R  E  P  U  B  B  L  I  C  A     I  T  A  L  I  A  N  A

N.2718/2005

Reg. Dec.

N. 6817 Reg. Ric.

Anno 2004

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

     sul ricorso in appello n. 6817 del 2004, proposto dai signori Marco, Michele, Anna, Rosaria, Teresa e Liliana Campanile, rappresentati e difesi dall’avv. Costantino Ventura, con il quale sono elettivamente domiciliati in Roma Via L. Mantegazza n. 24 presso il signor Luigi Gardin.

CONTRO

     Comune di Bari, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv. ti Rossana Lanza e Alessandra Baldi, con i quali è elettivamente domiciliato in Roma Via Flaminia n. 79 presso lo studio dell’avv. Roberto Ciociola.

PER L’ANNULLAMENTO

     della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Bari (Sezione), 16 marzo 2004, n. 1630.

     Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

     Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione appellata;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Visto il Dispositivo di Sentenza n. 130/05;

     Relatore alla pubblica udienza del 1 marzo 2005 il Consigliere Costantino Salvatore;

     Uditi l'Avv. Ventura per gli appellanti e l'Avv. Ciociola, su delega dell’avv. Lanza, per il Comune appellato;

     Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

F A T T O

      I germani Marco, Michele, Anna, Rosaria, Teresa e Liliana Campanile, con ricorso al TAR Puglia, sede di Bari, esponevano di essere proprietari di un pregevolissimo immobile sito in pieno centro urbano di Bari, tra via Omodeo, via G. Dorso, via Salvemini e strada di nuova viabilità, identificato in catasto al foglio 40 particelle 172 e77, di circa mq. 6.000, intercluso da ogni lato da zone di "completamento B3” e tipizzato dalla variante al P.R.G. approvata,  con D.P.G.R. n. 1745 dell'8 luglio 1976 per la maggior parte a "area a verde pubblico - verde dì quartiere" e in minima misura a viabilità di P.R.G., della quale il Comune aveva disposto l’occupazione temporanea e d’urgenza per la realizzazione del progetto ristrutturazione dell’area in questione al fine di adibirla a Piazzale Alberato.

      Ciò premesso, impugnavano i seguenti provvedimenti: decreto del dirigente la ripartizione lavori pubblici del comune di Bari n. 54 del 7 ottobre 2002, notificato col relativo avviso pure impugnato, in data 11 dicembre 2002, con il quale si disponeva per il giorno 5 novembre 2002 l’occupazione temporanea e d’urgenza del suolo predetto; la deliberazione della G.M. n. 348 del 27 marzo 2002, contenente l’adozione del progetto preliminare; la determinazione dirigenziale n. 2002/160/597 del 21 giugno 2002, di approvazione del progetto definitivo; la determinazione dirigenziale n. 200/160/907 dell'11 settembre 2002, con la quale è stato approvato il progetto esecutivo; la deliberazione della G.M. n.1047 del 27 settembre 2001, con la quale il progetto sarebbe stato inserito nello schema del programma delle opere pubbliche 2002/2004, con mutuo a contrarsi con la Cassa DD. PP., nellanno 2002, per . 774.685, 34 (= £ 1.500.000.000); la delibera di C.C. n. 50 del 10 aprile 2002, di integrazione e modificazione del piano annuale e triennale 00. PP. 2002-2004; la delibera di C.C. n. 51 del 11 aprile 2002, avente ad oggetto: "Esame ed approvazione del bilancio annuale di previsione per l'esercizio finanziario 2002, con allegati la relazione previsionale programmatica per il triennio 2002/2004 ed il bilancio pluriennale 2002/2004"; nonché ogni altro atto presupposto, conseguente o connesso e chiedevano, inoltre, il risarcimento dei danni derivati per effetto dell'esecuzione di tali provvedimenti illegittimi.

      Il ricorso era affidato alle seguenti censure:

      1). Violazione dell’art. 1 della legge 3 gennaio 1978, n. 1, come modificata dall’art. 4 legge 18 novembre 1998, n. 415, dell’art. 14, comma 8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109. Errore di presupposto circa la conformità urbanistica dell’opera.

      L’intervento è stato previsto su area sottoposta a vincolo rigorosamente espropriativo, atteso che la predetta disposizione qualifica l’area come di "proprietà pubblica”, ormai decaduto ai sensi dell'art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187 per decorso del quinquennio, senza che fosse stata attivata l’indispensabile procedura di variante.

      2). Violazione dell'art.. 32, comma 2, lett. b) della legge 8 giugno 1990, n. 142, come modificato dall’art. 15 legge 18 novembre 1998, n. 415 nel testo sostituito dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101 convertito con legge 2 giugno 1995, n. 216. Violazione dell’art. 16 legge regionale 11 maggio 2001, n. 13 e dell’art. 1 della legge 3 gennaio 1978, n. 1, come modificata dall’art. 4 legge 18 novembre 1998, n. 415. Incompetenza della G.M. ad approvare il progetto definitivo.

      Poiché l’intervento non è conforme allo strumento urbanistico, la competenza sarebbe del C.C. per i progetti preliminari e della G.M. per i progetti definitivi ed esecutivi.

      3). Violazione dell'art.. 32, comma 2, lett. b) della legge 8 giugno 1990, n. 142. Incompetenza.

      Lo schema di programma triennale delle OO.PP. è stato approvato dalla G. M. mentre detta approvazione rientra nella competenza del Consiglio comunale.

      4). Violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109. Eccesso di potere per falsità del presupposto.

      Il progetto relativo alle opere per cui è causa non risulta inserito né nello schema del programma delle opere pubbliche né nelle successive delibere di approvazione di tale programma ed è carente dello studio di fattibilità.

      5).  Violazione e falsa applicazione dell’art. 14, commi 9 e 11 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e del D.M. 21 giugno 2001.

      Le delibere impugnate non contengono la chiara distinzione tra il programma triennale delle OO.PP, di cui al comma 1 del citato art. 14, e l’elenco dei lavori da realizzare nell’anno (previsto dal comma 9 dello stesso articolo.

      6). Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 legge 25 giugno 1865, n. 2359. Inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità per mancanza e/o assoluta incertezza dei termini di inizio e ultimazione dei lavori e delle espropriazioni.

      La determinazione dirigenziale n. 597 del 21 giugno 2002 ha fissato solo tre dei quattro termini previsti dalla disposizione citata, lasciando incerto il termine iniziale delle espropriazioni. Inoltre, il decreto di occupazione è in contrasto con il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, perché faceva decorrere i predetti termini dalla data di effettivo inizio dei lavori e, non, come stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità, dalla data di esecutività della determinazione dirigenziale prima citata.

      7). Violazione dei principi fondamentali in materia di impegno di spese da parte dei comuni, di cui all’art. 151, comma 4 del D. Lgs 18 agosto 2000, n. 267 e all’art. 14, comma 9 della legge 11 febbraio 1994, n. 109.

      I provvedimenti impugnati, al fine di assicurare la copertura finanziaria delle opere, fanno riferimento ad un mutuo non ancora contratto, e in tal modo violano il principio della necessaria previsione della copertura finanziaria.

      Il Comune di Bari resisteva al ricorso che era respinto con la sentenza in epigrafe specificata, contro la quale gli originari ricorrenti hanno proposto il presente appello, chiedendone l’integrale riforma.

      Il Comune di Bari si è costituito anche in questo grado del giudizio.

      Le parti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con apposite memorie.

      L’appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 1 marzo 2005.

D I R I T T O

      1. Con il primo motivo di appello, riproduttivo del primo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano l’illegittimità dei provvedimenti impugnati sul rilievo che le opere approvate con gli atti medesimi non sono conformi alle previsioni del P.R.G..

      Essendo scaduto, per decorso del termine di cinque anni di cui all'art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, il vincolo di natura espropriativi previsto sull'area, l'Amministrazione avrebbe dovuto procedere con la procedura di variante di cui all’art. 1, comma 5 della legge 3 gennaio 1978, n. 1 come modificato dall’art. 4 legge 18 novembre 1998, n. 415.

      Ad avviso degli appellanti, infatti, il vincolo di “area a verde pubblico – verde urbano”, gravante sull’area in questione e la cui disciplina è contenuta nell’art. 31 delle N.T.A. del P.R.G., costituisce, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, un vincolo preordinato all’espropriazione e non un vincolo meramente conformativo a tempo indeterminato e, come tale, non soggetto a decadenza ai sensi dell’art. 2 legge 19 novembre 1968, n. 1187.

      1.1. Il Collegio osserva che la natura e la portata della destinazione di zona a “verde pubblico – verde urbano”, impressa all’area di proprietà degli appellanti dalla variante generale al P.R.G. del Comune di Bari approvata con D.P.G.R. n. 1475 del 8 luglio 1976, hanno formato oggetto di esame da parte della Sezione con recente decisione (Sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5490), dalle cui conclusioni non vi è motivo per discostarsi.

      In tale occasione, la Sezione ha rilevato che, alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la sentenza 20 maggio 1999, n. 179 - dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n.2, 3 e 4 e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187, nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo - i vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost..

     La Sezione ha, poi, precisato che di tali principi ha fatto coerente applicazione l’orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo il quale costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio.

     Sulla base di tali generali premesse, la decisione ha ritenuto che, nel caso di specie, la destinazione di “area a verde pubblico – verde urbano” costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente validità a tempo indeterminato, come correttamente affermato dal primo giudice.

     Difatti, l’art. 31 delle N.T.A., che destina le “aree a verde pubblico” al tempo libero e quindi all’utilizzo da parte della collettività (in tal senso dovendosi correttamente intendersi l’espressione “sono di proprietà pubblica” che, altrimenti, nel contesto in cui è inserita, non potrebbe giuridicamente avere portata attributiva di proprietà alcuna), prevede, peraltro, che su tali aree possano essere ubicate attrezzature per lo svago, chioschi, bar, teatri all’aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo, e simili, nonché biblioteche e giochi per bambini, e consente, altresì, la costruzione di edifici ed impianti previa approvazione di piano particolareggiato o di progetto planovolumetrico.

     Da qui la conclusione che, essendo consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde, va escluso, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale e non è, quindi, ravvisabile alcun vincolo preordinato all’espropriazione né comportante inedificabilità assoluta né è configurabile un obbligo di nuova tipizzazione.

      1.2. La difesa degli appellanti, con la memoria del 15 febbraio 2005, sostiene che, a fronte dell’orientamento espresso con la decisone di questa Sezione n. 5490 del 10 agosto 2004, vi sarebbe un nutrito numero di decisione sia di questa Sezione (24 febbraio 2004, n. 745; 17 dicembre 2003, n. 8290; 29 agosto 2002, n. 4340; 2 dicembre 1999, n. 1769) sia della Sezione Quinta (3 gennaio 2001, n. 3; 6 ottobre 2000, n. 5326 e 5327), secondo cui quello a “verde pubblico” sarebbe un vero e proprio vincolo localizzativi, espropriativi e di inedificabilità, soggetto come tale a decadenza.

      In tale quadro, e indipendentemente dal ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo già proposto dalle parti private contro la decisione n. 5490 del 2004, avanti citata, si imporrebbe la rimessione della questione all’Adunanza Plenaria delle Sezioni giurisdizionali di questo Consiglio di Stato, attesi gli aspetti particolarmente delicati e complessi che la questione presenta.

      Ad ulteriore sostegno della propria tesi, la difesa degli appellanti aggiunge che all’indirizzo che attribuisce al vincolo in parola il carattere “ablatorio-espropriativo” soggetto a decadenza, ha aderito anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 148 del 9 maggio 2003, resa proprio con riferimento all’art. 31 delle N.T.A. del P.R.G. del comune di Bari.

      1.3. Il Collegio ritiene che l’assunto degli appellanti non possa essere condiviso.

      Quanto all’orientamento di questo Consiglio di Stato che, ad avviso degli appellanti, si sarebbe pronunciato a favore della tesi “Ablatoria-espropriativa” della destinazione a “verde pubblico-verde urbano”, si osserva quanto segue.

      1.3.1. Tutte le decisioni invocate sono concordi nell’affermare che le destinazioni di zona contenute nei piani regolatori non sono soggette a decadenza, in quanto attinenti alla conformazione del diritto di proprietà e quindi estranei alla logica ablatoria e che a tale principio fanno eccezione i soli vincoli a carattere espropriativo, cioè i vincoli preordinati all’espropriazione dell’area per la realizzazione di un’opera pubblica o di interesse pubblico.

      Tutte sono, poi, concordi nel precisare che hanno natura espropriativa le sole previsioni vincolistiche che precludono in assoluto l’edificabilità dell’area o che impediscono comunque l’edificazione a iniziativa del privato (IV, 29 agosto 2002 n. 4340; V, 3 gennaio 2001 n. 3; IV, 2 dicembre 1999 n. 1769).

      Passando ad esaminare le singole fattispecie, risulta:

      a). a proposito del caso di cui alla decisione n. 8290 del 2003, che, nel piano regolatore e nelle norme tecniche di attuazione l’area risulta destinata a “servizi di interesse pubblico” con sottodestinazioni a “scuole superiori”, “edilizia assistenziale” e “altre opere di interesse pubblico”, e si è ritenuto che tale previsione urbanistica consente, anche su iniziativa del privato, la realizzazione di scuole, edilizia assistenziale, altre opere di interesse pubblico, con la conseguenza che non si verte in ipotesi di vincolo preordinato all’espropriazione bensì di esercizio della potestà conformativa normalmente inerente alla pianificazione urbanistica (conf. V, 18 dicembre 2002 n. 7037).

      b). il caso deciso da Sez. V, 3 gennaio 2001, n. 3, riguarda il diniego di concessione edilizia in ordine ad un progetto, attinente alla esecuzione di opere di ristrutturazione e di conseguente modifica di destinazione di un immobile - ex Cinema Politeama - che, in luogo dell'originario manufatto ad un  piano (ampia sala per il cinema), veniva trasformato in immobile di quattro piani (destinati ad uffici, negozi e appartamenti).  Il diniego di concessione è stato motivato con il rilievo che l’immobile era censito alla Tavola n.2 del P.R.G. attinente alle <Indagini per il P.R.G. Spazi ed attrezzature pubbliche>" e che “l'inserimento di detta tavola configura un vero e proprio vincolo di destinazione gravante sull'immobile, sicchè la utilizzazione prospettata nel progetto di ristrutturazione contrasta con quella programmata dal P.R.G..

      La decisione, confermando sul punto la statuizione del TAR, ha escluso che nel caso in esame si trattasse di vincolo soggetto a decadenza ex art. 2 della legge 19 novembre 1968, n.1187, osservando che tale ultima norma riguarda i vincoli preordinati alla espropriazione o che comportino la inedificabilità  e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio, mentre nella specie si tratta, invece, di vincolo, che non incide nei modi anzidetti sulla proprietà del privato o sulla edificabilità, ma indirizza esclusivamente la utilizzazione edificatoria.

    c). le decisioni 6 ottobre 2000, nn. 5326 e 5327 (Sez. V), con riferimento al motivo di ricorso con il quale si deduceva l’illegittimità del diniego di concessione, perché emesso sul presupposto dell'esistenza di un vincolo viceversa decaduto, essendo inutilmente trascorso il termine quinquennale (decorrente dal 6 marzo 1979, data di approvazione della variante generale al P.R.G.) di cui all'art. 2 della legge 19 novembre 1968 n. 1187, hanno affermato che l’attribuzione alle aree libere in zona B2 della destinazione urbanistica a “verde attrezzato e servizi pubblici” da realizzare sulla base anche di strumento urbanistico attuativo, e l’art. 5 delle N.T.A. non integrano vincoli soggetti a decadenza.

     La previsione di una determinata tipologia urbanistica, difatti, non è un vincolo preordinato all'espropriazione né comportante l'inedificabilità assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'art. 11 L. 17 agosto 1942 n. 1150.

    Contrariamente a quanto sostenuto nella memoria del 15 febbraio 2005, la precisazione che in tali casi sia richiesta la previa adozione di uno “strumento urbanistico attuativo”, nella cui ampia dizione sono comprese forme di pianificazione urbanistica di secondo livello ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato le quali, in quanto attuabili dal privato e senza la necessità di previa ablazione del bene, sottraggono la previsione di cui si discute dallo schema ablatorio-espropriativo presupposto dalla norma di garanzia di cui alla legge n. 1187 del 1968, non contraddice, come si vedrà, con l’orientamento espresso nella decisione (Sez. IV) 10 agosto 2004, n. 5490.

     d). la decisione n. 1769 del 2 dicembre 1999 (Sez. IV) ha escluso che una determinata tipologia urbanistica possa integrare un vincolo preordinato all’espropriazione o comportante l’inedificabilità assoluta, trattandosi invece di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, inerendo alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall’art. 11 della legge 17 agosto 1942, n. 1150.

     e). la decisione 29 agosto 2002, n. 4340, riguarda il caso di un’area sottoposta a vincolo di inedificabilità a partire dal 1951 per la realizzazione di un progetto di circonvallazione, mai realizzato, e, poi, dal 1980 a "servizi e attrezzature sociali destinate a verde pubblico", anche questa mai attuata. In tale contesto in cui il vincolo gravava da oltre 50 anni, è stato riconosciuto il diritto all’indennizzo, atteso che non risulta che la destinazione a verde pubblico dell’area consentiva pure interventi ad iniziativa privata.

 f). la decisione 24 febbraio 2004, n. 745 (Sez. IV) riguarda la previsione a “verde pubblico di quartiere” prevista dal P.R.G. del Comune di Chieti, ed è quella richiamata dagli appellanti a conforto della propria tesi.

     La decisione è pervenuta alla conclusione che la destinazione predetta integra un caso di vincolo preordinato all’esproprio e, quindi, soggetto a decadenza per inutile decorso del termine quinquennale, perché l’art. 8.6. delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G., all’ultimo capoverso, precisa che “l’efficacia dei vincoli stabiliti dal piano regolatore generale a specifiche aree del territorio comunale in ordine a funzioni pubbliche e di uso pubblico è regolata dall’art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, ovvero decade qualora, entro cinque anni dall’approvazione del piano regolatore generale, non siano approvati i relativi piani particolareggiati”.

     Ad avviso della decisione in commento, non può per contro invocarsi la previsione, contenuta nelle stesse Norme Tecniche di Attuazione, secondo cui gli interventi relativi alle categorie IV, VI, VII, VIII e IX devono essere sottoposti alla pianificazione di dettaglio (piani particolareggiati o di lottizzazione), atteso che le puntuali destinazioni (area per il verde attrezzato urbano, quanto alla categoria IV; area per attrezzature metropolitane, quanto alla categoria VI; area per autostazioni e rimesse per trasporti pubblici, quanto alla categoria VII; area per aree annonarie, quanto alla categoria VIII; area per cimiteri, quanto alla categoria IX) escludevano in radice che in dette zone potessero realizzarsi interventi di edilizia privata, sia pur con piani di dettaglio. due ordini di considerazioni, entrambe desunte dalle relative N.T.A. del Piano regolatore.

      1.3.2. Come emerge dall’esame dei casi avanti richiamati, l’orientamento di questo Consiglio di Stato in merito alla natura del vincolo di “verde pubblico-verde urbano” o “verde attrezzato” non registra alcun contrasto ed è pacificamente concorde nel classificarlo tra i vincoli conformativi, come tali non soggetti a decadenza.

      A questa conclusione si perviene non in termini di pura astrattezza me avuto riguardo alla concreta disciplina che di tale destinazione danno le N.T.A. dei vari strumenti urbanistici considerati, nel senso che, ove sia consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde, è da escludere, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale.

      In questo senso si può richiamare anche la decisione (Sez, V) 22 dicembre 2002 n. 7037, secondo cui la destinazione di un’area a servizi, nell’ambito della quale, secondo le previsioni delle Norme tecniche di attuazione, si possono realizzare non solo edifici pubblici o di interesse pubblico, ma, altresì, centri sociali, impianti sportivi, alloggi collettivi ed altro, alla cui realizzazione può provvedersi anche a mezzo di iniziativa privata, non ne determina quella totale sottrazione alla naturale vocazione edificatoria da parte del soggetto proprietario che caratterizza il vincolo presidiato dalla previsione di decadenza di cui all’art. 2 della legge n. 1187 del 1968.

      Solo nel caso in cui la disciplina urbanistica esclude in modo assoluto che nella zone destinate a “verde pubblico” siano possibili, anche parzialmente, iniziative da parte del privato proprietario dell’area, detto vincolo potrà essere qualificato come preordinato all’espropriazione o comunque tale da sottrarre sostanzialmente l’area medesima alla naturale vocazione edificatoria e, come tale, soggetto a decadenza ex art. 2 legge n. 1187 del 1968: è il caso appunto esaminato dalla decisione n. 745 del 2004.

    1.3.3. Quanto alla giurisprudenza della Cassazione, pure invocata dagli appellanti nella memoria più volte citata, è sufficiente osservare che, a parte ogni questione sulla rilevanza di tali decisioni ai fini della presente controversia, l’orientamento più recente tra le decisioni menzionate, la destinazione a verde pubblico urbano e comprensoriale di un’area di proprietà privata disposta in sede di variante al P.R.G. rientra tra i vincoli a contenuto conformativo della proprietà privata, aventi la funzione di definire per zone, in via astratta e generale, le possibilità edificatorie connesse al diritto dominicale.

    Resta da esaminare la sentenza della Corte costituzionale 9 maggio 2003 n. 148 resa proprio a proposito del Comune di Bari.

    L'art. 37, quinto comma, della legge della Regione Puglia 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio) e l'art. 17, comma 2, della legge 27 luglio 2001, n. 20 (Norme generali di governo e uso del territorio) della medesima Regione prevedono che, dopo la scadenza dei termini previsti per l'attuazione dei piani attuativi, permane, per la parte non attuata, l' obbligo di osservare le previsioni dello strumento esecutivo mentre, ai fini espropriativi, decadono gli effetti della pubblica utilità delle opere previste    

    La Corte costituzionale, con la sentenza avanti citata, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 37, quinto comma, della legge della Regione Puglia 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio) e dell'art. 17, comma 2, della legge della Regione Puglia 27 luglio 2001, n. 20 (Norme generali di governo e uso del territorio), nella parte in cui si riferiscono a vincoli scaduti, preordinati all'espropriazione o sostanzialmente espropriativi, senza previsione di durata e di indennizzo.

    La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale civile di Bari ed era connessa alla scadenza di un P.E.E.P. per decorso del termine di validità di diciotto anni, senza che mai fossero stati realizzati gli edifici destinati ad insediamenti abitativi né le opere pubbliche come le strade, il verde o i giardini, e altre opera pubbliche che interessavano le zone per cui era sorta la causa civile. giudice istruttore

    Come emerge dall’ordinanza di rimessione, depositata dagli appellanti, il suolo dei privati era assoggettato a “vincoli di viabilità, verde pubblico, verde condominiale comprendete gli accessi pedonale, scuole superiori, media unificata” ed è in relazione a tale tipo di destinazione, che le norme regionali censurate, mantenevano in vigore, nonostante la intervenuta decadenza del piano di zona, che la Corte ha pronunciato la richiamata illegittimità costituzionale.

    E’ vero, come sostiene la difesa degli appellanti, che l’ordinanza non condivide l’orientamento di questo Consiglio di Stato in merito alla natura conformativa del vincolo a “verde pubblico-verde attrezzato”, ma si tratta di mera tesi interpretativa, atteso che, come la stessa ordinanza si premura subito dopo di precisare, la questione del “verde pubblico-verde attrezzato” non veniva in esame nel caso concreto, “in quanto quello impresso al suolo di proprietà dei ricorrenti è un vero e proprio vincolo urbanistico “localizzativi” su un bene determinato, rientrante nello schema ablatorio – espropriativo.

    Consegue da tali precisazioni che la questione di costituzionalità esaminata dalla Corte costituzionale non appare rilevante per la definizione della presente controversia, posto che sul suolo di proprietà dei privati coinvolti il vincolo non era solo a “verde pubblico – verde urbano” ma si estendeva anche ad altre ipotesi di vincolo; essa, quindi, riguarda fattispecie diversa da quella della mera destinazione urbanistica.

    Sotto altra e concorrente considerazione, si può rilevare che la pronuncia di incostituzionalità delle norme regionali produce i suoi effetti solo nei riguardi dei vincoli a verde imposti con lo strumento urbanistico del P.E.E.P., e non anche rispetto al destinazione a verde prevista direttamente dal P.R.G., la cui utilizzazione sia consentita, come nella specie, anche ai privati alle condizioni specificate nei numeri precedenti.

    1.3.4. In conclusione, il primo motivo d’appello è infondato, perché il vincolo, anzi la previsione, poiché a tempo indeterminato ai sensi dell’articolo 11 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, era valida ed efficace al momento dell’adozione dei provvedimenti, relativi all’adozione del progetto preliminare, all’approvazione dei progetti definitivo ed esecutivo, contenenti la dichiarazione di pubblica utilità. Conseguentemente, anche il decreto di occupazione di urgenza è sorretto da valida ed efficace dichiarazione di indifferibilità e urgenza dei lavori.

      Il primo motivo d’appello deve, pertanto, essere respinto.

      2. Le considerazioni che precedono consentono di disattender anche il secondo motivo di impugnazione, che ripropone il secondo motivo del ricorso originario nella parte in cui presuppone la non conformità urbanistica del progetto.

      Avendo chiarito che l’intervento non si pone in contrasto con la destinazione urbanistica dell’area, anche questa seconda censura va respinta.

      3. Il terzo motivo attiene all’asserita competenza del Consiglio comunale relativamente all’intera funzione di approvazione del  programma triennale delle OO.PP., con la conseguenza che la deliberazione della Giunta comunale n. 1047 del 2001, che ha approvato lo schema, sarebbe viziata da incompetenza.

      Il motivo è stato respinto dal primo giudice sul rilievo che, nella specie, il programma è stato regolarmente approvato dal Consiglio Comunale con la delibera n. 50 del 10 aprile 2002, mentre la Giunta si è limitata, con la deliberazione n. 1047 del 27 settembre 2001, semplicemente a predisporne lo schema, come peraltro espressamente previsto dall'art. 2 D.M. LL. PP. 21 giugno 2001).

      Il motivo viene riproposto in questa sede, assumendosi che proprio l’art. 2 del D.M. citato, stabilendo che lo schema di programma ovvero il suo aggiornamento “sono adottati dall’organo competente secondo i rispettivi ordinamenti”, confermerebbe la fondatezza della censura.

      Il motivo è infondato.

    L' atto di approvazione dello schema triennale di opere pubbliche comunali e del suo aggiornamento annuale rientra nelle competenze della Giunta, ai sensi dell' art. 48 T.U. 18 agosto 2000 n. 267, mentre l' approvazione definitiva del programma e dell' elenco annuale delle opere da realizzare spetta al Consiglio, a norma dell' art. 42 stesso T.U. n. 267, trattandosi di un atto di programmazione e di indirizzo (cfr., CdS, Sez. IV n. 6917 del 14 dicembre 2002). 

      4. Il quarto motivo di ricorso attiene alla pretesa violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, in quanto il progetto relativo alle opere per cui è causa non risulta inserito né nello schema del programma delle opere pubbliche né nelle successive delibere di approvazione di tale programma ed è carente dello studio di fattibilità.

      La censura è stata ritenuta infondata in punto di fatto, posto che dalla documentazione esibita dal Comune risultano sia l’espressa previsione dell’intervento de quo sia l’esistenza dello studio di fattibilità previsto dall’art. 14, comma 2 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, il quale è stato inserito nella delibera n. 348 del 2002 della quale costituisce parte integrante.

      Gli appellanti contestano le conclusioni del giudice di primo grado, osservando che l’intervento previsto nel programma triennale non è il Piazzale alberato, ma il Mercato settimanale di Via Omodeo e che lo “studio di prefattibilità ambientale” è elencato nella delibera di Giunta n. 348 del 2002 (pag. 2), ma viene ritenuto “non necessario”.

      Il Collegio osserva che entrambi i rilievi sono infondati.

      Quanto al primo, è facile obiettare che con la dizione “Mercato settimanale di Via Omodeo” si è inteso solo fare riferimento alla circostanza che il Piazzale sarà utilizzato anche come mercato, essendo evidente che tale utilizzazione non comporta nessun intervento che possa integrare un’opera pubblica e, dunque, il preliminare progetto.

      Quanto allo studio di prefattibilità ambientale, in disparte la considerazione sulla sua ammissibilità, trattandosi di motivo non dedotto in primo grado, è appena il caso di rilevare che, ai sensi dell’art. 14, comma 2, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, l’analisi dello stato di fatto “nelle sue componenti    paesaggistiche” è solo eventuale.

      Si spiega e si giustifica, quindi, la precisazione contenuta nella delibera citata che lo studio di prefattibilità ambientale non è necessario per il tipo di intervento da realizzare, né gli appellanti hanno obiettato alcunché su questo specifico aspetto.

      5. Con il quinto motivo i ricorrenti avevano lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 14, commi 9 e 11 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e del D.M. 21 giugno 2001, in quanto nelle delibere impugnate manca una chiara distinzione tra il programma triennale delle OO.PP, di cui al comma 1 del citato art. 14, e l’elenco dei lavori da realizzare nell’anno, che, ai sensi del comma 9 deve essere approvato unitamente al bilancio preventivo di cui costituisce parte integrante. Inoltre, ai sensi del comma 11 dello stesso articolo,  il programma triennale e l’elenco annuale devono essere approvati sulla base di schemi – tipo definiti con decreto del Ministero dei lavori pubblici, decreto emanato in data 21 giugno 2001.

      Il TAR ha respinto il profilo di censura relativo alla mancata approvazione, unitamente al bilancio di previsione, dell'elenco annuale delle opere pubbliche sul rilievo che la delibera n. 51 del 2002, di approvazione del bilancio, richiama integralmente la precedente delibera n. 50, con la quale era stato approvato non soltanto il programma triennaIe, ma anche l'elenco annuale delle opere pubbliche.

      Gli appellanti, dopo avere criticato la scarsa motivazione posta a base del rigetto della censura, insistono sul fatto che sarebbe stato approvato solo il programma triennale e non anche l’elenco annuale. Essi lamentano, inoltre, l’omesso esame dell’altro profilo di doglianza relativo allo schema – tipo definito dal Ministero dei lavori pubblici.

      Risulta dalla documentazione esibita dal Comune che con la delibera C.C. n. 50/2002 è stato approvato il programma triennale delle OO.PP. per il periodo 2002/2004 e, contestualmente, l'elenco annuale delle OO.PP. per l'anno 2002, che viene qualificato piano annuale. La diversità lessicale non può certo condurre alle conclusioni sostenute dagli appellanti. Quanto al bilancio di previsione per l'anno 2002, esso risulta approvato con la delibera C.C. n. 51/2002, che richiama quale parte integrante la propria deliberazione n.50/2002, contenente l'elenco annuale  - ovvero, come si esprime la deliberazione – il programma triennale delle OO.PP. e quello per l'anno 2002.

      In tale quadro, come giustamente rileva la difesa dell’amministrazione, è stato soddisfatto sostanzialmente il dettato di cui l'art. 14, IX comma della legge n. 109 del 1994, la cui ratio evidentemente è la copertura finanziaria delle opere pubbliche che la P.A. ha deciso di eseguire in quell’anno.

      Quanto al profilo relativo allo schema -. Tipo, esso è infondato in punto di fatto, atteso che con delibera della Giunta municipale n. 1047 del 27 settembre 2001, si dà espressamente atto nelle premesse dell’esistenza del D.M. 21 giugno 2001, al quale fare riferimento per la redazione del Programma annuale e Triennale delle Opere Pubbliche.

      6. Con il sesto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 legge 25 giugno 1865, n. 2359, nonché l’inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità per mancanza e/o assoluta incertezza dei termini di inizio e ultimazione dei lavori e delle espropriazioni.

      Ad avviso degli appellanti, la determinazione dirigenziale n. 597 del 21 giugno 2002 ha fissato solo tre dei quattro termini previsti dalla disposizione citata, lasciando incerto il termine iniziale delle espropriazioni. Inoltre, il successivo decreto di occupazione n. 54 del 2002 sarebbe in contrasto con il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, perché fa decorrere i predetti termini dalla data di effettivo inizio dei lavori e, non, come stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità, dalla data di esecutività della determinazione dirigenziale prima citata.

      Il motivo è stato respinto dal TAR, il quale, quanto al primo profilo, ha osservato che, anche a non voler condividere l'opinione dell' Amministrazione resistente che afferma la piena chiarezza ed esaustività di siffatta previsione, l'incertezza riguarderebbe unicamente il termine iniziale delle espropriazioni, con l'effetto di non determinare in alcun modo l'illegittimità del provvedimento, atteso che, secondo orientamento giurisprudenziale pacifico, il termine inziale ha natura sollecitatoria e la sua mancanza od incertezza non determina l'illegittimità dell'intera dichiarazione di pubblica utilità.

      Quanto all’asserito contrasto tra la citata determinazione dirigenziale dichiarativa della pubblica utilità ed il successivo decreto di occupazione in merito all'individuazione del dies a quo dei predetti termini, il primo giudice ha precisato che, essendo il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità il primo ed unico in cui possono (devono) essere validamente apposti i termini ex art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, l'eventuale previsione contrastante contenuta nei provvedimenti successivi deve considerarsi come non apposta.

      I ricorrenti, preso atto di tale precisazione, ripropongono la censura esclusivamente con riferimento alla mancata fissazione del termine iniziale delle espropriazioni.

      Il motivo, pur così limitato, è infondato.

      In disparte ogni questione sulla natura sollecitatoria o meno del termine iniziale per le espropriazione e sui riflessi che la sua eventuale mancanza produce sull’intera procedura espropriativi, reputa la Sezione che, nel caso in esame, il termine in parola deve ritenersi fissato entro lo stesso termine di 24 mesi dalla data di esecutività del provvedimento dichiarativo della pubblica utlità fissato per l’inizio dei lavori.

      Confortano questa conclusione sia la lettura del provvedimento dirigenziale n. 597 che, al n. 2h), nel dare atto che l’approvazione del progetto definitivo equivale a dichiarazione di pubblica utilità dell’opera nonché di indifferibilità ed urgenza dei relativi lavori, precisa che, conseguentemente, vanno fissati i termini iniziali e finali delle espropriazioni e dei lavori, sia il successivo decreto di occupazione, che, nel richiamare il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, espressamente afferma che i termini iniziali e finali sono stati stabiliti in 24 per l’inizio sia dei lavori che delle espropriazioni.

      Posto che entrambi i provvedimenti sono stati adottati dallo stesso Dirigente, appare logico ritenere che quello di occupazione d’urgenza abbia inteso esplicitare e chiarire ogni eventuale dubbio che in proposito poteva ingenerare la dizione utilizzata nella dichiarazione di pubblica utilità.

      7. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine al settimo ed ultimo motivo d'impugnazione.

      Con esso i ricorrenti lamentavano la violazione degli artt. 151, comma 4 D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e 14, comma 9 legge 11 febbraio 1994, n. 109, atteso che nelle delibere impugnate si fa riferimento ad un mutuo non ancora contratto, e pertanto le opere in oggetto sarebbero prive della necessaria copertura finanziaria.

      Il motivo è stato respinto dal TAR, il quale, dopo avere posto in rilievo la diversità di ratio tra la previsione del citato art. 151 (che subordina l’esecutività dei provvedimenti comportanti impegni di spesa al “visto” di regolarità contabile) e quella dell’art. 14 legge n. 104/1994, che attiene alla fase anteriore alla formazione del bilancio di previsione, prevedendo la necessità di una preventiva autorizzazione all’inserimento nello stesso delle opere pubbliche approvate, ha ritenuto che, a seguire la tesi dei ricorrenti, il comune avrebbe dovuto ottenere il mutuo ancor prima dell’approvazione da parte del Consiglio dell’elenco annuale e delle opere ivi inserite, mentre in realtà, prima va approvato il bilancio con l’elenco delle opere e poi si può procedere alla contrazione del mutuo.

      Gli appellanti criticano le conclusioni del primo giudice, osservando che, pur convenendosi con la diversità di ratio delle due norme invocate, la sentenza non spiega le ragioni giuridiche poste a base del rigetto del motivo.

      7.1. Il Collegio osserva che è inammissibile ed infondato nel merito.

      Sotto il primo aspetto, si deve ricordare che, secondo l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, il privato espropriato non è legittimato a far valere in sede giurisdizionale la pretesa invalidità della delibera comunale con la quale è stato approvato il progetto di un' opera pubblica, per inosservanza dell' art. 284 T.U. 3 marzo 1934 n. 383, in quanto tale norma non è diretta a tutelare altro interesse se non quello - del tutto estraneo al rapporto intersubiettivo tra privato e Pubblica amministrazione - al corretto andamento finanziario dell' Amministrazione locale (Sez. IV, 29 maggio 1995, n. 400; CSI, 28 gennaio 1998, n.35).

    Sotto il profilo più squisitamente di merito, va rilevato che, nella vigenza del T.U. 3 marzo 1934, n. 383, la giurisprudenza amministrativa era pacifica nel ritenere legittima la copertura di una spesa necessaria a realizzare un' opera pubblica mediante un mutuo di futura contrazione, atteso che, in base agli artt. 284 e 299 T.U. 3 marzo 1934 n. 383, le deliberazioni comunali implicanti spese finanziate con mutuo devono essere adottate prima e non dopo la contrazione del mutuo stesso.

      Nel caso in esame, tale condizione è stata rispettata, in quanto il mutuo con il quale si è deciso di finanziare parte della spesa è stato regolarmente concesso con deliberazione del Consiglio di amministrazione della Cassa DD.PP. 12 settembre 2002 (documento n. 10 della documentazione presentata presso il TAR in data 18 febbraio 2004): l’opera, quindi, è risultata finanziata ancor prima dell’inizio dei lavori e delle procedure espropriative, posto che il decreto di occupazione d’urgenza n. 50/2002 reca la data del 7 ottobre 2002 e la immissione in possesso con redazione del relativo stato di consistenza è avvenuta in data 5 novembre 2002.

      E’ poi appena il caso di aggiungere che la tesi degli appellanti appare in contrasto proprio con la disposizione invocata (art. 151, comma 4 D. Lgs 18 agosto 2000, n. 267), il cui contenuto è frutto di una riscrittura dell’ordinamento contabile degli enti locali, intervenuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 55 della legge 8 giugno 1990, n. 142.

      Come chiarito dalla Corte di Cassazione (SS.UU.CC. 26 luglio 2002, n. 11098), l'art. 55 della legge 8 giugno 1990 n.142, comma 5 – che, com’è noto, prevedeva “la nullità di diritto” dell’atto di impegno di spesa, non contenente l’attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario, è stato sostituito, in forza dell'art. 6, comma 11, della legge 15 maggio 1997, n. 127, recante "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo", con il seguente testo: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l'approvazione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria".

      Ad avviso della Corte, a seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di competenze tra organi politico - amministrativi e responsabili dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista dell'attestazione formale, un posterius. La norma dell'art. 55, comma 5, della legge 8 giugno 1990, n. 142, è stata, cioè, modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un significato accertativo della necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.

      In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria non precede più l'impegno, nè, soprattutto, è più requisito di validità, ma accede, completandolo, alla relativa deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa condizione di esecutività: la sua mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa.

      L'attestazione, da elemento (interno) costitutivo della validità, rectius della stessa esistenza della delibera, è divenuto un atto di controllo esterno all'atto ma interno all'organizzazione.

      Conseguentemente le deliberazioni di spesa prive dell'attestazione saranno valide anche se non esecutive. Ciò risulta pienamente conforme al principio di separazione delle competenze tra direzione politica e direzione amministrativa introdotto dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29. L'apposizione dell'attestazione di copertura finanziaria, infatti, è un'attività gestionale espletata in applicazione della normativa che la prevede. La mancata apposizione del visto da parte dell'organo burocratico non può comportare la nullità dell'atto - che impegni una spesa - adottato dall'organo politico - amministrativo, poiché la sanzione sarebbe evidentemente eccessiva e creerebbe una incongruenza nell'ordinamento, condizionando la validità di un atto alla sussistenza di un altro atto proveniente da un soggetto rispetto al quale sussiste il regime di separazione dei compiti. La mancata esecutività risulta conforme a quest'ultimo principio e consente la distinta verifica dell'operato di ciascuno ed il sanzionamento delle eventuali responsabilità con le modalità previste dall'ordinamento, in relazione alle distinte competenze.

      Il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ha integralmente abrogato (art. 274, lettera q) la legge n. 142 del 1990 e contiene una disposizione identica alla norma in esame, come sostituita dall'art. 6, comma 11, della legge 15 maggio 1997 n. 127, e precisamente l'art. 151, comma quarto, che, come appare evidente dalla semplice lettura, riproduce la previsione che l'atto amministrativo emanato senza la copertura finanziaria, lungi dall'essere "nullo di diritto", come previsto dal vecchio testo dell'art. 55, comma 5, della legge n. 142-1990, è valido e diviene esecutivo solo con l'apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura.

      Il motivo in esame, dunque, a parte la sua ammissibilità, è infondato proprio alla luce della norma invocata a suo sostegno.

      8. La riconosciuta infondatezza dell’appello dispensa il Collegio dall’esame della domanda di risarcimento danni, che, in ragione della riscontrata legittimità della procedura espropriativi, è da considerare inammissibile.

     L’appello va, pertanto, respinto.

     Le spese del grado possono essere compensate per giusti motivi.

P. Q. M.

      Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe specificato, lo respinge.

     Spese del grado compensate.

      Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 1 marzo 2005 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, (Sez. IV) riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei Signori:

     Lucio   Venturini  Presidente

     Costantino           Salvatore   Consigliere est.

     Pier Luigi             Lodi   Consigliere

     Aldo                     Scola     Consigliere

     Anna   Leoni   Consigliere 

L’ESTENSORE    IL PRESIDENTE

Costantino Salvatore    Lucio Venturini

                               IL SEGRETARIO

Rosario Giorgio Carnabuci

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

25 maggio 2005

(art. 55, L. 27.4.1982 n. 186)

     Il Dirigente

     Antonio Serrao

- - 

N.R.G. 6817/04


TRG