REPUBBLICA ITALIANA N. 3784/05 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. 10289 REG:RIC.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 2004
ha pronunciato la seguente
decisione
sul ricorso per revocazione n. 10289/04 proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e l’Ufficio Territoriale del Governo (Prefettura) di Napoli, in persona rispettivamente del Presidente, del Ministro e del Prefetto pro-tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici domiciliano ex lege, in Roma Via dei Portoghesi n. 11;
contro
- Spedaliere Leopoldo rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Abbamonte con domicilio eletto in Roma Via G. Porro n. 8;
- Iacomino Salvatore rappresentato e difeso dall’avv. Enrico Soprano con domicilio eletto in Roma, Via degli Avignonesi n. 5;
nonché nei confronti
Cetara Gennaro, Palumbo Michele, Pignalosa Aniello, Santaniello Mario, Cuomo Vincenzo, Mazza Umberto, Pacilli Alessandro, Di Salvatore Ezio, Calise Felice, Ciotola Vincenzo, Maione Carlo, Brugnano Domenico, Esposito Ciro, Imparato Franco, Improta Aniello, Passaro Vincenzo, Sannino Gaetano, Teodonno Claudio, Provitera Bruno, Mosca Vincenzo, Agnello Aldo, Santomartino Franco, Verde Ciro, Loffredo Pasquale, Gison Teresa, Iacone Giovanni, Fomez Arturo, Frosina Rosario, e De Felice Raffaele, non costituitisi in giudizio;
nonchè nei confronti
Piccolella Gaetano, Ferrer Gioacchino, Di Martino Sergio, non costituitisi in giudizio;
per la revocazione
della decisione della V Sezione del Consiglio di Stato n. 1556/04 del 23.3.2004 di riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania – Napoli Sez. I n. 3903/03, con la quale erano stati riuniti ed accolti gli appelli proposti dagli odierni resistenti nominati in epigrafe.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio di Spedaliere Leopoldo e Iacomino Salvatore;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, per l’udienza del 1° luglio 2005 il Consigliere Adolfo Metro ed uditi, altresì, gli avv.ti Giuseppe Abbamonte per Spedaliere Leopoldo e Giuseppe Abbamonte, in sostituzione dell’avv. Enrico Soprano, per Iacomino Salvatore;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
Con ricorsi al Tar Campania, sede di Napoli, notificati nel novembre 2002, Leopoldo Spedaliere e Salvatore Iacomino, nella loro qualità di sindaco e di assessore, ed altri consiglieri comunali, poi non partecipanti al giudizio di appello, hanno impugnato, con tre distinti ricorsi, vari atti nonchè il D.P.R. 10 settembre 2002, pubblicato sulla G.U. del 27 settembre 2002, con il quale è stato disposto, ai sensi dell’art. 143 del D. Lgs. N. 267/00, lo scioglimento del Consiglio comunale di Portici, motivato con riferimento alla presenza di “forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata, che compromettono la libera determinazione e l’imparzialità degli organi elettivi”.
Con sentenza n. 3903/03 il Tar della Campania, riuniti i ricorsi, li ha rigettati.
Con atti di appello notificati nel luglio 2003, il sindaco e l’assessore sopra richiamati, hanno sostenuto l’erroneità della sentenza di I grado, in quanto asseritamente basata su infondati presupposti logico-giuridici e affetta da vizi di omessa pronuncia.
Con decisione n. 1556/04 questa Sezione ha riunito i due appelli e, in riforma dell’impugnata sentenza, ha annullato il D.P.R. di scioglimento del Consiglio comunale di Portici.
L’Avvocatura dello Stato, a sostegno del presente gravame in revocazione di tale decisione, afferma che, in almeno due dei numerosi episodi che erano stati posti a fondamento dell’atto impugnato, sarebbe mancata, nella sentenza di appello, la cognizione di fondamentali elementi di fatto.
Un episodio è quello relativo alla vicenda dell’acquisto della zona aziendale denominata “ex Kerasav”, mentre l’altro fa riferimento a varie indagini nei confronti del sindaco e alla mancata valutazione di alcuni fatti oggetto di dichiarazioni dei collaboranti nel procedimento penale promosso nei loro confronti e del sindaco stesso.
In particolare, con riguardo al primo episodio, la sentenza afferma che la predetta vendita non avrebbe potuto considerarsi come atto di favore alla criminalità organizzata, in quanto il ”soggetto rinviato a giudizio ai sensi dell’art. 416 bis c.p. (Bruno Sorrentino) è stato con sentenza n. 2900 del 2000 del Tribunale di Salerno, assolto dall’imputazione perché il fatto non sussiste”.
Rileva l’Avvocatura, a tal proposito, che il giudice di appello non ha tenuto presente che, alla pagina 23 del rapporto della Commissione di accesso, si dava notizia che il Sorrentino Bruno era stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza e che a pag. 34 della memoria viene evidenziato come, “contrariamente a quanto asserito ex adverso il Sorrentino Bruno risulta condannato ( sentenza irrevocabile del 17/3/1992 ) dal tribunale di S.Maria Capua Vetere (CE), per il reato di cui all’art. 416 bis ( associazione per delinquere di tipo mafioso ) “.
Tale condanna, non rilevata e quindi non conosciuta dal Consiglio di Stato, deve ritenersi idonea a viziare il convincimento, espresso dallo stesso giudice e basato sulla assoluzione del Sorrentino in ordine ad altro procedimento per lo stesso reato; appare, infatti, evidente, in base ad una diversa e corretta valutazione dei fatti, la posizione di collusione del Comune di Portici che, nell’acquisto della predetta area industriale, ha operato nella piena conoscenza che un fratello dei soci della società venditrice era un noto camorrista.
Con riferimento all’altro episodio, relativo alle accuse, nei confronti del sindaco, da parte di alcuni collaboranti, nell’ambito di un procedimento preordinato all’avvio dell’azione penale (ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Napoli il 20 novembre 1998), si rileva che, la valutazione del giudice di appello, avrebbe dovuto condurre a conclusioni ben diverse da quelle contenute nella sentenza che, invece, afferma la carenza in atti di riscontri obiettivi su quanto affermato dai collaboranti.
Le controparti, costituitesi in giudizio, oltre a depositare una ordinanza di riabilitazione del Sorrentino, hanno sostenuto l’inesistenza, nel caso di specie, dei presupposti di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c., affermando, in particolare, che mancherebbe il necessario nesso di causalità esclusiva tra la presunta erronea supposizione e la decisione stessa, ed inoltre, che l’asserito errore di fatto non assumerebbe carattere determinante e che comunque le circostanze su cui l’Avvocatura ritiene che si sia determinato l’errore del giudicante riguarderebbe, comunque, punti controversi della decisione, sui quali il giudice si è già pronunciato.
Oggetto di revocazione è la decisione n.1556/04 di questa Sezione del Consiglio di Stato con la quale sono stati accolti gli appelli proposti da Spedaliere Leopoldo e da Salvatore Iacomino in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez I, n.3903/03.
Di tale pronuncia di appello hanno chiesto la revocazione, ai sensi dell’art. 395 n. 4 del c.p.c., la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’interno e l’Ufficio territoriale del Governo (Prefettura) di Napoli.
Prima di esaminare i motivi di revocazione sollevati dalla difesa dell’Amministrazione, la Sezione ritiene opportuno osservare che l’errore di fatto che ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c. può dar luogo alla revocazione della pronuncia impugnata consiste, in via generale, in una falsa percezione, da parte del giudice, della realtà risultante dagli atti di causa e più precisamente in una svista materiale che abbia indotto ad affermare l’esistenza di un fatto che obiettivamente non esiste oppure a considerare inesistente un fatto che, viceversa, risulta positivamente accertato, mentre esorbita dall’ambito della revocazione, configurandosi come errore di diritto, quello che attiene alla attività valutativa del giudice e che si estrinseca nell’erronea applicazione di norme sostanziali e procedurali (Sez. VI n. 1081/99; n. 4278/00; n. 5992/00).
In questo contesto, la giurisprudenza ha, quindi, ammesso che l’errore di fatto revocatorio possa riguardare anche la percezione degli atti processuali, ed in particolare, ne ha ammesso la configurabilità anche quando cada sull’esistenza o sul contenuto degli atti processuali e determini una omissione od un errore di pronuncia, purché esso sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza (Ad. Pl. n. 3/97; n.36/80).
È stato, inoltre, precisato che l’errore di fatto è configurabile anche in ordine a documenti ed atti processuali, ma solo nell’attività di lettura e di percezione del loro significato logico e letterale da parte del giudice, in quanto l’errore di interpretazione e di valutazione dei fatti consiste in un errore di diritto, nei cui confronti è inammissibile la revocazione (Sez.IV n. 1159/01).
Ciò premesso il collegio osserva che la sentenza qui impugnata appare affetta da errore di fatto sull’esistenza di uno specifico atto processuale, relativo alla condanna del Sorrentino, nel 1992, per associazione per delinquere di tipo mafioso.
Dalla motivazione della sentenza, con riferimento all’episodio relativo all’acquisto, per un prezzo ritenuto non congruo, della zona aziendale denominata “Kerasav”, si deduce, infatti, chiaramente che la stessa non ha considerato l’esistenza della citata sentenza di condanna.
Si tratta dell’episodio con cui l’Amministrazione, con sospetta solerzia, ha operato l’acquisto di aree da parte di una società in cui quattro soci erano germani di un soggetto (il citato Sorrentino) legato alla malavita organizzata ed inquisito ai sensi dell’articolo 416 bis c.p., circostanza che era stata segnalata dal Prefetto al sindaco perché la valutasse.
Tale fatto ed altri, non sono stati ritenuti, dalla sentenza, come caratterizzati da elementi tali da far ritenere che l’acquisto in parola fosse verosimilmente volto a beneficiare ambienti malavitosi, ma questa valutazione, nel suo procedimento logico, risulta, indubbiamente, falsata dalla mancata considerazione di una condanna, rinvenibile in atti e non considerata dalla sentenza di cui si chiede la revocazione.
Nè su tale dato di fatto può avere rilievo, nella valutazione in esame, l’ordinanza del Tribunale di Napoli, depositata in prossimità dell’udienza di discussione, da cui risulta la successiva riabilitazione del condannato.
Non sono, invece, rinvenibili gli estremi per configurare l’errore di fatto con riferimento all’altro episodio richiamato dall’Avvocatura, concernente le dichiarazioni fatte dai collaboranti, atteso che l’asserito errore di interpretazione e di valutazione dei fatti contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare si riferisce ad episodi che sono stati conosciuti e valutati dal giudice, rispetto ai quali la revocazione deve ritenersi inammissibile.
Ciò premesso, e considerato che la sentenza impugnata con l’atto di revocazione appare affetta da errore di fatto con riferimento alla mancata valutazione della condanna definitiva per associazione per delinquere di tipo mafioso di un pregiudicato la cui famiglia ha intessuto rapporti contrattuali con il comune, deve ritenersi che tale errore ha comportato un vizio della sentenza, che si è basata sul presupposto della inesistenza di un fatto che, viceversa, risulta positivamente accertato.
Giudicando sulla fase rescissoria, il ricorso, di conseguenza, deve ritenersi ammissibile e, per tali ragioni, va pronunciata la revocazione della decisione impugnata.
Nel merito, gli appelli, in relazione ai nuovi elementi di fatto desunti dalla fase rescissoria, sono infondati.
Rileva l’Avvocatura dello Stato, che il giudice di appello, anziché riferirsi alla significatività e rilevanza dei documenti posti a fondamento del provvedimento impugnato, ha preferito analizzare e confutare singolarmente ciascuno di essi, al fine di rilevarne la inidoneità a giustificare lo scioglimento del Consiglio comunale ma che, nella logica di tale decisione, il venir meno anche di uno solo dei vari elementi di fatto richiamati in motivazione, si rivelerebbe come determinante in ordine all’accertamento della vicinanza e del condizionamento tra Amministrazione attiva e camorra, e quindi, ai fini della applicabilità della norma.
L’affermazione appare condivisibile.
La stessa sentenza oggetto di revocazione, del resto, precisa nella sua parte introduttiva, con riferimento alla più rigorosa disciplina stabilita dall’art. 15 bis che “lo scioglimento dell’organo elettivo rappresenta una misura di carattere straordinario per fronteggiare un’emergenza straordinaria, come ha osservato la Corte costituzionale, che ha escluso l’esistenza di profili di incostituzionalità nella norma, pur affermando la necessità che l’esercizio dello straordinario potere di scioglimento sia avvalorato da obiettive risultanze che rendano attendibile l’ipotesi dell’esistenza di collegamenti diretti o indiretti e di forme di condizionamento degli amministratori (Corte Cost. n. 103/93).”
Inoltre, “in questa logica, che non ha finalità repressive nei confronti dei singoli, ma di salvaguardia dell’Amministrazione pubblica di fronte alla pressione e all’influenza della criminalità organizzata, trovano giustificazione i margini particolarmente ampi della potestà di apprezzamento di cui fruisce l’Amministrazione” consistente nella “possibilità di dare peso anche a situazioni non traducibili in addebiti personali ma tali da rendere plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una possibile soggezione degli amministratore alla criminalità organizzata, quali vincoli di parentela o di affinità, i rapporti di amicizia o di affari, le notorie frequentazioni”…. e che, sotto questo profilo, “devono ritenersi idonee anche quelle situazioni che non rivelino nè lascino presumere l’intenzione di amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata”.
Ora, è indubbio che la presenza di un riscontro oggettivo di rapporti contrattuali dell’Amministrazione con una famiglia nella quale un fratello, pur se non diretto contraente dell’amministrazione, risulta condannato con sentenza passata in giudicato, per associazione mafiosa, determina una diversa e più incisiva valutazione di altri fatti, come ad esempio l’uccisione di un altro fratello in un attentato camorristico e la notoria militanza camorristica del padre deceduto e permette di ricomprendere nella fattispecie normativa l’ampio spettro di applicabilità della norma surrichiamata, volta a fronteggiare e combattere l’invasività del fenomeno mafioso con un deciso avanzamento del livello istituzionale di prevenzione, il che giustifica la rilevanza, nel procedimento di cui trattasi, di elementi di fatto desunti da indagini amministrative e degli organi di polizia, purchè significative del pericolo di infiltrazioni mafiose (cfr. C.S., V n. 5710/00) e ancor più in relazione a dati incontestabili, come l’esistenza di una sentenza passata in giudicato.
Nè, come si è già rilevato, può avere rilievo la circostanza che tale diversa valutazione, determinata dalla mancata conoscenza di un dato di fatto, incida soltanto su uno dei quattordici episodi posti a fondamento del provvedimento e ciò sia perché il rigore della norma tende a prevenire qualsivoglia grado di significatività dei rapporti illegittimi dell’Amministrazione con la criminalità, sia perché la rilevanza anche di un singolo episodio permette di valutare in maniera diversa anche altri episodi, rispetto ai quali era stato ritenuto insufficiente il grado di concludenza.
In relazione a quanto esposto, il provvedimento impugnato deve ritenersi correttamente ed esaustivamente motivato con riferimento ai “rapporti collusivi intercorrenti tra l’Amministrazione comunale ed i clan malavitosi locali….” e gli appelli sui ricorsi n. 7133/03 e n. 8229/03, che devono essere riuniti, vanno respinti.
Sussistono giusti motivi per compensare, tra le parti, le spese di onorario di giudizio.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso n. 10289/04 proposto in revocazione e per l’effetto: revoca la decisione 1556/04 di questa Sezione, riunisce gli appelli n. 7133/03 e n. 8229/03, li respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di I grado del Tar Campania Sez. I, n. 3903/03; compensa, tra le parti, le spese di onorario e di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, nella camera di consiglio del 1° luglio 2005 con l’intervento dei Signori:
Sergio Santoro Presidente
Corrado Allegretta Consigliere
Goffredo Zaccardi Consigliere
Marzio Branca Consigliere
Adolfo Metro Consigliere, est.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Adolfo Metro f.to Sergio Santoro
IL
SEGRETARIO
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
IL 15 LUGLIO 2005
(Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
f.to Antonio
Natale
N°. RIC. 10289-04 |
RA