
limitrofi non può ridurre la stessa a zero; certo è che si tratta, essendo
fatiscente il bene in questione di un valore minimo, per il quale una perizia
aggraverebbe solo i costi processuali senza incidere sulla colpevolezza, come
si dirà, dei convenuti e sulla sussistenza di un danno, che si addebiterà
facendo uso del potere equitativo “ in bonis” rispetto alle richieste della
Procura.
Va però resa palese la colpevolezza dello Sbragia,
che addivenne ad una transazione che non prevedeva certo reciproche concessioni
come l'atto stesso prevede, a nulla rilevando il mancato computo, da parte
della Procura, dell'indennità di occupazione, minima, e della sussistenza di un
pozzo artesiano elemento valorizzato - per quanto meritasse - nel calcolo del
valor dell'immobile. Non è da sottovalutare il parere negativo del legale, non
da riferire solo ad una clausola omessa di trasferimento del bene (necessaria,
comunque, visto che non vi era accertamento circa la sussistenza di
un'occupazione acquisitiva), ma all'incertezza stessa della causa, che, tra
l'altro, presentava una mutazione della “causa petendi” (essendo stata iniziata
con un'opposizione alla stima del bene quando non si era ancora verificata
l'irreversibile trasformazione) e del cui esito non vi era assoluta certezza.
Negligente e frettolosa l'opera dello Sbragia, come poco vigilante il
comportamento dei Consiglieri convenuti che avevano ogni potere di sindacato
sulla transazione, la quale “ictu oculi” dava conto di un'incomprensibile
arrendevolezza del comune. Nella vicenda, quindi, il danno è costituito dalla
inopportunità palese di una transazione stipulata in tali termini. E colpevoli,
dunque, con la richiesta gravità, sono i consiglieri citati dalla Procura,
oltre il segretario comunale, atteso che il riconoscimento di debito fuori
bilancio esige - dovendosi utilizzare un' eccezionale potestà decisoria di
carattere finanziario - vigilanza, ponderazione ed accortezza. Va dato conto
delle corrette affermazioni della Procura, per la quale la transazione stipulata dal dr. Sbragia era sospensivamente
condizionata alla delibera del Consiglio Comunale, i cui componenti, quindi,
non possono utilmente eccepire di essersi limitati a riconoscere il debito
fuori bilancio nascente da quella transazione, avendo invece gli stessi, con la
delibera da loro approvata, consentito che quella transazione (che non era
ancora efficace e quindi vincolante per l'A.C., talché il debito non era perciò
ancora sorto) avesse effetto e corso. Va anche detto che nel caso di specie,
l'intento di definire una situazione che, comunque, rappresentava un torto
dell'Amministrazione verso il cittadino invoca l'uso del potere riduttivo.
Il dovuto ricorso ad una valutazione equitativa,
stante la difficoltà di definizione dell'indennizzo da occupazione
espropriativa, conducono ad addebitare a Sbragia Claudio la somma di € 2.000,00
comprensiva di interessi e rivalutazione, € 600,00 a Narducci Daniele, relatore
in seno alla
commissione di valutazione, ed € 2.000,00 divisa in eguali parti, per Giorgi Roi, Simoni
Siro, D'Amaddio Roberto e Guidi Angelica.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la
regione Toscana, in composizione collegiale, definitivamente decidendo
assolve
Guidi Galileo,
SVENJAK Edoardo e CHECCHI Americo per le ragioni di cui in motivazione con
spese compensate
condanna
SBRAGIA Claudio al pagamento della somma di €
2.000,00, NARDUCCI Daniele, alla somma di € 600,00, D'Amaddio Roberto, Giorgi
Roi, Simoni Siro e Guidi Angelica alla somma, in parti
eguali, di € 2.000,00 ai sensi di quanto in motivazione, per gli addebiti loro
rivolti.
Con
spese di giudizio a carico di questi ultimi, in proporzione della condanna e
complessivamente liquidate in € 1.147/03.(Euro millecentoquarantasette/03)…
Così deciso in Firenze nelle camere di consiglio
del giorno 17.11.2004 e 1.4.2005.
F.to Dott. L.
VENTURINI F.to
Prof. G. GUASPARRI
Depositata in
Segreteria il 16 MAGGIO 2005
F.to
Dr.Giovanni Badame