Sent. n. 79/2005/A
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE DEI CONTI
SEZIONE
PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE D'APPELLO
composta dal
Sigg.ri Magistrati
dott. Tullio Simonetti |
Presidente |
dott.ssa M. Teresa Arganelli |
Consigliere |
dott. Davide Morgante |
Consigliere |
dott.Rocco Di Passio |
Consigliere |
dott.ssa Piera Maggi |
Consigliere rel. |
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio sull'
appello iscritto al n. 17436 del registro di Segreteria, proposto dal dott.
Vincenzo Giovannola, rappresentato e difeso dagli avv.ti Luigi Cocchi e Guido
Romanelli ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in
Roma, via Pacuvio, n. 34 avverso la sentenza n. 30 del 2003 del 13 dicembre
2002, resa dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Liguria;
Visti gli
atti e documenti di causa;
Uditi, nella
pubblica udienza del 14 dicembre 2004, il relatore Consigliere dott.ssa Piera
Maggi, l'avvocato Guido Romanelli per l'appellante nonché il Pubblico Ministero
nella persona del Vice Procuratore Generale dott. Roberto Benedetti;
FATTO:
Avverso la
sentenza della Sezione Giurisdizionale per la Regione Liguria n. 30 del 2003 del
13 dicembre 2002, è stato proposto appello dal dott. Vincenzo Giovannola.
Questi i
fatti di causa.
Con atto di
citazione del 12/12/2001 la Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale
della Corte dei conti per la Liguria, ha convenuto in giudizio il dott.
Vincenzo Giovannola, in qualità di ufficiale della Guardia di Finanza, per
sentirlo condannare al pagamento, in favore dell'erario, della somma
complessiva di 13 milioni, oltre accessori.
L'Organo
requirente ha imputato al convenuto di avere percepito, per favorire la società
Oleifici Mediterranei, soggetto di una verifica fiscale da parte di finanzieri
dipendenti dallo stesso, l'indebita somma di lire 6,5 milioni, così cagionando
all'erario un danno patrimoniale per minori entrate tributarie, quantificato in
misura pari a quella della somma percepita, oltre che un danno per lesione
all'immagine dell'amministrazione di appartenenza, quantificato nello stesso
importo.
Il P.M. ha
rappresentato che, per tali fatti, il Tribunale di Genova, con sentenza n.
3826/2000 del 9/3/2001 ha condannato l'attuale appellante che aveva ammesso le
proprie responsabilità nel corso delle indagini preliminari per il delitto di
corruzione propria.
Il Collegio
di primo grado, con la sentenza oggetto del presente gravame, ha riconosciuto
la responsabilità del convenuto, condannandolo al pagamento di euro 2.582,28 a
titolo di danno patrimoniale ed euro 1.291,14 per il danno all'immagine subìto
dall'amministrazione finanziaria.
Avverso la
condanna l'appellante deduce quanto segue: la mancata prova del danno
patrimoniale, in quanto l'attore avrebbe dovuto provare che, nell'ambito della
verifica presso la suddetta società, non erano state evidenziate illegittimità
che, se denunciate ai competenti uffici, avrebbero potuto portare a maggiori
accertamenti impositivi nel confronti della stessa ed a un maggior gettito
fiscale. Né sarebbe ammissibile, come ritenuto dal Collegio di primo Grado, una
presunzione di equivalenza fra la dazione ed il danno in quanto non sarebbe
provato il fatto noto relativo a pregiudizio specificatamente derivato da
omissioni dei verificatori; ciò anche perché la prima potrebbe trovare
giustificazione nel desiderio del contribuente di accelerare la chiusura delle
fastidiose operazioni, interferenti nella sua sfera operativa; allo stesso modo
non risulterebbe provato il danno all'immagine dell'amministrazione, in quanto
sarebbero frutto di mere affermazioni i presunti costi sopportati da
quest'ultima, connessi alla formazione di nuove professionalità o ad accresciute
esigenze di repressione dell'evasione fiscale.
Il
Procuratore Generale non ha ritenuto fondate le suesposte considerazioni per i
seguenti motivi.
Il fatto noto
dal quale il Collegio ha tratto la ragionevole conseguenza della sussistenza,
nel caso di specie, di un danno erariale è costituito dalla percezione di una
indebita somma di danaro, collegata allo svolgimento di una verifica fiscale,
fatto che ha integrato gli estremi del reato di corruzione propria.
Come
giustamente evidenziato dal Collegio di primo grado, dal momento che, in tale
fattispecie delittuosa, la dazione del danaro rappresenta per il pubblico
ufficiale la controprestazione di un atto contrario ai doveri del suo ufficio,
nel caso di specie, essa non poteva che attenere alla mancata evidenziazione di
rilievi che avrebbero portato all'accertamento di maggiori imposte, perché solo
la prospettiva di un vantaggio indebito può indurre un imprenditore ad
assumersi i gravi rischi connessi al compimento di un reato (in tal senso si
vedano anche le sentenze Sez. III n. 216 e 242 del 2000, Sez. II n. 365 del
2000 e Sez. I n. 348 del 2000). Né sarebbe ragionevole ritenere, secondo il
Procuratore Generale, che la dazione possa trovare causa, come ritenuto
dall'appellante, nel desiderio del contribuente di accelerare la chiusura della
verifica.
La
contestazione dell'appellante, relativa alla riconosciuta sussistenza anche di
un danno all'immagine subito dall'amministrazione finanziaria presuppone,
sostanzialmente, che, per la sussistenza di quest'ultimo, sia necessaria la
dimostrazione dell'effettuazione di specifiche spese dirette al ripristino del
bene giuridico leso.
In merito
ricorda il Procuratore Generale che la Corte di Cassazione nel riconoscere la
giurisdizione contabile in materia, (a cominciare dalla sentenza delle SS.UU.
n. 5668 del 1997) ha distinto il danno erariale, costituito dai maggiori costi
sostenuti dall'amministrazione a seguito di comportamenti illeciti di suoi
agenti, dal danno in questione, ribadendo che la Corte dei conti ha giurisdizione
quando "si assuma sussistente non solo il danno erariale ma anche il danno
conseguente alla perdita di prestigio ed al grave detrimento dell'immagine e
della personalità pubblica dell'amministrazione ..." (così la sentenza
Cass. Sez. Un. n. 98 del 2000). Ciò anche se quest'ultimo, com'è noto, può non
comportare una lesione del patrimonio, inteso in senso economico, ma solo del
patrimonio, in senso ampio, comprensivo dei c.d. diritti della personalità.
Pur non
mancando una giurisprudenza della Corte dei conti che ritiene necessaria la
specifica dimostrazione di spese per il ripristino del bene immateriale
dell'amministrazione, il Procuratore Generale ritiene più coerente con quanto
sostenuto dalla Suprema Corte, e dalla stessa giurisprudenza civile di merito
(che, nel caso di danno all'immagine subìto da persone giuridiche private,
distingue il danno evento, costituito dalla lesione all'immagine ed alla
reputazione, dalle conseguenze patrimoniali negative che, eventualmente, ne
sono conseguite), la posizione che non ritiene necessaria la suddetta specifica
dimostrazione. Quest'ultima tesi sarebbe confortata dalla giurisprudenza
maggioritaria della Corte dei conti che ritiene la lesione della reputazione
degli enti pubblici autonomamente risarcibile, indipendentemente dagli effetti
patrimoniali negativi che ne derivano, direttamente o indirettamente,
risarcibili, eventualmente, ad altro titolo (si vedano ad es. Sez. III n. 242
del 2000 e 279 del 2001, Sez. II n. 298 del 2000, Sez. I n. 82 del 2000, e Sez.
Umbria n. 505 del 2000, n. 318 del 2001, n. 34 del 2001, per la giurisprudenza
più recente si vedano ad es. Sez. I n. 56 del `2003, Sez. III n. 80 del 2003,
Sez. Lombardia n. 1954 e n. 1696 del 2002. Sez. Lazio n. 2464 del 2002 e, da
ultimo, Sez. Riun n. 10/2003/QM del 12/3/2003 che hanno ritenuto come l'importo
dell'indebita somma di denaro percepita possa costituire uno dei parametri per
la quantificazione del danno in questione).
Inoltre,
secondo parte appellata, una rivalutazione del bene giuridicamente protetto, di
cui si discute, può essere, altresì, perseguita attraverso una graduale,
assidua, ed inevitabilmente onerosa, opera di miglioramento dei servizi offerti
dall'amministrazione e di perfezionamento dell'efficienza della sua organizzazione,
in modo da riconquistare la fiducia dei cittadini. Nel caso di specie,
sussisterebbero, poi, come sottolineato dal primo giudice, tutti gli elementi
sintomatici elaborati dalla giurisprudenza contabile per l'individuazîone del
danno in discussione, sia quelli oggettivi, legati alla gravità del reato, ed
alla risonanza dei fatti nel contesto associativo che quelli soggettivi,
connessi alle delicate funzioni svolte dall'appellante.
Pertanto,
avendo l'attore pubblico fornito la prova dell'an della lesione all'immagine
dell'ente pubblico, collegata alla commissione di un reato, il quantum è
stato, correttamente, determinato, in via equitativa, dal primo giudice.
Il
Procuratore Generale ha chiesto, pertanto, di respingere il gravame proposto
dal dott. Vincenzo Giovannola, avverso la suindicata sentenza e di condannare
lo stesso anche alle spese del doppio grado di giudizio.
Alla pubblica
udienza le parti hanno illustrato i rispettivi scritti confermando le
contrapposte conclusioni. In particolare l'avvocato Romanelli ha insistito
sulla mancata prova del danno sia patrimoniale che all'immagine citando
giurisprudenza favorevole alla sua tesi, mentre il Procuratore Generale ha
ricordato le ammissioni della parte che in primo grado non si è nemmeno difesa
non essendosi costituita in giudizio.
DIRITTO:
Sostiene
parte appellante che mancherebbe, nella sentenza, la prova del danno subito
dall'Amministrazione in quanto non sarebbe configurabile un “teorema” secondo
cui il nocumento si identificherebbe nella somma percepita in occasione della
verifica fiscale operata nei confronti della società.
Osserva il
Collegio che la tesi dell'appellante non ha pregio. Infatti, il Giovandola, in
sede penale, è stato condannato per corruzione propria ai sensi dell'art. 319
c.p. e ciò comporta che sia acquisito nel presente processo il fatto che egli
abbia ricevuto le somme per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato
un atto del suo ufficio ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario
ai doveri di ufficio. Atteso che gli atti da compiere erano collegati ad una
verifica fiscale nei confronti della ditta corruttrice, rimane provato
incontestabilmente che le azioni poste in essere dal Giovannola e dai suoi
sottoposti sono state produttive di danno e le somme non sono state da essi
percepite semplicemente per accelerare le verifiche stesse in quanto tale
ipotesi non avrebbe integrato gli estremi della corruzione su cui sussiste
giudicato. D'altra parte giustamente osserva il Procuratore Generale che la
dazione di somme da parte di una ditta trova la sua ragion d'essere nel
conseguimento di un vantaggio economico. Tale assunto è valido in quanto le
ditte corruttrici sono soggetti agenti sul mercato con fini di lucro cosicché
non è ipotizzabile la corresponsione di una liberalità posta in essere nei
confronti di un verificatore fiscale e del suo superiore, ma deve invece
intendersi che la corresponsione di somme sia sinallagmatica e venga
effettuata, come nel caso, a scopi corruttivi per evitare accertamenti di
infrazioni esistenti.
Se ciò prova
la sicura esistenza del danno, si ritiene che anche la sua quantificazione in
via equitativa sia corretta. Non deve infatti trascurarsi che la somma
corrisposta al Giovannola era solo parte di quanto erogato dalla ditta nei
confronti dei verificatori e del Giovannola loro superiore, cosicché il danno
derivato dalla percezione dolosa è da commisurarsi addirittura ad un importo
superiore rispetto a quello considerato.
Relativamente
al danno all'immagine che parte appellante ritiene non provato il Collegio
osserva che si afferma in sentenza la produzione di oltre 37 articoli di stampa
da parte del Procuratore Regionale a riprova del danno non patrimoniale
sofferto dall'Amministrazione.
Provata la
sussistenza del danno all'immagine resta da verificare se da esso sia derivato
un nocumento monetizzabile.
Si richiama
la giurisprudenza di questa Sezione che, con sentenza n. 49/2004, si è già
occupata della questione nei seguenti termini.
“La sentenza
delle Sezioni Riunite di questa Corte n. 10/2003/QM del 23 aprile 2003, nel
pronunciarsi sul danno all'immagine di una pubblica amministrazione, ha
chiarito che esso non rientra nell'ambito di applicabilità dell'art. 2059 del
codice civile -che limita la risarcibilità alle sole lesioni conseguenti a
reato- ma è una delle fattispecie del danno esistenziale (la cui risarcibilità
è riconducibile all'art. 2043 c.c.) da individuarsi nell'ambito dei danni non
patrimoniali come danno-evento e non come danno-conseguenza.
La citata
giurisprudenza, può essere ora integrata alla luce delle sentenze n. 8827 e
8828 del 31.5.2003 della Corte di Cassazione in cui viene prospettata
un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., tesa
a ricomprendere, nell'astratta previsione della norma, ogni danno di natura non
patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona comprendendo
tra essi il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come
esistenziale) derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale
inerenti alla persona stessa. La stessa Corte di Cassazione, nelle sentenze, ha
ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso
diverso dal danno morale, anche in favore delle persone giuridiche, soggetti
per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico
in termini di patemi d'animo (v., da ultimo, sentenza 2367/00). Le citate
sentenze hanno poi chiarito, sempre con riferimento all'art. 2059 c.c., che “nel
caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente
protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in
forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima
non é assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di
tutela nei casi esclusi (v. Corte costituzionale, sentenza 184/86)”.
Alla
stregua di tale interpretazione, recepita anche -con sentenza n. 233 del 2003-
dalla Corte costituzionale che ha ritenuto di dover privilegiare
l'interpretazione delle norme in senso conforme alla Costituzione, deriva che
il danno non patrimoniale ben può trovare collocazione, ai fini che
interessano, anche nella previsione dell'art. 2059 c.c., dal momento che la
lettura dell'articolo, volta a riconoscere la minima tutela costituita
dall'indennizzabilità della lesione di interessi costituzionalmente protetti
per rendere la norma conforme a costituzione, rende possibile ricomprendere
nella previsione normativa anche la risarcibilità del danno esistenziale che è
la categoria giuridica entro cui si colloca il danno all'immagine come pure
affermato dalla citata sentenza delle SS.RR. n.10/2003/QM con le argomentazioni
cui si rimanda.
Posta
quindi l'esistenza e la risarcibilità del danno all'immagine, nei termini di
cui alla citata giurisprudenza che afferma la necessità di un indennizzo per
garantire una minima tutela di interessi costituzionalmente protetti, resta da
verificare se e come esso sia quantificabile.
La citata
sentenza n. 10/QM/2003 delle SS.RR. di questa Corte ha affermato che, ai fini
della quantificazione, si può fare riferimento, oltre che alle spese di
ripristino già sostenute (da provare a carico dell'attore), a quelle ancora da
sostenere. In quest'ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c.,
potrà fondarsi su prove, anche presuntive od indiziarie (a carico dell'attore),
tra cui le conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e
conoscenza, siano riferibili al comportamento lesivo dell'immagine. Sussiste
poi la possibilità di ricorrere, per la quantificazione del danno, a parametri
diversi da quelli desumibili dalle spese (sostenute o da sostenere) per il
ripristino dell'immagine. In via generale, i parametri (individuati
dall'attore) da utilizzare in concreto per la quantificazione vanno rimessi
alla valutazione che, nella propria discrezionalità, ciascun giudice saprà
trarre dalle singole fattispecie.
Le citate
sentenze della Cassazione hanno in proposito affermato che il danno
esistenziale è pregiudizio che si proietta nel futuro e che, pertanto, è
consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base
degli elementi che sarà onere del danneggiato fornire e che la relativa
liquidazione non potrà che avvenire in via equitativa”.
La citata
giurisprudenza comporta che anche nell'ipotesi all'esame possa aversi riguardo
a quanto sopra specificato.
A tal fine,
in fattispecie, il Collegio osserva che il requirente, in citazione, ha
indicato i criteri e i parametri cui far riferimento per determinare il danno
in via equitativa (pag.4) cosicché la quantificazione effettuata si reputa
congrua.
Si aggiunge
poi che, valutati i mezzi di comunicazione coinvolti nella divulgazione della
vicenda, possa considerarsi, per il ristoro del pregiudizio, in via equitativa
e prognostica, almeno una somma presuntivamente idonea a controbilanciare, con
gli stessi mezzi, la divulgazione avvenuta nei mezzi di comunicazione e,
pertanto, equivalente alla spesa astrattamente necessaria per comunicati a
pagamento su stampa periodica (cfr. Sez. giur. Lazio sent. n. 1723/2001). In
tale ottica la cifra su cui è condanna appare addirittura riduttiva rispetto al
danno prodotto e, quindi, da confermarsi in questa sede.
L'appello,
pertanto, è infondato e, come tale da respingere.
Le spese di
giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei
Conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, definitivamente
pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette
RIGETTA:
il gravame
proposto avverso la sentenza in epigrafe.
Condanna
l'appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che si
liquidano in €. 82,90 (OTTANTADUE/90) Così deciso in Roma nella Camera di
Consiglio del 14 dicembre 2004.
L'Estensore |
Il Presidente |
F.to Piera MAGGI |
F.to Tullio SIMONETTI |
Depositata
in Segreteria il 9/3/2005
Il
Dirigente della Segreteria
F.to Maria FIORAMONTI