N. 272/2005REL

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE

PER LA REGIONE TOSCANA

composta dai seguenti magistrati:

Prof. Giancarlo GUASPARRI                                 Presidente

Dott. Carlo         GRECO                                        Consigliere

Dott. Leonardo VENTURINI                                 I Ref. relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nel giudizio di responsabilità, iscritto al n. 53474/R  del registro di segreteria ad istanza della Procura regionale nei confronti di

1)      CHECCHI cav. Americo, via della Furicaia n.18, PESCIA, rapp. e difeso dall'avv.to Bechi del foro di Pistoia, el.te dom.to  presso lo studio dell'avv.to Buiani in Firenze, via Venezia  14;

2)      GUIDI dott. Galileo, via Cap. Maraviglia n.1, PESCIA, rappresentato e difeso dagli avv.ti A. Cuccurullo del Foro di Firenze e M. Guidi del Foro di Pistoia, el.te dom.to presso lo studio del primo in Firenze, Lungarno Vespucci n. 20;

3)      SVENJAK dott. EDOARDO, via Pieve S.Stefano trav. VI, n.186/A, S.Alessio, LUCCA, rappresentato e difeso dall'avv.to B. Valeriani ed el.te dom.to presso il suo studio in  Firenze, via Masaccio n. 172;

4)      SBRAGIA dott. Claudio, via Bruno Baronti n.80, MONSUMMANO TERME, rappresentato e difeso dall'avv.to G. Morbidelli, el.te dom.to presso il di lui studio in Firenze via A. La Marmora 14;

5)      NARDUCCI Daniele, via XVII Aprile 1859 n.17, PESCIA, rapp. e dif. dagli avv.ti A. Pucci Narducci e C. Rosellini ed el.te dom.to preso il loro studio in Firenze, via Ponte Vecchio n. 2;

6)      GIORGI Roi, via IV Novembre n.16, loc. Medicina, PESCIA, rappresentato e difeso  dall'avv.to Prof. Duccio M. Traina ed el.te dom.to presso il  di lui studio in  Firenze, via A. La Marmora, 14;

7)      SIMONI Siro, via della Torre n.12, PESCIA rappresentato e difeso ut supra;

8)    D'AMADDIO Roberto, via Prepassa n.28, loc. Castellare, PESCIA, rapp. e difeso ut supra ;

9)    GUIDI Angelica, via Lorenzini n.18, PESCIA, rappresentata e difesa dall'avv.to C. Perugini ed el.te dom.ta presso il suo studio in Firenze, Lungarno Vespucci n. 20;

Uditi, nella udienza pubblica del 17 novembre 2004, con l'assistenza del segretario sig.ra Pellino, il I Ref. relatore dott. Leonardo Venturini, gli avv.ti C. Strufaldi su delega dell'avv.to Bechi per Checchi, A. Cuccurullo e Guidi M. per Guidi, A. Pucci per Narducci, E. Burlamacchi  in sostituzione e per delega degli avv.ti Morbidelli e Traina per Sbragia, D'Amaddio, Simoni e Giorgi, D. Valeriani per Svenjak ed il Pubblico Ministero Nicola Bontempo.

Visti gli altri atti e documenti della causa;

FATTO

I. Con  atto di citazione depositato presso la segreteria di questa Sezione in data 7 aprile 2004 la locale Procura ha citato i convenuti di cui sopra per sentirli condannare al pagamento delle somme dappresso specificate, ciascuno secondo l'individuata partecipazione causale al danno, più interessi dalla condanna al soddisfo.

In fatto, l'Ufficio remittente tratteggia la seguente vicenda, da cui sarebbe derivato nocumento erariale: con deliberazione n.84 del 15.03.1985 il Consiglio Comunale di Pescia, con effetto di dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità ed urgenza, approvava il progetto di realizzazione di un parcheggio pubblico a servizio della zona ospedaliera, stabilendo in 12 e 36 mesi i termini, rispettivamente, per l'inizio e la conclusione delle procedure espropriative. Con successiva deliberazione della Giunta Municipale n.1399 del 03.12.1985 veniva autorizzata l'occupazione d'urgenza delle aree occorrenti, senza determinazione dell'occupazione stessa e, pertanto, con l'effetto di rendere applicabile il termine di anni cinque previsto dall'art. 20 L. 865/1971, secondo l'interpretazione giurisprudenziale prevalente, seguita dalla Procura e copiosamente richiamata (v. TAR Lazio,I,9.2.2000 n.850; T.Sup.Acque, 12.2.1998 n.7; T.Sup.Acque, 7.6.1993 n.65; C.Stato, IV, 19.12.1990 n.1012; TAR Toscana, I, 28.9.1989 n.858; C.Stato, IV, 18.11.1980 n.1082); ciò, d'altro canto, vi è premura di precisare nell'atto di citazione, entro il termine di scadenza della dichiarazione di pubblica utilità (v. ex plurimis Cass., I, 15.07.2002 n.10251; Cass., I, 29.08.2002 n.12650; TAR, Catania, 18.10.1997 n.2033; Cass., I, 08.11.1994 n.9266), e, dunque, con termine al 15.03.1988. Viene reso noto a questa Sezione che l'occupazione d'urgenza dei fondi veniva poi concretamente effettuata in data 28.01.1986; di questo dato fattuale la Procura sottolinea l'incontestabilità dato che, pur in mancanza del reperimento agli atti del Comune di Pescia del relativo verbale (la ricerca, effettuata al fine di dare esecuzione a decreto di esibizione della Procura, è risultata lacunosa, come da attestazione del Segretario Generale di quel Comune), può ritenersi certo sulla scorta di quanto riferito nella relazione 30.04.1993 dal C.T.U. della causa civile R.G. n. 2762/1990 svoltasi dinanzi al Tribunale di Pistoia che ivi dà conto essere in atti detto verbale (come doc. n. 1 delle produzioni attoree). Venivano ultimate, il giorno 21.06.1988, le opere (come risulta dalla citata relazione di C.T.U. 30.04.1993), e l'occupazione d'urgenza scadeva (anche a volerla ritenere prorogata di un biennio ex art.14 D.L. 29.12.1987 n.534 conv. con L.29.02.1988 n.47), senza che fosse stato emesso il decreto di esproprio; come risulta anche dalla specifica attestazione emessa addì 25.06.1997 dal Segretario Generale del Comune di Pescia ed allegata, sub B), alla relazione di C.T.U. del 10.09.1997 prodotta agli atti di causa.

Pertanto, ne conseguiva l'acquisizione a titolo originario della proprietà dei fondi in capo all'Amministrazione comunale (cd. accessione invertita) ed insorgenza in capo al già proprietario dei fondi stessi del diritto al risarcimento dei danni.

Dai fatti esposti traeva origine una controversia giudiziaria: infatti, con atto di citazione del 13.11.1990 la CONCERIA CECCHI & C. S.p.A., già proprietaria dei fondi, conveniva il Comune di Pescia dinanzi al Tribunale di Pistoia per sentirlo condannare al pagamento dell'indennità di esproprio e di occupazione secondo il valore del bene all'attualità; precisa la Procura che detta domanda,  per essere formulata quando l'accessione invertita si era già verificata, doveva intendersi riferita al risarcimento del danno (per l'esposta interpretazione si citano da ultimo Cass., S.U., 21.07.1999 n. 484; Trib. Sup. Acque 05.06.2000 n.84), aspetto di pretesa, peraltro, dalla parte attrice specificato in corso di giudizio.

Il Comune di Pescia si costituiva in giudizio resistendo alla domanda attorea. In corso di causa veniva espletata C.T.U. (sono agli atti le  relazioni del 30.04.1993 e 10.09.1997), la quale stimava il valore del fondo al 21.06.1988 (data di ultimazione delle opere) in £.60.869.000.

In sede di integrazione della C.T.U. (v. relazione del 10.09.1997), stimava, altresì, il consulente, che il danno da accessione invertita ex art.5-bis comma 7-bis D.L. 333/1992 conv. con L.359/2992, dovesse determinarsi nella ridetta somma di £. 60.869.000 maggiorata del 10%, come previsto da detta disposizione.

A tale valore il C.T.U perveniva considerando come il bene fosse privo di rendita catastale, e, dovendo perciò stimarsi quella presunta, questa fosse da ritenersi pari al valore venale, e che, pertanto, “dovendo fare la media aritmetica fra due valori identici, il risultato è ancora lo stesso valore, per cui il sottoscritto ritiene di indicare anche l'indennità di espropriazione ai sensi dell'art.5-bis della L.359/1992, in £. 60.869.000.” La mancata adozione del decreto di esproprio nei tempi dovuti, è uno degli elementi di addebito, come dappresso meglio si specificherà, indicando anche gli ipotizzati responsabili secondo l'Ufficio requirente. Secondo la Procura, poi, la metodologia di calcolo del citato CTU sarebbe errata, posto che, allorchè il bene sia privo di rendita catastale il valore da assumere a base di calcolo quale uno dei due elementi della media prescritta dall'art.5-bis D.L. 359/1992 deve essere pari a zero (cfr. in proposito App.Firenze, 173/1996). Il valore di esproprio sarebbe dunque, al 21.06.1988 (che, dato il brevissimo lasso di tempo, deve ritenersi valido anche per il marzo dello stesso anno, epoca di cessazione della validità della dichiarazione di p.u. e, dunque, per ciò stesso, anche della occupazione d'urgenza) pari  alla metà del valore venale maggiorato nella misura del 10%, e cioè 33.477.950. Peraltro il profilo contenzioso non perveniva ad esito con statuizione in seno al processo, ma veniva risolto in via stragiudiziale. Ancora in corso di giudizio, con determina n.285 del 25.05.2000 il Segretario Generale del Comune di Pescia dott. Claudio SBRAGIA, quale responsabile del Servizio Affari Generali, accettava la transazione con la Conceria Cecchi & C. SpA consistente nel pagamento alla controparte, a saldo e stralcio di ogni sua pretesa, la somma di £. 165.000.000. La determina subordinava l'accettazione di detta transazione alla condizione sospensiva del riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Consiglio Comunale.

Il Consiglio Comunale procedeva a deliberare in data 28.09.2000 (delibera n.71) il riconoscimento del debito fuori bilancio col voto favorevole dei consiglieri GIUNTOLI Renzo, SIMONI Siro, BRIZZI Vittoriano, PUTRONE Antonino, BIRINDELLI Alessandro, GIURLANI Oreste, GIORGI Roi, ASTA Alessandra, GUIDI Angelica, TROIANO Antonio, BINDI Fabio, D'AMADDIO Roberto.

Veniva, quindi, sottoscritto (dal Segretario Generale), in data non precisata (l'atto ne è privo ) ma verosimilmente compresa tra il 23.10.2000 (in detta data il legale di controparte glielo trasmetteva per la firma) e il 06.11.2000 (in detta data l'Avv. Arizzi comunicava al Comune di avere ricevuto l'atto formato dalla controparte e dal Segretario Generale, che, peraltro, ricusava di firmare), l'atto di transazione.

La somma veniva poi liquidata con determina n.223 del 30.03.2001 del Segretario Generale. Rileva la Requirente che la transazione veniva dal Segretario Generale conclusa senza e contro il parere del difensore del Comune, Avv. Arizzi, che si limitava a prenderne atto e, come detto, ricusava di sottoscriverla (v. in proposito note 29.05.2000 e 06.11.2000 dell'Avv. Arizzi al Comune; nota 25.05.2000 del Segretario Generale all'Avv. Arizzi), comportamento ritenuto contrario (la costante assistenza e l'apporto collaborativo del patrocinatore) a  regola di comune buon senso, ancora prima che di corretto operare amministrativo, atteso anche che per le amministrazioni dello Stato la consultazione con l'Organo Legale è addirittura obbligatoria per legge. Seguendo la metodologia espositiva della Procura stessa, nella presente vicenda verrebbero in rilievo tre ordini di somme con riferimento alle quali vanno delineate le responsabilità circa le quali si dibatte: a) una prima somma - £. 57.214.779 (€ 29.548,97) pari alla somma di £. 30.434.500 (€ 15.718,11) e gli interessi legali su detta dal 1988 al 2000 in £. 26.780.279 (€ 13.830,86) - è quanto sarebbe stato dovuto nell'ipotesi di corretta procedura espropriativa “(potendo al riguardo, prescindersi dalla riduzione del 40% ex art.5-bis, che, quanto agli espropri già conclusi all'entrata in vigore dell'art.5-bis, è raramente applicato in giurisprudenza)”. Detto importo non viene ritenuto danno; B) costituisce invece danno erariale la somma di £. 76.431.646 (€ 39.473,65)  pari alla somma di £. 3.043.450 (€ 1.571,81) quale 10% del valore di esproprio ex art.5-bis), di £. 2.672.227 (€ 1.380,09) per interessi dal 1988 al 2000 sul £ 3.043.450, di £. 21.406.917 (€ 11.055,75) quale rivalutazione, infatti, l'indennità di esproprio, siccome debito di valuta, non avrebbe soggiaciuto, ex art. 1124 c.c.), e di £. 49.309.052 (€ 25.466,00) per interessi dal 1988 al 2000 sulla rivalutazione di £. 33.477.950 computata anno per anno come da Cass., SU, 1712/1995- è (s.e.o.) l'aggravio dovuto al maturare dell'accessione invertita”; c) la ritenuta eccessiva onerosità della transazione di cui sopra si è detto, conduce all'individuazione di un ulteriore danno quantificato in £. 31.353.575 (€ 16.192,77) quale  somma residua fino a concorrenza dell'importo di £. 165.000.000 (€ 85.215,39) versate transattivamente alla controparte citante. Per quanto attiene alle individuali responsabilità, la Procura ritiene che la somma indicata sopra sub B) coinvolge coloro che omisero di curare che il procedimento espropriativo si concludesse con l'adozione di decreto di esproprio, cagionando così, a carico dell'erario, l'aggravio dovuto ai maggiori importi dovuti per il risarcimento da accessione invertita. I responsabili di detto danno sono stati individuati nel Sindaco dell'epoca dott. GUIDI Galileo (cui competeva l'adozione del decreto di esproprio e la sovrintendenza sull'intera organizzazione comunale), nell'Assessore ai LL.PP., competente in materia di espropri per esecuzione di oo.pp., in capo all'assessore Cav. CHECCHI Americo (che, nell'ambito della sua competenza, aveva obblighi di sovrintendenza analoghi a quelli spettanti al Sindaco sull'intero Comune), nel responsabile dell'U.O. LL.PP. dott. SVENJAK Edoardo, nonchè nel Segretario Generale dott. LA ROSA Antonio (cui competeva la vigilanza sull'organizzazione comunale e sull'esecuzione delle deliberazioni), peraltro deceduto e la cui quota resta a carico dell'erario mancando le condizioni per la trasmissione ereditaria della responsabilità. Come detto, la somma indicata sub c), invece, attiene alla ipotizzata responsabilità di coloro che, stipulando l'atto transattivo, senza adeguata ponderazione e senza e contro il parere del difensore del Comune, sostiene l'Ufficio remittente, avrebbero cagionato a carico dell'erario un aggravio superiore a quello che, in difetto, sarebbe conseguito a titolo di risarcimento per la maturata accessione invertita. Responsabili sarebbero, allora, coloro, tra i consiglieri comunali, che presero parte alla seduta della commissione (ed ebbero perciò modo maggiormente e più in dettaglio di esaminare la stessa) e che poi approvarono in assemblea la delibera n. 71 (vale a dire GIORGI Roi, SIMONI Siro, D'AMADDIO Roberto, GUIDI Angelica), e, inoltre e soprattutto, secondo la Procura, il dr. SBRAGIA Claudio, che, con condotta che si ritiene connotata da colpa grave, fu soggetto di prioritario rilievo nelle definire il contenuto e nel formalizzare la transazione senza l'ausilio, rimarca la Procura,  del difensore del Comune in giudizio, né dando rilievo e ponendo la necessaria riflessione sull'esorbitanza della somma, ed al quale è dunque ritenuto addebitabile in maniera prevalente il danno.

Avrebbe altresì perpetrato illecito di responsabilità amministrativo-contabile l'Assessore alle Finanze e Bilancio NARDUCCI Daniele. Non si ritiene condivisibile, infatti, la ricostruzione operata dalla difesa dello stesso in occasione dell'invito a dedurre non recependo la Procura la tesi che a lui -che tanto in sede di commissione quanto in sede di assemblea ebbe a svolgere le funzioni di relatore-  incombesse solo l'esame della situazione finanziaria generale, senza alcun riferimento alle singole vicende dalle quali sorgevano i debiti il cui riconoscimento il Consiglio era chiamato a deliberare su proposta dello stesso NARDUCCI.

Vi era poi “pienezza di valutazioni e di poteri decisionali da parte del Consiglio circa la riconoscibilità o meno dei debiti fuori bilancio de quibus (tanto più che il riconoscimento del debito da parte del Consiglio costituiva espressamente condizione sospensiva della transazione tra l'.A.C. e la CONCERIA CECCHI SpA)“ cui “corrispondeva e non poteva non corrispondere, viceversa, analoga pienezza di responsabilità da parte di chi quel riconoscimento   -che comportava oneri a carico del bilancio e che, inverando la prevista condizione sospensiva, rendeva pienamente effettiva la transazione di cui trattasi-   proponeva”.

Così completata l'esposizione delle ragioni, in fatto e diritto, alleate dalla citante, la stessa perviene, in sintesi alle seguenti conclusioni requisitorie, venendo in rilievo secondo tesi di accusa, allora, la responsabilità, secondo quote uguali (o secondo quelle, diverse, che saranno ritenute di giustizia), di :

·        dott. GUIDI Galileo,

·      cav. CHECCHI Americo,

·      dott. SVENJAK EDOARDO,

·      dott. LA ROSA Antonio, che però è medio tempore deceduto e la cui quota, quindi, resta a carico dell'erario per il danno elencato sopra sub b) (Euro 39.473, 65).

Per quanto attiene il danno costituito dalla somma sub c) (euro 16.192,77), viene posta in rilievo la responsabilità del :

·         Segretario dott. Claudio SBRAGIA;

·      Assessore al Bilancio NARDUCCI Daniele;

·      dei consiglieri comunali che approvarono la delibera n.71 determinando la efficacia e vincolatività della transazione GIORGI Roi, SIMONI Siro, D'AMADDIO Roberto, GUIDI Angelica i soli, in capo ai quali, nell'ambito del Consilio comunale (GIUNTOLI, SIMONI, BRIZZI, PUTRONE, BIRINDELLI, GIURLANI, GIORGI, ASTA, GUIDI, TROIANO, BINDI, D'AMADDIO), viene ravvisato il requisito della colpa grave. In particolare, il danno “de quo” va ripartito (salvo diversa ripartizione secondo il convincimento di questa Sezione):

- per il 50% a carico del dott. SBRAGIA Claudio;

- per il 10% a carico dell'Ass. NARDUCCI Daniele;

- per il 40% a carico (per 1/12 ciascuno) ai citati consiglieri comunali, - per 1/12 ciascuno a carico dei consiglieri GIORGI Roi, SIMONI Siro, D'AMADDIO Roberto, GUIDI Angelica.

II. Gli atti difensivi

L'ing. Svenjak, con breve ma esaustiva memoria difensiva, in relazione alla pregnanza della tesi di difesa che adduce, rileva che, premesso che ad egli viene addebitato il danno per l'avvenuta occupazione acquisitiva e che il relativo nocumento - permanendo, “medio tempore”, il potere di adottare il definitivo decreto di esproprio -  si è verificato al termine della legittima occupazione acquisitiva, segnala che, al momento  della scadenza di efficacia di detta occupazione di urgenza, (marzo 1988), non era più responsabile dell'U.O.LL.PP. del comune di Pescia.

Il dott. Galileo Guidi, dal canto suo, eccepisce in via preliminare l'inammissibilità dell'azione per mancato rispetto dei tempi concessi dalla legge - 120 giorni -  fra l'invito a dedurre, dato che il periodo concesso per fornire le predette deduzioni sarebbe scaduto il 24.12.2003, e l'emissione dell'atto di citazione, notificato il 26 aprile 2004. Inoltre rileva l'avvenuta prescrizione, atteso che i cinque anni previsti in tal senso per l'istituto della responsabilità amministrativa dovrebbero trovare il loro decorso iniziale il 21.6.1988, data dalla quale si sono venuti a creare i presupposti per l'istituto dell'accessione invertita. Quale altro motivo di eccezione rappresenta l'ipotesi giustificativa del suo ruolo di organo politico che, quindi, secondo le recenti innovazioni (art. 1, comma 1-ter della L. 14 gennaio 1994, n. 20, come novellato dalla L. n. 639 del 1996), in tema di responsabilità amministrativa, non coinvolgono lo stesso nelle questioni di carattere tecnico proprie dei competenti uffici, approvati o autorizzati in buona fede dai predetti organi politici. Inoltre rileva l'insussistenza del danno erariale asseritamene causato dal suo operare, in ragione della specifica normativa vigente al tempo dei fatti a lui addebitati, che prescriveva il ristoro da occupazione acquisitiva secondo il pieno valore venale del bene e non la dinamica indennitaria, parzialmente satisfattiva, ancorchè dichiarata legittima dalla Consulta, successivamente introdotta normativamente: tesi difensiva che lambisce anche aspetti comuni al convenuto Sbragia, e che tra poco si esporrà.

L'eccezione di prescrizione, dovendosi il “dies a quo” farsi risalire, per quanto lo riguarda, dal momento della verificazione dell'occupazione acquisitiva è avanzata anche dal convenuto Checchi, il quale rileva, in subordine, anche l'insussistenza del requisito della colpa grave a suo carico.    Secondo la difesa del convenuto Sbragia, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura è destituita di ogni fondamento poiché non è ravvisabile il presupposto oggettivo della imputata responsabilità, in quanto il comportamento tenuto dal comparente con la sottoscrizione della transazione, lungi da arrecare danno all'erario, avrebbe evitato al Comune di far fronte a ben più ingenti esborsi.

Secondo la tesi difensiva che si espone, infatti, l'ammontare del risarcimento del danno arrecato alla Conceria Cecchi a fronte dell'occupazione del fabbricato e della realizzazione dell'opera pubblica, non doveva essere determinato ai sensi del richiamato comma 7 bis dell'art. 5 bis D.L. 333/1992 conv. in legge 359/1992, ma, invece, tenendo conto esclusivamente del valore venale dell'immobile per le seguenti ragioni:

oggetto dell'occupazione di cui si discute non furono "aree" ovvero "fondi" ma un fabbricato. La fattispecie in questione, presenta, infatti, come oggetto di espropriazione  un'area edificata e non soltanto edificabile. Ciò si evince, si rileva, da quanto rappresentato nella CTU resa in data 30.4.1993, ove il perito dà atto che "in data 28.1.1996, come verbalmente in liti, fu preso possesso con urgenza, da parte dell'Amministrazione Comunale, di una porzione del fabbricato sopra citato, e più precisamente della porzione termine a Nord". Tale circostanza escluderebbe in radice che  l'indennità dovuta  al proprietario a fronte di una espropriazione ovvero il risarcimento dei danni dovuto dalla P.A. a fronte del verificarsi dell'accessione invertita, possa essere determinato ai sensi del più volte citato art. 5 bis d.l. 333/1992 conv. in l.  359/1992. In tal senso deporrebbe la costante interpretazione giurisprudenziale che, in sostanza, afferma che “il criterio indennitario introdotto dall'art. 5 bis I. 8 agosto 1992 n. 359, ed il meccanismo di determinazione del risarcimento del danno da occupazione appropriativa che ad esso si collega, di cui al comma 7 bis L. 22 dicembre 1996 n. 662, è applicabile alle sole aree edifìcabili, cioè ai suoli suscettibili di edificazione ma non ancora edificati al momento dell'imposizione del vincolo ablatorio, ma non ai fabbricati con aree annesse. Ne deriva quindi  che per un fabbricato  con area annessa va liquidato il risarcimento integrale del danno (si citano Cassazione civile, sez. I, 24 novembre 1998, n. 11911. Nello stesso senso fra le tante, Cass., Sez. I, 20.2.2003, n. 2580; Cass., Sez. I, 13.6.2000, n. 7202).

D'altronde non varrebbe l'obiezione  che tale fabbricato sia stato demolito per la realizzazione dell'opera pubblica. Al riguardo si cita sempre giurisprudenza a suffragio dell'argomentazione secondo la quale "quando oggetto di espropriazione sia un fabbricato con latistante terreno, il manufatto costituisce un'entità economica da valutarsi come bene autonomo, il cui valore deve essere considerato in aggiunta al valore del suolo, effettuando la liquidazione corrispondente con riferimento al valore di mercato per l'edificio (comprensivo di area di sedime, che da esso non è scindìbile né autonomamente apprezzabile), senza che rilevi il fatto che il fabbricato sia destinato dall'espropriante alla demolizione". (Cass., Sez. I, 26.3.2004, n. 6091. Nello stesso senso, Cass., Sez. I, 11.4.2001, n. 5370). Dovendosi corrispondere il valore di mercato del bene, quindi, l'atto transattivo che si ipotizza costituisca fonte di danno è, al contrario, un risparmio per l'ente comunale in questione, dovendosi tener conto anche delle evitate spese giudiziarie (dato il valore della controversia, che rientra nello scaglione compreso fra 200 e 500 milioni, l'attività svolta - redazione atto di citazione, esame Ctu, esame supplementi istruttori partecipazione a udienze, redazione comparse conclusionali, redazione memorie di replica, secondo le tariffe professionali - D.M. 31.10.1985 e P.M. - avrebbero condotto ad un esborso di  Lit. 8.000.000);

l'opera pubblica è stata completata dopo la scadenza del termine fissato per la fine della procedura espropriativa e dei lavori. Di conseguenza la irreversibile trasformazione del suolo e la realizzazione dell'opera pubblica è avvenuta in un momento in cui non vi era una valida dichiarazione di pubblica utilità per scadenza dei relativi termini. In questo caso, come affermato dalla costante giurisprudenza "non si produce automaticamente l'effetto acquisitivo a favore della p.a. ed il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato e, se a tanto non ha interesse e quindi vi rinunzi, può avanzare domanda di risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrale" (Cassazione civile, sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853) È stato altresì chiarito che "in tema di espropriazione, l'occupazione cosiddetta "appropriativa" va distinta dalla cosiddetta "occupazione usurpativa", confìgurabile, a differenza della prima, soltanto in assenza (originaria o sopravvenuta) di una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, così che l'acquisizione del bene alla mano pubblica non consegue automaticamente (come nell'occupazione appropriativa) all'irreversibile trasformazione di esso, ma è logicamente e temporalmente successiva, e dipende da una scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria " (Cassazione civile, sez. 1, 28 marzo 2001, n. 4451 ).

Secondo un terzo profilo difensorio la tesi attorea per cui la rendita catastale, da sommare al valore venale debba essere pari a zero sarebbe equiparazione - che in sostanza conduce ad un "brutale" dimezzamento dell'ammontare del risarcimento dei danni subiti - palesemente in contrasto con il principio affermato dalla Corte Costituzionale che, pur ritenendo legittimo l'art. 5 bis, ha sottolineato come l'indennità di espropriazione debba costituire un serio ristoro al sacrificio imposto al privato (sent. 20.11.1985, n. 296).

In conclusione, il risparmio transattivo viene così quantificato:

a) la somma che "l'A. C. comunque avrebbe pagato anche in caso di esproprio legittimamente concluso" e che - anche secondo la Procura - non rappresenta danno erariale è pari a:

aa)   Lit. 60.869.000 (anziché Lit. 30.434.500 come sostiene la Procura) quale valore venale del bene;

ab)  più Lit. 54.048.337 (anziché Lit. 26.780.279 come sostiene la Procura) a titolo di interessi legali su Lit. 60.869.000 dal 15.3.1988 (data di scadenza della dichiarazione di P.U.) al 23.10.2000 (data di sottoscrizione della transazione);

c) più Lit. 6.545.502 (voce di cui la Procura non ha tenuto conto) a titolo di indennità di occupazione legittima per il periodo compreso tra il 28.1.1986 e il 15.3.1988 (indennità che corrisponde agli interessi legali sull'indennità di espropriazione, pari, nella specie, al valore venale del bene);

d)    più Lit. 5.812.047 (voce di cui la Procura non ha tenuto conto) a titolo di interessi legali su Lit. 6.545.502 di cui sub c), dal 15.3.1988 al 23.10.2000.

Complessivamente, applicando gli stessi criteri di calcolo indicati - e tenendo conto del corretto ammontare di quanto alla Conceria Cecchi dovuto a titolo di espropriazione (che ammonta - si ripete - al valore venale del bene) nonché tenendo conto dell'indennità di occupazione legittima - l'importo ammonta a Lit. 127.274.88 (anziché Lit. 76.431.646 come sostiene la Procura). Si esclude quindi il danno.

Proseguendo nell'esame delle tesi difensive, il Narducci, premesso che il predetto Segretario Generale del Comune di Pescia, Dott. Claudio Sbragia, attenendosi ad un indirizzo della Giunta Municipale concordato anche con il Collegio dei Revisori dei Conti, svolse con meritorio impegno una lunga attività di ricognizione e accertamento dello stato delle liti pendenti a carico del Comune di Pescia, al fine di rendere esplicito il costo prevedibile a carico del Bilancio comunale di quelle liti per le quali erano alte le probabilità di soccombenza del Comune, rileva come si presentasse conveniente, tenuto conto della somma da corrispondere per l'occupazione acquisitiva, degli interessi e delle spese processuali, l'ipotesi transattiva: nessuna responsabilità può  essere ascritta al  Narducci stesso, allora, in merito alla definizione del quantum della transazione, poichè la sua funzione quale Assessore alle Finanze e Bilancio e relatore in commissione consiliare Finanza e Bilancio, si è concretizzata nella partecipazione all'adozione dell'indirizzo impartito dal Dott. Sbragia, al quale, ai sensi del combinato disposto dell'art.107 T.U.E.L. 267/2000 e dell'art. 16 comma 1 lett. f) del D. Lgs. 165/2001, "in qualità di dirigente spetta unicamente il potere di consiliare e transigere". Inoltre,  oltre alla valutazione dell'opportunita di raggiungere un accordo transattivo, indirizzo proposto dal segretario - dirigente Dott. Sbragia, vi era stato il parere favorevole di regolarità tecnica e contabile rilasciata dal Ragioniere Capo (documentazione prodotta in atti) ed infine parere ancor più rilevante e fondamentale era quello favorevolmente espresso dal Collegio dei Revisori del Conti, massimo organo contabile dell'ente.

Gli organi tecnici avevano, dunque, ravvisato l'opportunità e la congruità di approvare la proposta di transazione,  sulla base di una dovuta previa effettuazione dei riscontri contabili in ordine all'esistenza dl debiti fuori bilancio e sull'andamento degli accertamenti ed impegni, sia nella gestione dei residui che in quella di competenza. In sostanza, quindi, la commissione, e l'assessore referente nella stessa esprime, un parere politico, amministrativo, consultivo e non obbligatorio. Argomentazione ribadita anche dal Giorgi, dal D'Amaddio, dal Simoni e dalla Guidi Angelica che, inoltre, riprende le eccezioni di inammissibilità già avanzate dal Guidi Galileo, per la tardività dell'atto di citazione, così come l'esenzione da responsabilità nell'ipotesi di comportamento in buona fede osservato dall'organo politico a fronte di atti di competenza degli uffici tecnici.

Nella pubblica udienza del giorno 17 novembre 2004, le parti hanno ribadito e precisato quanto illustrato nei rispettivi atti. In particolare il Pubblico Ministero, nella persona del S.P.G. dott. Nicola Bontempo, si è premurato di soffermarsi con maggiori dettagli su taluni punti di particolar rilievo nella dialettica processuale: anche con l'ausilio di note di udienza, non introduttive di alcun nuovo “thema decidendum” ha contestato quanto asserito da alcuni convenuti nelle memorie depositate in merito alla temporalità dell'ultimazione dell'opera e alla sussistenza di un'occupazione acquisitiva.

Tutti i patroni hanno sottolineato i vizi delle tesi - richiamandosi alle memorie depositate - della Procura e delle metodologie di quantificazione del danno fatte proprie dalla stessa

Al termine della pubblica udienza la causa è stata trattenuta in decisione;

DIRITTO

I. Va, in primo luogo, nell'ambito delle eccezioni di rito, esaminata l'eccezione di inammissibilità ricollegata al mancato rispetto dei 120 giorni che devono decorrere fra il termine concesso per fornire le deduzioni e la proposizione dell'atto di citazione. Detto termine è stato rispettato, fondandosi le rigettate eccezioni su di un errato presupposto, ovvero il computo finale del termine considerando il momento della notifica dell'atto di citazione laddove è giurisprudenza pacifica che  nel giudizio amministrativo-contabile l'impedimento del termine perentorio di 120 giorni posto al p.m., per emettere l'atto di citazione, stabilito dall'art. 5 comma 1 d.l. 15 novembre 1993 n. 453, conv. dalla l. 14 gennaio 1994 n. 19 e ulteriormente modificato dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, si verifica a seguito del deposito di tale atto nella segreteria della sezione giurisdizionale competente (“ex multis” Corte Conti, sez. I, 3 ottobre 2003, n. 340/A).

I.b) Sempre nel contesto della delibazione delle eccezioni preliminari di rito, va ora posta al vaglio l'eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto Guidi. Questa risulta destituita di fondamento, in quanto riposa - la decisione del Collegio - sull'essersi consumato il termine quinquennale facendo (e solo in questo caso  detto termine risulterebbe oltrepassato) ricorso all'oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza della responsabilità amministrativa, secondo la  quale, essendo l'evento danno elemento costitutivo della relativa fattispecie, è da quando detto nocumento si realizza con le caratteristiche della concretezza, certezza ed attualità che inizia la decorrenza del “ dies a quo” prescrizionale (Corte Conti, sez. riun., 15 gennaio 2003, n. 2/Q); e, nel caso in cui l'irreversibile trasformazione del bene intervenga durante il periodo di occupazione legittima, il fatto illecito si concretizza alla scadenza dell'occupazione, sicché da tale momento decorre il termine quinquennale per esperire l'azione di risarcimento dei danni derivanti dall'occupazione acquisitiva (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 11 dicembre 2003, n. 3860). Peraltro non va taciuto l'indirizzo che ravvisa il “tempus “del nocumento erariale non nell'evento materiale o nella formazione del titolo legittimante una spesa o una mancata entrata, ma - nelle fattispecie in cui questo nocumento si concretizza - nel fattuale esborso, indirizzo che, calato in ipotesi similare a quella che qui ne occupa, ha condotto ad affermare che sussiste la responsabilità per danno erariale a carico di sindaco per l'esborso di somme effettuato dal Comune a titolo di risarcimento danni da occupazione di fondi (suoli), per avere omesso, in qualità di capo dell'amministrazione comunale, di attivare e perfezionare le procedure per l'esproprio dei medesimi. ”Pertanto, il "dies a quo" della prescrizione del danno erariale coincide con il momento in cui l'ente locale ha effettuato il pagamento delle somme”. (Corte Conti, sez. II, 2 maggio 2001, n. 157/A).

II. precedente giurisprudenziale citato anticipa, e per certi versi risulta più incidente ai fini della soluzione - in senso negativo rispetto alle tesi di difesa - la sollevata questione di giurisdizione in ragione della vantata esimente politica vantata dal sindaco Guidi G. e dall'assessore Guidi A. Nel primo caso, l'eccezione è infondata per due motivi: per l'insussistenza della buona fede, dato che risulta conforme ai canoni di buona diligenza richiedibili all'organo politico di vertice di amministrazione comunale essere vigile sul corretto andamento di una procedura di esproprio; in secondo luogo perché il decreto, non adottato nei tempi di rito, non era, all'epoca, competenza dirigenziale, sopravvenuta con la l. n. 142 \90 e la normativa susseguente (si veda, peraltro, la generale disposizione dell'art. 45 comma 1 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, in base al quale le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3 comma 2 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 17 giugno 2003, n. 4091) ma del capo dell'amministrazione comunale, a ciò delegato dall'art. 1 della LR Toscana n. 50 del 1984, stante l'attribuzione alla legislazione regionale delle funzioni amministrative in materia di procedimenti ablatori (art. 106 DPR n. 616/1977). Pertanto, l'omessa definizione del procedimento ablativo per carenza nell'adozione del decreto di espropriazione è imputabile al sindaco sia in relazione all'inosservanza dei termini di legge per l'emanazione del decreto di esproprio sia per la perpetrata violazione del dovere di impartire direttive all'apparato amministrativo, e di vigilare sull'esecuzione dei singoli adempimenti connessi alla procedura per pubblica utilità (C.Conti reg. Lazio, sez. giurisd., 10 febbraio 2004, n. 496; C.Conti reg. Calabria, sez. giurisd., 10 aprile 2003, n. 347); argomentazione similare va svolta per quanto attiene l'addebitata responsabilità del consigliere comunale Guidi Angelica, in quanto a questi viene imputatoa la censurabile mancata  accortezza nell'adozione di un atto proprio quale la relazione, l'esame collegiale e l'approvazione di un atto transattivo.

“Vanno infatti ravvisati comportamenti illeciti, caratterizzati altresì da colpa grave, nel comportamento della Giunta (Consiglio, “mutatis mutandis”) che abbia deliberato di resistere, senza un effettivo fondamento e per fini meramente dilatori, all'azione di risarcimento di danni proposta dal proprietario di immobili occupati d'urgenza "sine titulo"; ne consegue che, in tal caso, i componenti dello Giunta rispondono a titolo di colpa grave per le maggiori spese erogate dall'ente per corresponsione d'interessi legali e rifusione di costi legali (Corte Conti, sez. II, 19 novembre 2003, n. 320/A).

III. Passando ad esaminare la controversia nel merito, la vicenda sottoposta al vaglio della Corte impone una sintetica esposizione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui la stessa si inserisce, necessariamente considerato sotto un profilo diacronico, data la - come dappresso si denoterà - stratificazione del interventi sia del legislatore che delle Corti. La fattispecie in esame richiama l'istituto che è stato definito come espropriazione sostanziale, locuzione comprensiva di due fenomeni contigui, seppur differenziati dalla sussistenza o meno di un dichiarato pubblico interesse: la c.d. occupazione appropriativa e quella usurpativa cui fanno riferimento, con diverse opzioni interpretative, come si è visto in narrativa, le parti avverse. La prima trova la sua genesi teorica   con la pronuncia delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n.1464 per consolidarsi in successive pronunce (fra cui SS.UU.10 giugno 1998, n.3490) fino a diventare diritto vivente. In particolare, si è statuito, essi si configurano secondo i seguenti tratti distintivi: a) la trasformazione irreversibile del fondo, con destinazione ad opera pubblica o ad uso pubblico, che determina l'acquisizione della proprietà alla mano pubblica; b) il fenomeno, in assenza di formale decreto di esproprio, ha il carattere dell'illiceità che si consuma alla scadenza del periodo di occupazione autorizzata (e, quindi, legittima) se nel frattempo l'opera pubblica è stata realizzata, oppure al momento della trasformazione qualora l'ingerenza nella proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima; c) l'acquisto a favore della p.a. si determina soltanto qualora l'opera sia funzionale ad una destinazione pubblicistica e ciò avviene solo per effetto di una dichiarazione di p.u. formale o connessa ad un atto amministrativo che, per legge, produca tale effetto, con conseguente esclusione dall'ambito applicativo dell'istituto di comportamenti della p.a. non collegati ad alcuna utilità pubblica formalmente dichiarata (viene qui in rilievo, allora la sopra menzionata nozione di occupazione usurpativa): ciò può avvenire o per mancanza “ab initio” della dichiarazione di p.u. o perché questa è venuta meno in seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei relativi termini. In tale ultima ipotesi, il predetto effetto acquisitivo non si produce  a favore della p.a. ed il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato anche se, qualora non vi abbia interesse il proprietario medesimo  può optare per la domanda di risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrale, formulando così un implicito negozio abdicativo del diritto dominicale); d) da ultimo va detto che il soggetto che ha subito l'ablazione di fatto, per ottenere il risarcimento del danno, ha l'onere di proporre domanda in sede giudiziale entro il termine di prescrizione quinquennale (art. 2947), la cui decorrenza è ancorata alla data di scadenza dell'occupazione, oppure al momento dell'irreversibile trasformazione del fondo, se essa è avvenuta dopo quella scadenza (o in assenza di decreto di occupazione d'urgenza, ma sempre nell'ambito di valida dichiarazione di p.u.).

Nei suoi tratti sintetici, quindi, come da interpretazione consolidata, l'occupazione acquisitiva indica la perdita da parte del proprietario e il contestuale acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione della proprietà di un terreno, non fatto oggetto di espropriazione, a seguito della sua irreversibile trasformazione derivante dalla realizzazione di un'opera pubblica. Altri  elementi salienti  dell'istituto sono rappresentati poi: dal vincolo per la p.a. di risarcire il danno corrispondente al valore del fondo, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria; dall'inefficacia dell'eventuale atto di esproprio intervenuto dopo l'acquisizione; infine, e in particolare, dal presupposto costituito dall'occupazione del terreno a seguito della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera da realizzare. Viene chiaro da quanto detto che è  la mancanza della dichiarazione di p.u. a rappresentare  l'elemento caratterizzante l'occupazione usurpativa, e discriminante rispetto a quella appropriativi, figura individuata dalla giurisprudenza a partire dal 1997. L'assenza del titolo abilitativo, impedendo il collegamento teleologico fra l'occupazione e le finalità pubbliche perseguite dal procedimento espropriativo, comporta il diverso trattamento della fattispecie, consistente anch'essa nella trasformazione, non accompagnata dall'espropriazione, di un fondo privato a seguito dell'esecuzione di un'opera pubblica: mancando il titolo che giustifichi la prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato, non si verifica l'effetto estintivo-acquisitivo della proprietà. Il privato pertanto può esperire i normali rimedi possessori e petitori, a meno che egli, a fronte della compromissione del terreno causata dalla realizzazione dell'opera, non preferisca chiedere il risarcimento del danno, da apprezzarsi come rinuncia abdicativa implicita della proprietà. Come già sopra a tratti delineato, la cosiddetta occupazione acquisitiva non si realizza nell'ipotesi (di occupazione cosiddetta usurpativa) in cui la dichiarazione di pubblica utilità manchi ovvero debba ritenersi giuridicamente inesistente per essere carente dei suoi caratteri essenziali tipici, fra i quali la prefissione dei termini richiesti dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1985 per il compimento delle espropriazioni e dei lavori, configurandosi in tal caso soltanto una mera occupazione - detenzione illegittima dell'immobile privato, inquadrabile nell'illecito di cui all'art. 2043 c.c., con, in particolare, il conseguente diritto dell'interessato, il quale non intenda conseguire la restituzione del bene, di ottenere l'integrale risarcimento del danno, senza applicazione del criterio riduttivo previsto dall'art 5 bis, comma 7 bis (introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996) d.l. n. 333 del 1992 (conv., con modif., legge n. 359 del 1992; Cassazione civile, sez. I, 16 maggio 2003, n. 7643) Inoltre, il danno va integralmente risarcito e in ordine al relativo diritto non corre la prescrizione, permanendo in capo al privato la proprietà. In sintesi, allora, riassumendo quanto detto, la realizzazione di un'opera pubblica su un'area di proprietà privata, in mancanza di provvedimento autorizzativo della sua occupazione ovvero ad avvenuto decorso dei términi di occupazione legittima, determina l'acquisto originario della proprietà da parte della P.A.; e  la posizione del proprietario inciso viene in tal caso a qualificarsi come diritto al risarcimento del danno per la perdita del bene (il principio è stato enunciato, come detto,  da Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1983, n. 1464).

Il termine per l'esercizio di tale diritto è quello fissato dall'art. 2947 cod. civ., sulla base della qualificazione del comportamento della P.A. come illecito aquiliano (v. Cass., sez. un., 25 novembre 1992, n. 12546).

Da tali illiceità scaturiscono, da un lato, la scelta dell'ordinamento di non equiparare, per sanatoria, la fattispecie della occupazione appropriativa a quella della espropriazione per pubblica utilità e, dall'altro, la configurazione del ristoro del privato come risarcimento del danno (e non come indennità), con conseguente prescrizione del relativo diritto in cinque anni.

Per quanto concerne la decorrenza del términe prescrizionale dell'azione risarcitoria, la prescrizione decorre sempre dalla scadenza del periodo di occupazione legittima.

Occorre, tuttavia, distinguere; nel caso in cui l'opera venga realizzata nel periodo di occupazione legittima, si deve attendere, per l'inizio della prescrizione, la scadenza del termine di occupazione d'urgenza, perché è solo in questo momento (laddove non sia stato nel frattempo emanato un decreto di espropriazione) che si consuma l'illecito, fonte del diritto al risarcimento del danno.

In ipotesi, invece, di occupazione illegittima per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini del precedente provvedimento, è la radicale trasformazione del fondo che, determinando la perdita della proprietà del bene da parte del privato, costituisce illecito istantaneo ad effetti permanenti; tale illecito abilita il privato stesso a richiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dalla data della trasformazione, il risarcimento del danno.

Da ultimo, occorre ricordare che, in questa pacifica ricostruzione del fenomeno della occupazione acquisitiva, l'eventuale provvedimento di espropriazione, intervenuto successivamente alla estinzione del diritto di proprietà per irreversibile trasformazione del fondo, deve considerarsi privo di ogni rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito (cfr. Cass.: sez. I, 8 giugno 1979, n. 3243; sez. un., 16 febbraio 1983, n. 1464).

In sintesi, dunque, a compendio di quanto detto, ai fini di quanto qui rileva, con particolare accento sul momento consumativo dell'illecito:

- durante il periodo di occupazione legittima, l'illecito si consuma allo scadere del provvedimento di occupazione d'urgenza (cfr. Cass., sez. I: 29 novembre 1993, n. 11796; 22 febbraio 1994, n. 1725; 22 luglio 1994, n. 6825; 18 ottobre 1994, 8495; 20 ottobre 1994, n. 8567);

- dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima, l'illecito si consuma nel momento in cui si realizza la radicale trasformazione del fondo occupato (cfr. Cass., sez. I, 12 aprile 1994, n. 3403);

- in caso di occupazione illegittima ab initio, l'illecito si consuma nel momento della irreversibile trasformazione del fondo (cfr. Cass., sez. I, 29 aprile 1994, n. 4174).

Va appena fatto cenno - tematica su cui si tornerà con maggior dettaglio più tardi, che, se, invero, condizione della realizzazione della cosiddetta "occupazione acquisitiva" è il fatto che sia stata posta in essere la radicale trasformazione del terreno con l'irreversibile sua destinazione alla realizzazione dell'opera pubblica, tale condizione, che determina la impossibilità di restituzione del terreno, con la conseguente perdita della proprietà dello stesso da parte del privato e la ulteriore conseguente acquisizione della relativa proprietà da parte dell'Amministrazione, deve dirsi realizzata, nella fattispecie che ne occupa, nel giugno 1988, con la scomparsa definitiva dei caratteri originari del terreno (che ha reso questo un “quid novi”, insuscettibile di utilizzazione quale terreno).

E infatti il momento di radicale trasformazione del bene costituisce, nel caso di specie, con l'estinzione del loro diritto di proprietà conseguente a tale illecito istantaneo (seppure ad effetti permanenti), il “dies a quo” della prescrizione del diritto al risarcimento del danno subito dai privati interessati.

Quanto affermato può ritenersi sufficiente bagaglio teorico per ritenere insufficienti le tesi difensive che si appuntano su due valutazioni:

l'occupazione si è verificata non verso, nel concreto, un terreno edificabile, ma un immobile, laddove allora il terreno su cui poggia è terreno di sedime e l'occupazione non può prescindere dall'illecita immissione in possesso di tale immobile;

l'opera non è stata terminata entro il periodo statuito per l'occupazione - da ritenersi legittima - dato che la consegna ed il collaudo della stessa è avvenuto dopo tale periodo, né sussisteva altro lasso di tempo nel quale perdurava la dichiarazione di pubblica utilità, la cui giuridica validità era da ritenersi già venuta meno.

Quanto al primo punto, oltre alla considerazione che trattavasi di costruzione fatiscente, il cui restauro sarebbe peraltro risultato più costoso di una nuova costruzione, deve qui valere la considerazione che l'utilità cui tendeva l'amministrazione era il terreno, non già l'immobile, la cui necessaria distruzione, per trasformare il relativo terreno di sedime in superficie su cui edificare l'opera pubblica  si configura da un lato come costo aggiuntivo, dall'altro, per giusto rispetto del sacrificio imposto al privato, e del suo diritto ad un giusto ristoro come maggiorazione di valore dell'indennità, “sub specie” di un maggior somma legata ad uno degli elementi costitutivi dell'indennità, il costo del bene. Giustamente, dunque, per le ragioni anidette, la Procura reputa irrilevante la circostanza che l'espropriante, per la realizzazione degli interventi cui l'esproprio era destinato, debba procedere alla demolizione del manufatto. Detta irrilevanza è ravvisabile quando, infatti, il manufatto insistente sull'area si trovi in condizioni tanto degradate da non consentirne un qualche utilizzo se non a seguito di quel tipo di ristrutturazione che consiste nella demolizione e riedificazione (ed allora va ricordato -riprendendo giuste annotazioni della citante -  che “la nozione di ristrutturazione edilizia ex art. 31, 1° comma, lett. d), I. 5 agosto 1978 n. 457, include anche la demolizione e la ricostruzione di un edificio preesistente, a condizione, però, che l'eventuale diversità del nuovo organismo edilizio rispetto a quello precedente consista nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi del fabbricato stesso, nonché nell'eliminazione, nella modifica o nell'inserimento di nuovi elementi o impianti e non mai nella realizzazione dì nuovi volumi, in caso contrario pervenendosi al nocivo risultato per cui sarebbe sufficiente la mera preesistenza di un edifìcio per definire «ristrutturazione» qualunque nuova realizzazione effettuata in luogo o sul luogo, di quello precedente.": (C. Stato, V, 5.3.2001 n. 1246); laddove, invece "Il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito costituisce una nuova costruzione e richiede un'apposita concessione edilizia." (C. Stato,V,1.12. 1999 n.2021). il costo allora,  sarebbe  superiore alla nuova edificazione su area (originariamente) nuda; ed il valore di mercato (cui, ex art.39 L.2359/1865, occorrerebbe far riferimento) del fondo è dato non  dal manufatto (che, come tale, non ha alcuna autonoma “utilitas”, e, dunque, alcun valore di scambio, e dunque di mercato) bensì dalla  possibilità che sull'area di sedime sia edificato (o ri-edificato) un manufatto di analoga volumetria.

E' di tutta evidenza come in questo caso (giuste sono sul punto le espressioni della Procura)  la rilevanza del manufatto non è quella di costituire un bene avente una propria funzionalità economica (rispetto alla quale l'area di sedime resti inglobata e priva di autonomo rilievo) bensì e semplicemente quella di conferire al suolo su cui insiste una capacità edificatoria e un indice di edificabilità pari alla volumetria del fabbricato preesistente, anche a prescindere agli indici di edificabilità risultanti dalle previsioni di piano per la zona in cui l'area di che trattasi sia collocata.

In tal caso, infatti, non esiste una valutabilità di scambio - e, dunque, un prezzo di mercato - del manufatto che non si compendi e non si esaurisca nel prezzo del suolo; o, in altri termini, il valore di mercato del manufatto altro non è (e non si differenzia dal) valore -e dal prezzo- dell'area di sedime (se ed in quanto) avente un indice di edificabilità pari alla volumetria del manufatto esistente (e da demolire). Nel caso di specie, si ricava dalla documentazione in atti, in particolare da quanto detto dal CTU della causa civile svoltasi dinanzi al Tribunale di Pistoia tra l'A.C. di Pescia e la Conceria Cecchi nella relazione datata 30.04.1993, il quale oltre ad avere prodotto significativa documentazione fotografica ha riferito che "da un punto di vista estrinseco, la posizione è abbastanza centrale e comunque molto ben servita, mentre da un punto di vista intrinseco le strutture in esame, oltre che vetuste e globalmente modeste, non risultavano tali da permettere, se non con interventi di pesantissimo rifacimento, una certa flessibilità di impiego." Segnala la Procura che, in mancanza di interventi manutentivi, detta condizione dell'immobile ha portato, in seguito al crollo del tetto e al conseguente intervento dei W.FF., all'emissione di ordinanza sindacale contingibile ed urgente volta alla eliminazione di una situazione di grave pericolo per la pubblica incolumità.

Per quanto attiene al concetto di irreversibile destinazione del bene, ed ai suoi criteri identificativi, vale quanto segue, anche ripetendo, per chiarezza espositiva,  nozioni già toccate.

Quest'ultima figura, come è noto e già illustrato, va mantenuta distinta dalla c.d. "occupazione usurpativa" - denominazione coniata dalla I Sezione civile della Corte di Cassazione 18 febbraio 2000 n. 1814 - che si verifica in relazione alle aree occupate in assenza di originaria dichiarazione di pubblica utilità formalmente dichiarata, o per mancanza ab initio della dichiarazione o perché questa è venuta meno in seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei relativi termini.

L'occupazione appropriativa (o acquisitiva) del terreno è anch'essa, come detto, figura di elaborazione pretoria, - oggi positivamente valutata in sede di vaglio di costituzionalità (Corte cost. sent. n. 188 del 1995, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) - risalente ad una decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 1464 del 1983), per la quale, si ripete, la radicale trasformazione del fondo occupato dalla Pubblica Amministrazione, quando implichi la sua irreversibile destinazione alla realizzazione di un'opera pubblica, si traduce in un illecito di natura istantanea che comporta l'estinzione della proprietà del privato e la contestuale acquisizione della stessa, a titolo originario, da parte dell'ente costruttore, per cui il diritto al risarcimento del danno del privato per la perdita della proprietà si prescrive nel termine di cinque anni e il provvedimento espropriativo, emesso dopo la consumazione dell'illecito diventa irrilevante, in ragione dell'avvenuta estinzione della proprietà privata.

Per la precisione, si rammenta quanto detto sopra, una volta intervenuta l'irreversibile trasformazione del terreno legittimamente occupato in virtù di un provvedimento d'urgenza per la realizzazione di un'opera dichiarata di pubblica utilità, l'accessione invertita (od occupazione acquisitiva) a favore della Pubblica Amministrazione si verifica a seguito della semplice cessazione del periodo di occupazione legittima del fondo senza che sia stato ancora emanato il decreto di espropriazione, a nulla rilevando il fatto che il distinto termine finale per l'adozione dell'atto ablatorio non sia ancora decorso (Cass. civ. 3 maggio 1991 n. 4848; Cons. St. Sez. IV 11 luglio 2001 n. 3882).

La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, mostra di ritenere essenziale - al fine dell'individuazione del momento temporale in cui sia da considerarsi verificato il fenomeno della c.d. occupazione acquisitiva - la nozione di ultimazione sostanziale dell'opera pubblica programmata, quella cioè in grado di imprimere al bene occupato alterazioni fisiche e funzionali non emendabili, attraverso la realizzazione di tutte le componenti essenziali dell'opera stessa, anche se necessitino ancora completamenti e rifiniture per la sua effettiva destinazione a fini pubblici (Cons. St. Ad. Plen. n. 1 del 7 febbraio 1996).

In altri termini (vedi anche Cass. Sez. I 3 maggio 1996 n. 4086) il momento in cui il bene occupato subisce un'irreversibile trasformazione ad opera pubblica si verifica quando l'opera assume di fatto le caratteristiche proprie dei beni cui appartiene : così, nel caso di una strada, essa, per assumere i connotati minimi suoi propri, deve rivelare l'astratta idoneità ad essere percorsa come tale, anche se ancora priva di opere accessorie destinate a renderne l'uso più agevole e sicuro ed a consentirne in concreto l'effettiva apertura al traffico, restando in ogni caso escluso che, ai fini della decorrenza della prescrizione, possa aver rilievo la data del collaudo.

Ancor più duttile si rivela il parametro individuato dalla pronuncia del 27 maggio 1999 n. 5166 sempre della medesima Sezione I della Cassazione, secondo cui il fenomeno dell'occupazione acquisitiva si può realizzare:

- anche prima dell'ultimazione dei lavori, allorquando il suolo abbia subito una radicale (ma non necessariamente perpetua ed ineliminabile) trasformazione nel suo aspetto materiale, in modo da perdere la sua conformazione fisica originaria e da risultare stabilmente ed inscindibilmente incorporata, quale parte distinta e non autonoma, nel nuovo bene costituito dall'opera stessa;

- ovvero, anche in assenza di una profonda modifica materiale del fondo, purché si sia verificata una diversa collocazione nella realtà giuridica, in relazione alla natura dell'opera realizzanda.

Le suesposte acquisizioni giurisprudenziali ritornano utili per affermare che l'ultimazione sostanziale dell'opera pubblica di cui si discute sia avvenuta allorquando non era ancora scaduto il termine  di validità quinquennale dell'occupazione autorizzata, giusta indicazione emergente dal certificato di ultimazione dei lavori  rimasto incontestato dai convenuti (per le argomentazioni esposte sopra si vedano anche, analogamente, le pregnanti osservazioni di T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 14 ottobre 2003, n. 994). Infatti, se si considera la tipologia delle lavorazioni che l'appaltatore doveva, per contratto, realizzare, costituite da:

·         demolizioni di porzioni di fabbricato;

      scavi di sbancamento;

      scavi di fondazione;

      calcestruzzo cementizio per opere di fondazione e in elevazione;

      fognatura bianca in tubi in cemento;

      fognatura nera in tubi in PVC con pozzetti prefabbricati e chiusini in ghisa;

      canalizzazione in PVC per l'alimentazione dei punti luce;

      impianto di illuminazione pubblica;

      riempimenti e massicciate stradali;

      bitumatura delle aree destinate a parcheggio;

      sistemazione dell'area a verde con opere in economia;

e si tiene conto che dette lavorazioni sono state completamente ultimate, come risulta dalla documentazione afferente il collaudo, in data 21.06.1988, nonché del tempo occorrente per la loro esecuzione e per la loro tipologia e natura, non può non escludersi che il loro stato di avanzamento alla data di cessazione degli effetti della dichiarazione di p.u. fosse tale da comportare che, alla menzionata data  fosse intervenuta la irreversibile trasformazione dell'immobile occupato.

In conclusione, quindi, si deve affermare che, nel caso di specie, si è assistito ad un piena fattispecie di occupazione acquisitiva, che ha natura oggettivamente illecita e, nella vicenda che qui ne occupa  prospetta anche un comportamento gravemente colposo di talchè si può sostenere che si è verificato un comportamento di assoluta inerzia, mantenuto dal Sindaco e dal competente Assessore che non soltanto manifesta carattere di evidente illiceità e di grave dispregio nell'assolvimento dei doveri posti dai mandati elettivi in questione, ma costituisce, di per sè soltanto, fatto causalmente rilevante e determinante del danno indirettamente cagionato all'ente locale in conseguenza del risarcimento chiesto ed ottenuto dai terzi danneggiati (Corte Conti, sez. II, 9 ottobre 2003, n. 286/A).

La sopra adombrata tematica del danno risulta, però, nel caso di specie, più complessa. Il procedimento ablatorio avviato dall'Amministrazione comunale in questione non poteva trovare più  la sua fonte normativa nella legge 23 ottobre 1971 n.865 che aveva novellato la disciplina degli espropri, introducendo un nuovo modello procedimentale, nuovi termini, nuovi criteri per calcolare l'indennità di esproprio; va rammentato, infatti,che la Corte costituzionale con la sentenza n.5/1980 aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.16 della legge n.865/1971 e della legge n.247/1974, che stabilivano i criteri di determinazione della indennità di esproprio dei terreni edificabili facendo esclusivo riferimento al valore agricolo dei suoli, ed escludendo così qualsiasi riferimento al valore derivante dalla edificabilità dei terreni; a titolo di completezza nella ricostruzione del quadro normativo così come delineatosi all'epoca, non può essere obliterato il successivo -alla predetta decisione della Consulta - intervento  del legislatore,  con la legge n.385 del 1980, ove veniva reintrodotto il criterio del valore agricolo (già, appunto dichiarato incostituzionale della Corte costituzionale), ma solo a titolo di acconto, salvo il conguaglio che le amministrazioni esproprianti avrebbero corrisposto in futuro, non appena fosse entrata in vigore una nuova normativa, entro termini di legge più volte prorogati; e però la Corte costituzionale, con sentenza n.223 del 1983, annullava sia la legge n.385/1980, sia le varie leggi di proroga, facendo quindi cessare definitivamente l'applicabilità dei criteri di determinazione dell'indennità di esproprio introdotti dalla legge n. 861/1971; è stato allora compito della giurisprudenza definire l'indirizzo secondo il quale che per tutte le espropriazioni in corso al momento della pronuncia della corte costituzionale n. 5/1980 dovesse applicarsi, in luogo della legge n. 865/1971, la disciplina della legge n. 2359/1865 la quale, in relazione alla determinazione della indennità di esproprio, faceva riferimento al libero valore di mercato dei suoli (art. 39); articolo che ha trovato applicazione sino all'entrata in vigore del decreto - legge n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992, il cui art. 5 bis ha fissato nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili. Nel lasso di tempo in cui il sindaco Guidi, prima della cessazione del mandato, nel giugno 1988,  doveva adottare il decreto di esproprio quindi, i criteri di calcolo del valore dell'indennità in relazione ad un bene espropriato con regolare procedura ed i criteri di ristoro da risarcimento danno per l'illecita acquisizione del bene, a seguito di irreversibile destinazione a pubblica utilità di opera (l'enunciata occupazione acquisitiva, basantesi sul valore effettivo del bene), risultavano coincidenti. E' la tardiva erogazione di detta indennità, con il maturare degli interessi e rivalutazione che costituisce danno all'amministrazione. Nella realtà, l'attesa, seppur colpevole, nel definire la vicenda, ha causato un risparmio per l'erario, poiché, dallo “ius superveniens” costituito dall'art. 5 bis della L. 359 del 1992 il valore dell'occupazione acquisitiva, da quello venale è divenuto inferiore, anche dopo l'intervento migliorativo (art. 3, comma 65, L. 662\1996), per il titolare del bene espropriato,  passato indenne al vaglio della Consulta, che ha posto fine alla vicenda dell'indennizzo da atto illecito definito dalla l. 662 del 1996 per le occupazioni perpetrate prima di tale data. Pur se connotato da colpa grave, quindi, il comportamento del Guidi e del Checchi non configura nella sua pienezza - data l'assenza dell'indefettibile requisito del nocumento erariale - una fattispecie di illecito da responsabilità amministrativa.

Ancora meno questo è ravvisabile nel comportamento dello Svenjak, non più responsabile, poiché incardinato in altra amministrazione, del settore opere pubbliche del comune di Pescia già da pochi mesi dall'inizio dell'occupazione temporanea e nel lasso di tempo in cui era ancora giuridicamente efficace la dichiarazione di pubblico interesse, e sussistenti i termini per adottare il decreto di esproprio.

Occorre quindi allora valutare la responsabilità di coloro che dettero luogo alla transazione appuntandosi l'analisi: 1) sull'opportunità della transazione, con prioritario vaglio sul valore dell'indennità; 2) sull'ampiezza delle loro mansioni nel valutare la convenienza della transazione o, nel caso degli assessori comunali, nel sindacare la proposta del segretario Sbragia. Quanto al primo punto, va subito affermato che la stima del CTU è palesemente inattendibile, poiché identificando la rendita catastale, di cui l'immobile espropriato era privo, nel valore venale, così duplicato e poi diviso, dato l'aumento del 10% normativamente previsto ha definito un valore di indennizzo superiore alla perdita patrimoniale, quindi un arricchimento. E' ben vero che il principio del serio ristoro cui deve essere connessa l'espropriazione,e, ancor più il canone risarcitorio cui deve ispirarsi l'indennizzo da occupazione acquisitiva  rendono l'interprete sensibile a recepire con massima accuratezza i due parametri - valore venale e rendita catastale - su cui appuntare il calcolo dell'indennizzo stesso. E' anche vero che la stessa Consulta ha affermato che il principio di cui alla legge 662 del 1996, pur discostandosi dal completo valore venale del bene, è legittimo. D'altro canto, la carenza di una rendita catastale, e l'impossibilità di riferirsi a beni limitrofi non può ridurre la stessa a zero; certo è che si tratta, essendo fatiscente il bene in questione di un valore minimo, per il quale una perizia aggraverebbe solo i costi processuali senza incidere sulla colpevolezza, come si dirà, dei convenuti e sulla sussistenza di un danno, che si addebiterà facendo uso del potere equitativo “ in bonis” rispetto alle richieste della Procura.

Va però resa palese la colpevolezza dello Sbragia, che addivenne ad una transazione che non prevedeva certo reciproche concessioni come l'atto stesso prevede, a nulla rilevando il mancato computo, da parte della Procura, dell'indennità di occupazione, minima, e della sussistenza di un pozzo artesiano elemento valorizzato - per quanto meritasse - nel calcolo del valor dell'immobile. Non è da sottovalutare il parere negativo del legale, non da riferire solo ad una clausola omessa di trasferimento del bene (necessaria, comunque, visto che non vi era accertamento circa la sussistenza di un'occupazione acquisitiva), ma all'incertezza stessa della causa, che, tra l'altro, presentava una mutazione della “causa petendi” (essendo stata iniziata con un'opposizione alla stima del bene quando non si era ancora verificata l'irreversibile trasformazione) e del cui esito non vi era assoluta certezza. Negligente e frettolosa l'opera dello Sbragia, come poco vigilante il comportamento dei Consiglieri convenuti che avevano ogni potere di sindacato sulla transazione, la quale “ictu oculi” dava conto di un'incomprensibile arrendevolezza del comune. Nella vicenda, quindi, il danno è costituito dalla inopportunità palese di una transazione stipulata in tali termini. E colpevoli, dunque, con la richiesta gravità, sono i consiglieri citati dalla Procura, oltre il segretario comunale, atteso che il riconoscimento di debito fuori bilancio esige - dovendosi utilizzare un' eccezionale potestà decisoria di carattere finanziario - vigilanza, ponderazione ed accortezza. Va dato conto delle corrette affermazioni della Procura, per la quale la  transazione stipulata dal dr. Sbragia era sospensivamente condizionata alla delibera del Consiglio Comunale, i cui componenti, quindi, non possono utilmente eccepire di essersi limitati a riconoscere il debito fuori bilancio nascente da quella transazione, avendo invece gli stessi, con la delibera da loro approvata, consentito che quella transazione (che non era ancora efficace e quindi vincolante per l'A.C., talché il debito non era perciò ancora sorto) avesse effetto e corso. Va anche detto che nel caso di specie, l'intento di definire una situazione che, comunque, rappresentava un torto dell'Amministrazione verso il cittadino invoca l'uso del potere riduttivo.

Il dovuto ricorso ad una valutazione equitativa, stante la difficoltà di definizione dell'indennizzo da occupazione espropriativa, conducono ad addebitare a Sbragia Claudio la somma di € 2.000,00 comprensiva di interessi e rivalutazione, € 600,00 a Narducci Daniele,  relatore  in  seno  alla   commissione   di   valutazione,  ed € 2.000,00 divisa in eguali parti, per Giorgi Roi, Simoni Siro, D'Amaddio Roberto e Guidi Angelica.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la regione Toscana, in composizione collegiale, definitivamente decidendo

assolve

Guidi Galileo, SVENJAK Edoardo e CHECCHI Americo per le ragioni di cui in motivazione con spese compensate

condanna

SBRAGIA Claudio al pagamento della somma di € 2.000,00, NARDUCCI Daniele, alla somma di € 600,00, D'Amaddio Roberto, Giorgi Roi, Simoni Siro e Guidi Angelica alla somma, in parti eguali, di € 2.000,00 ai sensi di quanto in motivazione, per gli addebiti loro rivolti.

Con spese di giudizio a carico di questi ultimi, in proporzione della condanna e complessivamente liquidate in € 1.147/03.(Euro millecentoquarantasette/03)…

Così deciso in Firenze nelle camere di consiglio del giorno 17.11.2004 e 1.4.2005.

L'ESTENSORE                                                 IL PRESIDENTE

F.to Dott. L. VENTURINI                 F.to   Prof. G. GUASPARRI

 

Depositata in Segreteria il         16 MAGGIO 2005

                                                                                  IL DIRIGENTE

                                                                       F.to Dr.Giovanni Badame