Sent. n.3001/2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO

composta dai magistrati:

Vincenzo Bisogno                                           Presidente

Bruno Di Fortunato                                         Consigliere

Angela Silveri                                      Consigliere relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità promosso dalla Procura Regionale nei confronti dei sigg.

1)   MARZOLI VITTORIO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

2)         BORRELLI GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

3)         MASSIMI GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

4)         RODA MARCO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

5)         PROCOPIO ANTONIO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

6)         MONTERIU' ROBERTO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

7)         DELL'UOMO CLAUDIO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

8)         MOLINARI GIOVANNI, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

9)         GIGLI ROBERTO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

10)       DI FULVIO ANTONIO, rappresentato e difeso dall'Avv. Mario Bacci presso il cui studio in Roma, Via Luigi Capuana n. 207, ha eletto domicilio;

11)       FERRAZZANO ANNA, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

12)       ROGNONI MASSIMILIANO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

13)       DANTI ROMUALDO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

14)       OTTOLINI PAOLA, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

15)       DELLA MILLIA GIANCARLO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

16)       LELI MARIANO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio;

17)       CROCE FERDINANDO, rappresentato e difeso dall'Avv. Giulio Correale presso il cui studio in Roma, Via G. Pisanelli n. 4, ha eletto domicilio.

            Visto l'atto di citazione iscritto al n. 062486 del registro di segreteria.

            Uditi nella pubblica udienza del 24 febbraio 2005 il relatore, Consigliere Angela Silveri, gli Avv.ti Giulio Correale e Mario Bacci ed il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Marco Smiroldo.

            Esaminati gli atti ed i documenti di causa.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

            Con atto di citazione depositato il 27 settembre 2004 e ritualmente notificato la Procura regionale ha convenuto in giudizio i signori indicati in epigrafe - tutti amministratori del Comune di Nettuno - per sentirli condannare al pagamento in favore dello stesso Comune delle somme loro contestate a titolo di sanzione prevista dall'art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289.

            Osserva la Procura che l'applicazione della sanzione trova titolo nel fatto che detti amministratori hanno approvato la delibera n. 54 del 25 novembre 2003, con la quale il Consiglio comunale ha provveduto al riconoscimento di una serie di debiti fuori bilancio relativi a “prestazioni” (pari ad € 75.107,26), “fornitura di beni e servizi” (pari ad € 949.283,12), “controversie e situazioni di esproprio” (pari ad € 1.591.489,57), per un importo totale di € 2.615.879,57; nel medesimo contesto deliberativo, il Consiglio comunale ha deciso di ricorrere all'indebitamento quale mezzo di copertura delle predette spese, attraverso l'accensione di un mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti per un importo pari a € 3.098.741,00. Rileva, al riguardo, che nel caso in esame il ricorso all'indebitamento è precluso ai sensi dell'art. 119 Cost., in quanto trattasi, per la maggior parte, di spese correnti; tuttavia, il Consiglio comunale ha ritenuto di avvalersi dell'art. 41, comma 4, della legge finanziaria 2002 (legge 28 dicembre 2001, n. 448), a mente del quale “Per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell'articolo 194 del … testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”.

            Le risultanze istruttorie dimostrerebbero - sostiene la Procura regionale - che la maggior parte dei debiti fuori bilancio riconosciuti con la delibera n. 54 del 2003 e finanziati con il ricorso all'indebitamento, non solo hanno natura di spese correnti, ma anche, e soprattutto, che i crediti vantati dai privati nei confronti dell'ente territoriale sono “maturati” successivamente alla data del 9 novembre 2001, e come tali non rientrano nell'ambito d'applicazione dell'art. 41, comma 4, della legge finanziaria 2002. Rileva, al riguardo, che dall'esame compiuto sui documenti giustificativi di spesa, è emerso che parte significativa dei predetti debiti f.b. è rappresentata da parcelle e fatture emesse negli anni 2002-2003, nonchè da provvedimenti giurisdizionali depositati sempre negli anni 2002-2003: tutti atti e documenti che comproverebbero trattarsi di debiti “maturati” dopo il 9 novembre 2001, e che generano, quindi, spese di parte corrente non finanziabili con il ricorso all'indebitamento in virtù del limite posto dall'art. 119, comma 6, Cost. Altra parte dei debiti riconosciuti risulta da copie di documenti che, pur avendo una data d'emissione precedente al 2001, sono stati ricevuti dal Comune per la prima volta solo in data successiva al 9 novembre 2001, ossia nell'anno 2003. Tale circostanza è confermata, oltre che dai timbri del protocollo d'entrata del Comune apposti sulle fatture e sulle parcelle, anche dal fatto che i predetti documenti contabili recano un visto di regolare esecuzione apposto in un lasso di tempo che va dal settembre al novembre 2003. Tali evidenze documentali consentono di escludere - a parere della Procura - che i predetti debiti fuori bilancio siano maturati in data precedente il 9 novembre 2001 e, pertanto, rappresentano anche per questa parte spese correnti non finanziabili con il ricorso all'indebitamento.

Soggiunge, comunque, la Procura che la Cassa Depositi e Prestiti - all'esito dell'istruttoria compiuta sulla finanziabilità dei citati debiti fuori bilancio - ha accordato l'accensione di un mutuo di importo pari a €800.000,00, riducendo significativamente la domanda del Comune di Nettuno che ammontava a € 3.098.741,00.

            Si osserva, quindi, nell'atto di citazione che la condotta posta in essere dai convenuti integra i presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti dall'art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, secondo cui “Qualora gli enti territoriali ricorrano all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell'articolo 119 della Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli”. In tal caso, “Le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l'indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione”.

Si procede, pertanto, ad indicare nel dettaglio quali siano i presupposti richiesti dalla norma sanzionatoria ed al riguardo si evidenzia, in particolare, che: 1) i convenuti possiedono tutti la qualità di amministratori di ente locale territoriale; 2) la gran parte dei debiti fuori bilancio riconosciuti con la delibera n. 54 del 2003 non rientrano nel novero delle spese d'investimento, né secondo la prassi amministrativa così come cristallizzata in uno schema elaborato dalla Ragioneria generale dello Stato, né ai sensi dell'attuale tipologia legale prevista dall'art. 3, commi 18 e 19, della legge 24 dicembre 2003. n. 350; piuttosto, essendo “connesse al normale svolgimento dell'attività […]” del Comune (art. 165 del T.U.E.L.), sono da qualificarsi come spese di parte corrente mentre rimangono, comunque, esclusi dalla contestazione i debiti fuori bilancio per cosiddette “situazioni di esproprio”, assimilabili a spese per investimento e quindi - come tali - finanziabili con il ricorso all'indebitamento secondo la vigente normativa, come sono poi effettivamente state per un importo di € 800.000,00; 3) i debiti fuori bilancio riconosciuti con la delibera n. 54 del 2003 sono maturati successivamente al 9 novembre 2001; al riguardo premette, innanzitutto, che il significato tecnico - giuridico del termine “maturato”, utilizzato dal legislatore del 2001, deve essere desunto dai principi di diritto civile e, pertanto, devono ritenersi maturi i debiti in relazione ai quali siano intervenuti tutti gli elementi che ne determinano la certezza, la liquidità e l'esigibilità, ossia quando ricorrano tutti i presupposti per procedere all'adempimento della obbligazione (richiama, in proposito, la Deliberazione della Corte dei conti, Sez. Autonomie, del 12 luglio 2004, n. 10, pag. 215; nonché la Raccomandazione del 6 marzo 2003 dell'Osservatorio per la finanza e  la  contabilità  degli  enti  locali  presso  il  Ministero  dell'Interno); 4) poiché trattasi di spese di parte corrente, con il ricorso all'accensione di un mutuo è stato violato l'art. 119, comma 6, Cost., secondo il quale “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (...) Possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento”; evidenzia, al riguardo, che nella norma costituzionale si riflettono gli echi della rilevanza sempre maggiore assunta dalla salvaguardia degli equilibri di bilancio nell'ambito del processo di integrazione europea, ove il rispetto delle regole sull'indebitamento degli enti territoriali si pone come uno dei cardini del sistema di finanza pubblica, attorno ai quali fa perno l'osservanza del Patto di stabilità interno; 5) l'assunzione della delibera è da ascriversi alla esclusiva responsabilità dei convenuti, in quanto le decisioni in ordine alla contrazione dei mutui sono a competenza riservata del Consiglio comunale (art. 42, lett. h), D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. mod. ed integr.), non rientrando comunque nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi (art. 1, comma 1 ter, della l. 14 gennaio 1994, n. 20, e succ. mod. ed integr.); non può, quindi, avere alcun rilievo la scusante della “buona fede” prevista per i componenti degli organi collegiali dalla legge n. 20 del 1994 e successive modificazioni; inoltre, la decisione di finanziare le spese di parte corrente mediante indebitamento, nonostante l'esistenza del limite impeditivo previsto dall'art. 119, comma 6, Cost., si dimostra una scelta cosciente e volontaria dei convenuti, che si rivela compiuta in violazione della predetta norma a contenuto cautelare, volta alla salvaguardia degli equilibri di bilancio; 6) circa la quantificazione della sanzione, osserva che l'art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002 stabilisce che la condanna ha ad oggetto una “sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l'indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione”; rileva, quindi, che la base di calcolo della sanzione è costituita dalla somma delle indennità di carica percepite dagli amministratori dalla data delle elezioni fino alla adozione della delibera n. 54 (somma che indica nel dettaglio per ciascun amministratore); osserva, altresì, che - come emerge dall'ampia discussione che ha preceduta l'adozione della delibera - tutti i convenuti erano a conoscenza della disciplina dei mezzi di finanziamento dei debiti fuori bilancio, ed in particolare dei suoi limiti applicativi circa le spese correnti; gli stessi amministratori erano a conoscenza della circostanza che alcune fatture, parcelle e provvedimenti giurisdizionali avevano una data successiva al 9 novembre 2001 e, comunque, non si sono minimamente preoccupati di comprovare le ragioni dell'impossibilità di provvedere a norma dell'articolo 193, comma 3, del T.U.E.L. omettendo anche di motivare, come invece prevede l'art. 194, comma 3, del T.U.E.L., circa l'impossibilità di utilizzare altre risorse per il ripiano di tali debiti; sempre con riferimento alla misura della sanzione, rileva che alcuni dei convenuti - ed in particolare i signori MARZOLI, BORRELLI, MASSIMI, RODA, PROCOPIO, GIGLI, DANTI, OTTOLINI, DELLA MILLIA e LELI - avevano adottato la delibera n. 46 dell'11 novembre 2002, con la quale il Consiglio comunale aveva applicato l'art. 41, comma 4, della 1. 28 dicembre 2001, n. 448, prendendo in considerazione “tutte le situazioni debitorie riconoscibili rientranti nella nuova disciplina”; in considerazione della loro maggiore consapevolezza della problematica ritiene, quindi, che agli stessi vada applicata una sanzione pari a quindici volte l'indennità di carica; mentre nei confronti di tutti gli altri ritiene che la sanzione debba essere commisurata a dieci volte l'indennità di carica.

In definitiva chiede la condanna dei convenuti per le somme di seguito indicate:

1)   Vittorio MARZOLI - € 336.801,75 (€ 22.453,45 x 15);

2)   Giuseppe BORRELLI - € 65.341,00 (€ 4.356,12 x 15);

3)   Giuseppe MASSIMI - € 2.234,40 (€ 148,96 x 15);

4)   Marco RODA - € 3.910,20 (€ 260,68 x 15);

5)   Antonio PROCOPIO - € 4.468,80 (€  297,92 x 15);

6)   Roberto GIGLI - € 2.793,00 (€ 186,20 x 15);

7)   Romualdo DANTI - € 6.144,60 (€ 409,64 x 15);

8)   Paola OTTOLINI - € 2.793,00 (€ 186,20 x 15);

9)   Giancarlo DELLA MILLIA - € 2.793,00 (€ 186,20 x 15);

10) Mariano LELI - € 7.820,40 (€ 521,36 x 15);

11) Roberto MONTERIU' - € 2.606,80 (€ 260,68 x 10);

12) Claudio DELL'UOMO - € 2.234,4 (€ 223,44 x 10);

13) Giovanni MOLINARI - € 2.234,4 (€ 223,44 x 10);

14) Antonio DI FULVIO - € 2.979,20 (€ 297,92 x 10);

15) Anna FERRAZZANO - € 1.489,60 (€ 148,96 x 10);

16) Massimiliano ROGNONI - € 1.489,60 (€ 148,96 x 10);

17) Ferdinando CROCE - € 1.862,00 (€ 186,20 x 10).

            I convenuti Marzoli, Danti, Ottolini, Rognoni, Ferrazzano, Leli, Borrelli, Della Millia e Croce si sono costituiti in giudizio a mezzo dell'Avv. Giulio Correale che con memoria depositata il 29 novembre 2004 ha evidenziato quanto segue: 1) nella fattispecie non vi sarebbe stata alcuna turbativa agli equilibri di bilancio, tenuto conto che sono state effettuate soltanto le spese finanziate dalla Cassa Depositi e Prestiti che ha limitato il finanziamento alle sole spese di investimento. Né varrebbe obiettare che, agli effetti della irrogazione della sanzione pecuniaria, sia sufficiente la mera inosservanza del precetto, senza che occorra anche la causazione di un danno patrimoniale; se così fosse si invocherebbe, infatti, una sorta di responsabilità formale, istituto che non esiste nel nostro ordinamento. Mancherebbe, in ogni caso, un ipotetico danno da disfunzione (per cui, peraltro, non si chiede la condanna), in quanto - poiché il finanziamento non è avvenuto - non vi è stata alcuna sottrazione di risorse; 2) anche nell'ipotesi all'esame occorre l'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, che nella specie non sussisterebbe. In particolare, si evidenzia che la delibera venne preceduta dall'istruttoria degli uffici tecnico-amministrativi ed i convenuti operarono in buona fede in base alla relazione illustrativa del dirigente dell'area economico-finanziaria che faceva confidare sulla osservanza della normativa in vigore; 3) in realtà, sussistevano i presupposti per il ricorso al mutuo, tenuto conto che si deve tener conto del momento in cui è sorta l'obbligazione e, nella specie, si trattava di prestazioni e di servizi forniti prima dell'entrata in vigore della riforma costituzionale, anche se alcune fatture sono state emesse successivamente; 4) la delibera sarebbe, pertanto, legittima e, comunque, non avrebbe provocato alcun danno non essendo stata eseguita se non parzialmente; 5) l'irrogazione della sanzione non è obbligatoria ed anche ove se ne rinvenissero i presupposti tutte le evidenziate circostanze dovrebbero indurre il Collegio a non comminarla; 6) infine, per la determinazione della sanzione la legge prevede che occorre riferirsi all'indennità percepita “al momento di commissione della violazione”; sarebbe, pertanto, illegittima la contestazione dell'atto di citazione che quantifica la sanzione commisurandola alle indennità percepite fino al momento dell'adozione della delibera che si assume illegittima.

            Chiedono, quindi, il rigetto della domanda o, in subordine, che la sanzione venga quantificata secondo i diversi parametri indicati in memoria.

            I convenuti Roda, Massimi, Procopio, Gigli, Monteriù, Dell'Uomo, Molinari e Di Fulvio si sono costituiti in giudizio a mezzo dell'Avv. Mario Bacci che, con memoria depositata il 4 febbraio 2005, premessa un'ampia ricostruzione in fatto e in diritto, ha dedotto quanto segue: 1) inesistenza dei presupposti oggettivi della condotta illecita. Al riguardo evidenzia che la gran parte dei debiti fuori bilancio si riferivano a spese di investimento, come tali finanziabili con ricorso a mutuo, trattandosi per circa 1.600.000 € di debiti per espropri. Ugualmente legittimo il ricorso al mutuo per le altre spese, trattandosi di debiti maturati anteriormente all'8 novembre 2001. Sul punto, osserva che si tratta di debiti certi, liquidi ed esigibili prima di tale data, in quanto l'emissione della fattura attiene ad un momento meramente ricognitivo della prestazione effettuata; 2) inesistenza dei presupposti soggettivi, trattandosi di delibera adottata in buona fede; 3) insussistenza del danno, stante la rinuncia al mutuo a suo tempo richiesto.

            Con memoria depositata il 4 febbraio 2005 la Procura ha ribadito le considerazioni svolte in citazione, evidenziando in particolare che: a) la responsabilità finanziaria prevista dall'art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002 si basa esclusivamente su di una valutazione legale tipica di offensività del fatto descritto dalla norma; b) il momento in cui si perfeziona la condotta sanzionata è quello in cui si è verificata l'assunzione della delibera di ricorso all'indebitamento, essendo irrilevanti i profili esecutivi della delibera stessa; c) il meccanismo afflittivo della sanzione pecuniaria rappresenta una valutazione legale tipica di adeguatezza della risposta sanzionatoria al fatto commesso; non è, quindi, sostenibile alcun raffronto con le disposizioni previgenti del testo unico; d) la norma non prevede alcuna limitazione in ordine al grado della colpa richiesta e, quindi, sono sanzionati anche gli illeciti commessi con colpa senza ulteriori qualificazioni; e) circa la maturazione dei debiti fuori bilancio ha confermato - adducendo ulteriori argomentazioni - le considerazioni svolte nell'atto di citazione.

            All'udienza dibattimentale del 24 febbraio 2005 l'Avv. Giulio Correale ha rilevato, in rito, che la memoria del P.M. deve essere dichiarata inammissibile perché depositata fuori termine. Nel merito, ha fatto presente che la Procura regionale ha seguito nel caso di specie la procedura prevista per i giudizi di responsabilità, notificando - prima dell'atto di citazione - l'invito a dedurre; ed, in effetti, anche per il caso di specie debbono sussistere tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, quali il danno e la colpa grave. Ha ribadito, al riguardo, le considerazioni svolte in memoria circa la mancanza dei presupposti per l'affermazione della responsabilità ed ha confermato le conclusioni ivi rassegnate.

            L'Avv. Mario Bacci si è riportato alla memoria difensiva ed ha dichiarato di aderire, altresì, alle considerazioni svolte dall'Avv. Correale, ribadendo in special modo che i propri assistiti hanno agito in buona fede e che, nella specie, manca il presupposto del danno.

            Il P.M. ha ampiamente ripercorso le argomentazioni esposte nell'atto di citazione e nella memoria, insistendo soprattutto sul fatto che per l'irrogazione della sanzione è sufficiente aver deliberato il ricorso all'indebitamento, a prescindere dall'esito che ha avuto la delibera.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.         Rileva, innanzitutto, il Collegio l'infondatezza della eccezione di inammissibilità sollevata da alcuni convenuti con riferimento alla memoria depositata dalla Procura regionale. E' sufficiente, al riguardo, osservare che il deposito è avvenuto il 4 febbraio 2005 e, quindi, entro il termine di venti giorni antecedenti all'udienza fissata per il 24 febbraio ed entro il termine stabilito dal Presidente della Sezione nel decreto di fissazione d'udienza. In ogni caso, la questione appare del tutto irrilevante ai fini procedurali, tenuto conto che la memoria non contiene domande nuove, ma solo una illustrazione della domanda proposta nell'atto di citazione.

2.         Nel merito, trattasi di stabilire se abbia fondamento la domanda per l'irrogazione della sanzione introdotta dall'art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (legge finanziaria 2003); domanda che è stata proposta dalla Procura regionale nei confronti degli amministratori del Comune di Nettuno, per avere questi deciso - con delibera n. 54 del 2003 - di ricorrere all'indebitamento quale mezzo di copertura di una serie di debiti fuori bilancio riconosciuti con la stessa delibera e relativi a prestazioni, fornitura di beni e servizi, controversie e situazioni di esproprio, deliberando l'accensione di un mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti per un importo complessivo pari ad € 3.098.741,00, poi accordato dalla Cassa per la somma ridotta di € 800.000,00.

            La questione presenta una molteplicità di profili problematici, dovendosi stabilire quali siano i presupposti perché possa darsi applicazione - ed in quali limiti - alla disposizione recata dal menzionato art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002, secondo cui “Qualora gli enti territoriali ricorrano all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell'articolo 119 della Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli. Le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l'indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione”. A tal fine non ci si può esimere da una ricostruzione della normativa in cui detta disposizione si inserisce, quale necessario corollario volto a rendere effettivi i vincoli posti dal legislatore agli amministratori degli enti locali in materia di copertura delle spese e di possibilità di ricorso al mercato finanziario.

            Al riguardo occorre prendere le mosse dal decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, che - nel disegnare il nuovo ordinamento degli enti locali (riproducendo, in parte, norme già vigenti) - contiene regole fondamentali dirette a salvaguardare gli equilibri di bilancio. In tale contesto ed ai fini che qui interessano peculiare rilievo hanno le disposizioni recate dagli artt. 182 e segg. (sulla procedura delle “spese”), 191 e segg. (in materia di “principi di gestione e controllo di gestione”), 202 e segg. (sulle “fonti di finanziamento mediante indebitamento”); tutte disposizioni che, nel loro complesso, hanno la finalità di garantire il rispetto dei principi di unità, universalità, integrità, veridicità, nonché di pareggio finanziario, posti dall'art. 151 dello stesso testo unico.

            Scopo prioritario di dette norme è, innanzitutto, quello di evitare la formazione di debiti fuori bilancio. Ed, infatti, dopo la dettagliata disciplina delle fasi della spesa (impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento) scandita dagli artt. 182 e segg., l'art. 191 prescrive che “gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione”; inoltre, se vi è stata acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi posti dall'art. 191, commi 1, 2 e 3, lo stesso articolo dispone, al comma 4, che “il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura…”. In effetti il testo unico n. 267 del 2000 prende atto che i debiti fuori bilancio - per quanto contrastati - costituiscono una realtà pressochè ineludibile, tanto che all'art. 194 ne disciplina il “riconoscimento di legittimità” anche quando derivino dalla “acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191”; in questo caso, peraltro, il riconoscimento deve essere contenuto “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”. Lo stesso art. 194 prevede inoltre, al comma 3, che “per il finanziamento delle spese” derivanti da debiti fuori bilancio “ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre risorse”. Ed in effetti l'art. 202 prescrive, con norma di carattere generale, che “il ricorso all'indebitamento da parte degli enti locali è ammesso esclusivamente … per la realizzazione degli investimenti”; dispone, però, una immediata deroga prevedendo che “può essere fatto ricorso a mutui passivi per il finanziamento dei debiti fuori bilancio di cui all'articolo 194 e per altre destinazioni di legge”. Ed è evidente che si tratta di una deroga di grande rilievo, tenuto conto che per la gran parte i debiti fuori bilancio sono connessi a spese correnti.

            In tale contesto normativo interviene la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (recante modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 5 detta una nuova formulazione dell'art. 119 Cost., prevedendo - per quanto qui interessa - che gli enti territoriali “possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento”. La finalità di tale norma è evidente, essendosi inteso dare rilievo al massimo grado - con disposizione di rango costituzionale - al principio di salvaguardia degli equilibri di bilancio, che poggia sulla regola basilare secondo cui alla copertura delle spese correnti deve provvedersi soltanto con le entrate correnti. Ed in effetti - come ha evidenziato la Procura regionale - nella formulazione della norma costituzionale si percepiscono gli echi della rilevanza sempre maggiore assunta dalla salvaguardia degli equilibri di bilancio nell'ambito del processo di integrazione europea, così che il rispetto delle regole sull'indebitamento si pone come uno dei cardini del sistema di finanza pubblica, attorno ai quali fa perno l'osservanza del Patto di stabilità interno in vista del conseguimento degli obiettivi posti dal Patto di stabilità e crescita.

            Il legislatore si è, però, dovuto porre immediatamente il problema del coordinamento con le norme in materia di indebitamento recate dal decreto legislativo n. 267 del 2000 e, quindi, evidentemente optando per l'immediata precettività del nuovo dettato costituzionale, ne ha disciplinato gli effetti intertemporali prevedendo - all'art. 41, comma 4, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) - che “Per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell'articolo 194 del … decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”. Ed, infine, per rendere effettivo il divieto posto dalla norma costituzionale, è nuovamente intervenuto in materia con l'art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002, introducendo specifiche sanzioni in caso di violazione del divieto stesso.

            Questo essendo il quadro normativo di riferimento, osserva il Collegio che un primo problema consiste nella individuazione dei limiti temporali di applicazione dell'art. 41, comma 4, della legge n. 448 del 2001; trattasi, in sostanza, di accertare l'esatto significato del termine “maturati”, utilizzato dalla stessa legge n. 448/2001 quale discrimine tra possibilità o meno di indebitamento con riguardo ai debiti fuori bilancio di parte corrente antecedenti all'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 (e, cioè, antecedenti all'8 novembre 2001). Tale accertamento si impone tenuto conto che - nella prospettazione accusatoria - l'illegittimità del ricorso al mutuo da parte degli amministratori del Comune di Nettuno è fondata sulla addotta non finanziabilità dei debiti fuori bilancio di parte corrente per essere questi - nella gran parte, se non nella totalità - maturati dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001.

            Al riguardo non ignora il Collegio i pareri espressi in più sedi (vedi, in particolare, la Raccomandazione del 6 marzo 2003 emanata dall'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali presso il Ministero dell'Interno), laddove si è ritenuto di interpretare l'espressione “debiti fuori bilancio maturati” facendo riferimento ai requisiti di “certezza”, “liquidità” ed “esigibilità” che gli stessi debiti debbono possedere per poter essere riconosciuti e laddove si è, in sostanza, identificato il concetto di maturazione del debito con quello della sua riconoscibilità ai fini del pagamento al terzo.

            In realtà, ritiene il Collegio che la questione presenti profili di maggiore complessità, dovendosi, in primo luogo, considerare che il riconoscimento dei debiti fuori bilancio ha una valenza ricognitiva di debiti già insorti in capo all'ente. E' sufficiente, al riguardo, rammentare il disposto dell'art. 194 del decreto legislativo n. 267 del 2000 - che disciplina il “riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio” - ove è chiaro il piano differenziato in cui si pongono, da un lato, “il riconoscimento di legittimità” dei debiti fuori bilancio e, dall'altro, “l'esistenza” dei debiti in quanto tali.

Al riguardo, prendendo in considerazione l'elenco contenuto nell'art. 194 (limitatamente a quanto interessa per la contestazione all'esame) è sufficiente osservare che tale differenziazione indubbiamente sussiste per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive (lett. a); e ciò nella considerazione che, quando si tratti, come di regola, di sentenze di condanna, il debito non nasce - e quindi non matura - con la sentenza, ma preesiste ad essa, essendo insorto nel momento in cui il soggetto passivo dell'obbligazione avrebbe dovuto effettuare la controprestazione che il giudice accerta non essere stata effettuata e per la quale emette condanna di pagamento a favore del creditore. Basta, in proposito, por mente al fatto che, di regola, la sentenza enuncia anche l'obbligo di corrispondere gli interessi da data antecedente alla pronuncia giudiziale e, cioè, quando si tratti di obbligazione consistente in una somma di danaro, dal momento in cui il giudice accerta che sussistano i requisiti di liquidità ed esigibilità del credito (art. 1282 c.c.), ovvero dal giorno in cui sia intervenuta la mora del debitore (art. 1224 c.c.). In questi casi non si può dubitare che il debito fuori bilancio costituito dalla sorte capitale sia insorto - e quindi sia maturato - in data antecedente all'emanazione della sentenza. Altrettanto è a dirsi nelle ipotesi in cui la sorte capitale venga rivalutata per tener conto del danno subito dal creditore per la diminuzione del valore del suo credito; è certo, anche in questi casi, che il debito fuori bilancio costituito dalla sorte capitale sia maturato anteriormente alla sentenza. In definitiva, nell'ipotesi di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, ai fini dell'accertamento della maturazione degli stessi debiti, si dovrebbe scindere la sorte capitale dagli accessori del credito, la prima restando ancorata alla data della accertata esigibilità del credito ed i secondi venendo a compiuta esistenza solo alla data di deposito della sentenza.

Una analoga differenziazione di piani tra “riconoscimento di legittimità dei debiti fuori bilancio” ed “esistenza” degli stessi si rinviene anche nelle ipotesi di acquisizione di beni e servizi in assenza di impegno contabile e, comunque, in violazione delle norme recate dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 191 (lett. e dell'art. 194), relativamente alle quali va subito detto che il debito matura nel momento in cui è stata effettuata la prestazione ed è, quindi, sorto in capo al beneficiario l'obbligo della controprestazione consistente nel pagamento di una somma di danaro. In queste ipotesi è, peraltro, chiara anche la differenza tra esigibilità del credito in senso civilistico ed esigibilità del debito fuori bilancio in senso giuscontabilistico; e ciò in quanto, in realtà, soprattutto per i debiti fuori bilancio indicati alla lettera e) dell'art. 194 non si può parlare di vera e propria esigibilità nei confronti dell'ente locale prima che il debito sia stato riconosciuto e, anche in ipotesi di riconoscimento, l'esigibilità resta circoscritta dai limiti in cui il riconoscimento può dispiegarsi e cioè - come prescrive la stessa lettera e) dell'art. 194 - dai “limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”. Ed in ciò trova ragione il fatto che la legge parli non di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, bensì di riconoscimento di legittimità dei debiti stessi. In altri termini, con la procedura di riconoscimento prevista dall'art. 194 l'ente locale non deve limitarsi a verificare che beni o servizi siano stati acquisiti in violazione della procedura di spesa, ma deve altresì accertare che si sia trattato di acquisizioni necessarie per lo svolgimento dei servizi di competenza e per l'espletamento di pubbliche funzioni e, quindi, quantificare l'utilità e l'arricchimento che ha ricevuto con le medesime acquisizioni, limitando il riconoscimento dei debiti fuori bilancio a tale utilità ed arricchimento; e solo in questi limiti i debiti fuori bilancio saranno ascrivibili all'ente locale - e, quindi, esigibili dallo stesso ente - quale soggetto passivo del rapporto obbligatorio.

Tale connotazione è confermata, del resto, dall'art. 191, comma 4, laddove è previsto che “nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura.” Né può dirsi che la disciplina dei debiti fuori bilancio leda in qualche modo i diritti del terzo fornitore, tenuto conto che è previsto un diretto coinvolgimento di questi nella procedura di spesa, disponendo l'art. 191, comma 1, che “il responsabile del servizio … comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione, con l'avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione … il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati.” E' ovvio, pertanto, che ove il terzo esegua la prestazione richiesta, pur in mancanza della comunicazione, ha piena consapevolezza delle conseguenze che ne possono derivare in termini di esigibilità della controprestazione nei confronti dell'ente locale.

In definitiva, ritiene il Collegio che già sotto il profilo dianzi esaminato la domanda non trovi un sicuro fondamento; e ciò nella considerazione che, come emerge dalla documentazione in atti, i debiti fuori bilancio riconosciuti con la delibera n. 54 del 2003 sono per la quasi generalità insorti - e, quindi, maturati - anteriormente all'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, trattandosi di prestazioni o di servizi forniti al Comune di Nettuno in data antecedente all'8 novembre 2001. In realtà deve dirsi che la ragione di illegittimità del provvedimento, per quanto concerne la deliberazione di dare copertura ai debiti fuori bilancio mediante ricorso all'indebitamento, risiede piuttosto nel non aver esposto - né tanto meno documentato - le ragioni che impedivano di utilizzare, come previsto dall'art. 193, comma 3, le entrate correnti o i proventi derivanti dalla alienazione di beni patrimoniali disponibili; con ciò violando il disposto dell'art. 194, comma 3, secondo cui (come si è già detto) per il finanziamento dei debiti fuori bilancio l'ente locale può far ricorso a mutui, sempre che non possa documentalmente provvedere a norma dell'articolo 193, comma 3, e dando dettagliata motivazione della impossibilità di utilizzare risorse diverse da quelle provenienti dal mercato finanziario.

            Reputa, peraltro, il Collegio che - a prescindere dalle considerazioni sopra esposte sulla “maturazione” dei debiti fuori bilancio riconosciuti con la discussa delibera - la domanda di irrogazione della sanzione non possa comunque essere accolta, dovendosi tenere conto che il ricorso all'indebitamento deliberato con quel provvedimento non è stato portato ad esecuzione se non nei ridotti limiti accordati dalla Cassa Depositi e Prestiti, relativamente ai quali la Procura regionale non ha dedotto alcuna violazione dei parametri normativi di riferimento.

            Sul punto osserva il Collegio che, certamente, come osservato nell'atto di citazione, la responsabilità prevista dall'art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002, si basa su di una valutazione legale tipica d'offensività del fatto descritto dalla norma. Ed, in effetti, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 320 del 2004 (menzionata nell'atto di citazione a sostegno delle tesi interprative ivi esposte) la previsione … di una possibile condanna, da parte della Corte dei conti, ad una sanzione pecuniaria (rapportata all'indennità di carica) per gli amministratori degli enti territoriali … trova il proprio fondamento nella potestà legislativa dello Stato di dare attuazione al sesto comma dell'art. 119 Cost., dal momento che configura esclusivamente alcune sanzioni per comportamenti confliggenti con il divieto affermato nella disposizione costituzionale”.

            Il punto nodale resta, peraltro, quello di stabilire quali siano i comportamenti confliggenti con il divieto posto in materia di indebitamento dall'art. 119 Cost., dovendosi, in sostanza, valutare se - come si sostiene nell'atto di citazione - ai fini della irrogazione della sanzione pecuniaria introdotta dall'art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, sia sufficiente l'adozione della delibera di ricorso all'indebitamento per il finanziamento di spese correnti, restando irrilevante il fatto che la delibera vada o meno in esecuzione e, quindi, a prescindere dal fatto che il ricorso all'indebitamento diventi o meno operativo.

            Al riguardo, nessun dubbio sussiste sul fatto che la violazione del divieto costituzionale trovi il suo momento genetico nell'adozione dell'atto deliberativo con il quale gli amministratori di un ente territoriale stabiliscano di dare copertura a spese di parte corrente non con entrate ordinarie, bensì mediante indebitamento. Ed, infatti, la disposizione recata dal ripetuto art. 30, comma 15, prevede che la sanzione pecuniaria venga irrogata nei confronti degli amministratori che assunsero la delibera e rapporta la sanzione all'indennità di carica percepita al momento della commissione della violazione; momento che non può essere individuato in altro che nell'adozione della delibera. E' altrettanto indubbio, peraltro, che in ipotesi del genere l'indebitamento non dovrebbe, di regola, concretizzarsi, tenuto conto che la norma in discussione - contestualmente alla previsione della sanzione pecuniaria - commina la nullità dei “relativi atti e contratti”; nullità che rende inefficaci ed improduttivi di ogni effetto sia la delibera di ricorso al finanziamento sia il contratto stipulato con l'ente erogatore del finanziamento.

            Tali circostanze inducono a ritenere che la disposizione intenda sanzionare la condotta degli amministratori che, agendo in dispregio dei vincoli costituzionali, pongano l'ente territoriale in una situazione di pericolo, quale è quella che si verifica quando vengano minacciati gli equilibri di bilancio dell'ente stesso, così come voluti ed imposti dal legislatore nazionale a tutela degli equilibri più generali della finanza pubblica; equilibri che sono stati costituzionalmente definiti anche in termini di pareggio tra entrate e spese di parte corrente. Ma se così è, ritiene il Collegio che la situazione di pericolo si verifichi non nel momento in cui viene adottata la delibera, bensì nel momento in cui la delibera viene portata ad esecuzione; è, infatti, solo in questo momento che il pericolo di squilibrio del bilancio diviene concreto. Diversamente opinando, la sanzione dovrebbe essere applicata in ogni caso e comunque, anche quando, ad esempio, la delibera venga revocata dagli stessi amministratori che l'adottarono; con la conseguenza che la norma verrebbe ad essere intesa in senso talmente formalistico da non tenere conto neppure della complessità dell'agire amministrativo. Va, del resto, considerato che, aderendo all'interpretazione più rigorosa della norma quale quella seguita dalla Procura regionale, si perverrebbe all'esito di sanzionare non tanto il pericolo dello squilibrio di bilancio, quanto il rischio che si verifichi una situazione di pericolo; il che - per le ragioni dianzi evidenziate - non appare conforme alla ratio della norma all'esame.

            Né può dirsi che detta interpretazione sia la più aderente alla lettera della legge. Al riguardo si rileva che la disposizione contiene la previsione di due reazioni alla violazione del divieto costituzionale: sanzioni oggettive, consistenti nella comminatoria di nullità dell'atto deliberativo e del contratto di finanziamento; sanzioni personali, consistenti nella irrogazione di una pena pecuniaria a carico dei trasgressori. Tali reazioni appaiono strettamente correlate l'una all'altra, tanto che la sanzione pecuniaria sembra configurarsi quale conseguenza ulteriore rispetto alla nullità degli atti (…i relativi atti e contratti sono nulli … Le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria…). Inoltre, le sanzioni sono espressamente collegate al ricorso all'indebitamento (“Qualora gli enti locali ricorrano all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento”) e, quindi, appaiono testualmente riferite all'ipotesi in cui sia stata portata a compimento un'operazione di accensione di mutuo o di finanziamento di altro genere; operazione che inizia con l'atto deliberativo ma che si perfeziona solo quando il finanziamento sia stato concesso da parte dell'ente mutuante.

            In definitiva, anche sotto questo profilo, la domanda di irrogazione della sanzione pecuniaria non è fondata; e ciò nella considerazione che la delibera è stata portata in esecuzione solo per la parte in cui la Cassa Depositi e Prestiti ha ritenuto che sussistessero i presupposti per la concessione del finanziamento e tenuto conto che, per detta parte, la Procura regionale non ha formulato alcuna contestazione.

            Per completezza di motivazione, reputa il Collegio di dover puntualizzare che, anche ove si dovesse ritenere che per l'irrogazione della sanzione pecuniaria sia sufficiente l'assunzione della delibera pur non portata in esecuzione, la domanda dovrebbe, comunque, essere respinta per le ragioni di seguito indicate.

            Innanzitutto, non può non rilevarsi che la disposizione di cui trattasi introduce nell'ordinamento una fattispecie sanzionatoria che differisce dalla comune responsabilità di cui conosce questa Corte. Ed, in effetti, se non vi è dubbio che la responsabilità amministrativa ha una prevalente connotazione pubblicistico-sanzionatoria, essendo privilegiata - piuttosto che l'integrale reintegrazione del danno erariale - la finalità di assicurare il rispetto delle regole di buona amministrazione censurando le più gravi violazioni degli obblighi di servizio, è però certo che dette violazioni non hanno rilievo nel giudizio di responsabilità amministrativa, ove non abbiano cagionato un effetto lesivo per l'erario, essendo il danno - al tempo stesso - parametro e limite nella quantificazione dell'addebito da imputare al soggetto responsabile. Nell'ipotesi all'esame, invece, la condotta trasgressiva viene sanzionata a prescindere dalla produzione del danno, avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione la regola dell'equilibrio di bilancio anche quando la sua violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità e la crescita economica del paese nel suo complesso. E' evidente, peraltro, che, ove quella stessa condotta illecita cagionasse un danno erariale economicamente valutabile, la fattispecie rientrerebbe nel genus della responsabilità amministrativa che - come è noto - è configurata dal legislatore mediante ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall'aver cagionato danno erariale nell'esercizio delle funzioni con azioni od omissioni imputabili a dolo o colpa grave.

            Tanto premesso, è indubbio che la fattispecie all'esame configuri una vera e propria responsabilità sanzionatoria, essendo irrilevante - ai fini della irrogazione della sanzione - che la violazione del divieto costituzionale abbia prodotto un danno e tenuto conto che la sanzione è commisurata a parametri certi (le indennità percepite dagli amministratori al momento della violazione) ed è irrogabile, nei limiti minimo e massimo individuati dalla legge stessa, in ragione della mera potenzialità lesiva insita nella condotta trasgressiva.

            Ciò non significa, peraltro, che - ai fini della irrogazione della sanzione - non abbia rilievo l'elemento soggettivo. Al riguardo si osserva, innanzitutto, che non appare consono ritenere che, anche per detta fattispecie sanzionatoria, debba applicarsi la limitazione alla colpa grave prevista per la comune responsabilità amministrativa. Sul punto è sufficiente rilevare che quella limitazione trova ragione nel fatto che la responsabilità amministrativa è costruita su una clausola generale e, quindi, estremamente varie sono le possibili condotte antigiuridiche e le possibili fattispecie lesive per l'erario; per tale ragione, il legislatore ha ritenuto - nella sua discrezionalità - di limitare la reazione dell'ordinamento agli illeciti più gravi, nel timore che la prospettiva di una responsabilità anche per violazioni commesse per mera colpa possa costituire un disincentivo allo svolgimento dell'attività amministrativa. Tale esigenza non sussiste nel caso all'esame, tenuto conto che si tratta di una fattispecie di responsabilità tipizzata dalla legge stessa. A ciò si aggiunga che il limite della colpa grave sarebbe in contraddizione con la possibilità che la sanzione pecuniaria venga comminata entro i limiti minimo e massimo previsti dalla legge, essendo evidente che uno dei parametri principali per la modulazione della sanzione è proprio quello di adeguare la sanzione stessa alla maggiore o minore gravità della violazione; scopo che sarebbe pressochè vanificato ove si intendesse che - pur nel silenzio della legge - dovessero restare impunite le condotte meramente colpose.

            Ciò posto, come precisato dalla Procura regionale nella memoria d'udienza, deve, comunque, sottolinearsi che l'applicazione della sanzione presuppone che la violazione sia stata commessa almeno per colpa. Al riguardo, osserva, peraltro, il Collegio che, ai fini dell'accertamento della sussistenza della colpa, non può non avere rilievo una causa di esclusione generale - quale è l'errore scusabile - la cui valenza esonerativa della responsabilità è insita nel fatto che l'errore, quando è scusabile, e, cioè, quando non dipenda a sua volta da colpa, esclude che la violazione possa essa stessa essere imputata a colpa. In tale evidenza trova fondamento la consolidata giurisprudenza in materia, tanto da potersi affermare che il principio costituisce ormai ius receptum; e ciò senza contare che l'effetto esimente dell'errore scusabile trova una sua disciplina positiva nel sistema delle sanzioni amministrative regolato dalla legge n. 689 del 1981 (art. 3).

            Nel caso di specie, a prescindere dalle considerazioni fin qui svolte sugli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria, ritiene il Collegio che la sussistenza della colpa deve essere esclusa proprio per l'esimente dell'errore scusabile. Al riguardo si osserva che con la contestata delibera gli amministratori del Comune di Nettuno hanno disposto di ricorrere all'indebitamento non per sostenere spese di parte corrente da loro stessi deliberate, bensì per finanziarie debiti fuori bilancio rivenienti dalla precedente amministrazione. Si osserva, altresì, che - anche ammettendo che detti debiti siano “maturati” (in tutto o in parte) successivamente all'entrata in vigore della legge cost. n. 3/2001 - è però certo che l'evento della “maturazione” e, quindi, la sua collocazione temporale ante o post la sopravvenienza del divieto di indebitamento per le spese correnti non era di agevole percezione, tanto più che, per la generalità dei casi, si trattava di debiti fuori bilancio derivanti da prestazioni o servizi effettivamente forniti all'ente locale prima dell'8 novembre 2001. Tali circostanze inducono a qualificare come non colposo l'errore in ipotesi compiuto dagli amministratori nella individuazione dei debiti fuori bilancio finanziabili mediante ricorso all'indebitamento e, quindi, altrettanto non colposa la violazione delle nuove norme in materia.

            Ritiene, infine, il Collegio di non potersi esimere dal rilevare che non appaiono condivisibili le modalità seguite dalla Procura regionale per quantificare la sanzione contestata ai convenuti. Ed, invero, la disposizione recata dall'art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002 non può essere intesa nel senso che debba essere preso a riferimento l'intero coacervo delle indennità percepite fino al momento della commissione della violazione, dovendosi, più correttamente, ritenere - in aderenza alla lettera della legge - che il parametro della sanzione sia costituito dall'indennità di funzione mensile o dal gettone di presenza percepiti al momento della commissione della violazione, secondo gli importi previsti dalla vigente normativa (decreto del Ministero dell'Interno 4 aprile 2000 n. 119 ed eventuali modifiche od integrazioni). Diversamente opinando, si perverrebbe all'esito assurdo - e, comunque, non aderente alla ratio della legge - di comminare una sanzione che avrebbe un parametro di riferimento variabile a seconda del tempo in cui la violazione venga commessa, con divergenze che raggiungerebbero misure macroscopiche a seconda che si tratti di violazione commessa all'inizio o alla fine del mandato elettorale. E' evidente, al riguardo, che la misura della sanzione deve adeguarsi anche all'esperienza acquisita nel corso del mandato - e ciò in quanto ad una maggiore esperienza corrisponde, in caso di violazione, un divario maggiore dalla condotta esigibile e, quindi, una colpa di livello più grave - ma tale modulazione è già assicurata dalla possibilità di spaziare dal minimo di cinque al massimo di venti volte l'indennità percepita al momento di commissione della violazione.

            In definitiva, per tutte le considerazioni sopra esposte, la domanda di applicazione della sanziona prevista dall'art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002 non può essere accolta.

Ritiene, comunque, il Collegio che la complessità e la novità delle questioni affrontate costituiscano giusti motivi legittimanti la compensazione delle spese di giudizio ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio

RESPINGE

la domanda per l'irrogazione della sanzione di cui all'art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, proposta dalla Procura regionale nei confronti degli amministratori del Comune di Nettuno indicati in epigrafe.

Compensa tra le parti le spese di giudizio.

            Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 24 febbraio 2005 proseguita l'11 marzo 2005.

            L'ESTENSORE                                            IL PRESIDENTE

       (ANGELA SILVERI)                                    (VINCENZO BISOGNO)

 

            DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 20/12/2005

 

                                                                       Il Direttore di Segreteria

                                                                 Dott.ssa Mirella Freda