REPUBBLICA ITALIANA N. 4408/05 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. 3428 REG:RIC.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 2004
ha pronunciato la seguente
decisione
sul
ricorso in appello n. 3428/2004, proposto dalla società a r.l. Eredi Fratelli
Bianco, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa
dagli avv.ti Giovanni Pellegrino, Felice Laudadio, Ferdinando Scotto e Andrea
Orefice ed elettivamente domiciliata in Roma, Lungotevere Flaminio n. 46, IV B,
presso lo studio del sig. Gian Marco Grez;
CONTRO
il
Consorzio Cimiteriale tra i comuni di Mugnano e Calvizzano, in persona del
legale rappresentante pro tempore, il presidente dell'Assemblea consortile, e,
per esso, il Commissario prefettizio al Comune di Mugnano di Napoli,
rappresentato e difeso dall’avv. Edgardo Silvestro e con lo stesso domiciliato
presso lo studio legale Iaccarino, in Roma, Lungotevere Marzio 3;
la
Prefettura di Napoli, Ufficio territoriale del Governo di Napoli, in persona del
Prefetto pro tempore e il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e
domiciliati presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per
l’annullamento
della
sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania - Napoli, Sezione
I 25 marzo 2004, n. 3218/2004, che ha respinto il ricorso della società a r.l.
Eredi Fratelli Bianco avverso: la determina dirigenziale 30.7.2003, n. 25 avente
ad oggetto la revoca del contratto 11.12.2002, n. 1999, relativo all'appalto per
il servizio di pulizia all'interno dell'area cimiteriale dei comuni di Mugnano e
Calvizzano; la nota 27.7.2003 prot. n. I/14224/Gab/VI° SETT. ricevuta il
30.7.2003, n. 47; l'informativa antimafia di pari numero in data 22.7.2003;
Visto
l’atto di appello con i relativi allegati;
Visti
gli atti di costituzione in giudizio del Consorzio Cimiteriale tra i comuni di
Mugnano e Calvizzano, del Ministero dell'interno e della Prefettura di Napoli;
Viste
le memorie difensive;
Visti
gli atti tutti della causa;
Data
per letta all’udienza del giorno 16 novembre 2004 la relazione del consigliere
Cesare Lamberti.
Uditi
gli avvocati F. Laudadio, A. Orefice, Gianluigi Pellegrino per delega
dell’avvocato G. Pellegrino, E. Silvestro e G. Noviello, quest’ultimo
presente solo nelle fasi preliminari.
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue.
F A T T O
1)
- Con determinazione dirigenziale n. 25 del 30 luglio 2003, è stato revocato
alla società a r.l. Eredi Fratelli Bianco il contratto di appalto stipulato dal
consorzio tra i comuni di Mugnano e Calvizzano in data 11 dicembre 2002 per il
servizio di pulizia per lo smaltimento dei rifiuti speciali dell'area
cimiteriale. Il provvedimento consegue alla nota trasmessa dalla prefettura di
Napoli con protocollo riservato e ricevuta il 30 luglio 2003 avente ad oggetto
informazioni antimafia relative all'ATI tra la società Eredi Fratelli Bianco, e
la L.R.S. Trasporti s.a.s., circa l'esistenza nei confronti della società Eredi
Fratelli Bianco di tentativi di infiltrazioni mafiosa da parte della criminalità
organizzata tendenti a condizionarne scelte e indirizzi.
I
provvedimenti sono stati impugnati dalla società innanzi al Tribunale
Amministrativo Regionale della Campania con tre distinti motivi, precisamente:
1) violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 490/98, dell'art. 10, D.P.R. 252/98 e
dell'art. 10, l. n. 575/65. Difetto dei presupposti, carenza di istruttoria e di
motivazione: non ricorreva alcuna circostanza da cui desumere in concreto che la
società Eredi Fratelli Bianco avesse subito tentativi di infiltrazioni mafiosa.
2) Violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 490/98, dell'art. 10, D.P.R. 252/98 e
dell'art. 10, l. n. 575/65. Violazione dell'art. 16, R.D. 2440/23. Carenza di
istruttoria e di motivazione: non è stata fornita alcuna motivazione per cui è
stato avviato il procedimento di revoca dell'aggiudicazione a seguito
dell'informativa prefettizia, che non ha alcuna efficacia interdittiva dei
rapporti con l'amministrazione. Stipulato il contratto, il Consorzio non aveva
l'obbligo ma la sola facoltà di revoca che doveva essere motivata. 3)
Violazione dell'art. 7, l. n. 241/90: è stata omessa la comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento. Innanzi al Tar della Campania si sono
costituiti il Consorzio e il Ministero dell'interno. Dopo l'interlocutoria del
Tar n. 547/2003, sono state depositate la relazione 2.9.2003 e la documentazione
istruttoria, all'esito della quale, la società, in data 9.9.2003, ha notificato
"bevi note" nelle quali evidenziava: la ricorrente era stata già
valutata ai fini del rilascio del certificato antimafia; le opinioni circa la
possibilità di infiltrazioni mafiose espresse dalla Commissione interforze
sulla base degli elementi raccolti dalla Questura di Napoli e quelle in
precedenza manifestate del Gruppo Ispettivo Antimafia (G:I.A.) erano
contrastanti; il verbale 7.7.2003 circa il rilascio di informativa interdittiva
era basato prevalentemente sulla sentenza n. 165/2003 del Tribunale di Napoli,
peraltro non irrevocabile; le circostanze ulteriori non erano preclusive alla
prosecuzione del rapporto contrattuale.
Il
Tar della Campania, che aveva in un primo tempo sospeso i provvedimenti, ha
respinto il ricorso.
2) - Ha rilevato, in
particolare, il TAR che, con le censure svolte in primo grado, era stata dedotta
l’illegittimità dell’informativa antimafia sfavorevole adottata nella
seduta del 7 luglio 2003, cui ha fatto seguito la revoca dell’aggiudicazione,
in quanto basata su elementi di
fatto che avevano già costituito oggetto di analoga valutazione da parte dello
stesso G.I.A. nella precedente seduta del 6 luglio 1999, in occasione della
quale si era ritenuto che, allo stato, non vi erano elementi tali da indurre al
rilascio di un provvedimento negativo sulla base di quanto fornito dalle Forze
dell’Ordine.
In altri termini, rilevavano i
primi giudici, le censure stesse erano volte a denunciare una sorta di
contraddittorietà tra due valutazioni di segno opposto, pur se espresse sulla
base degli stessi elementi, evidenziando in tal senso l’impossibilità di una
rinnovazione dell’attività di giudizio da parte dell’Amministrazione in
assenza di un quid novi che la potesse
giustificare.
Inoltre, con le dette censure di
primo grado si poneva in evidenza, per i primi giudici, l’inadeguatezza, ai
fini del rilascio dell’informativa ostativa, degli ulteriori elementi che il
G.I.A. aveva invece ritenuto rilevanti a tal fine e, segnatamente, la sentenza
del Tribunale Penale di Napoli - VII Sezione - n.165/03, nonché le
dichiarazioni del Collaboratore di Giustizia Augusto La Torre, e ciò in quanto,
nel primo caso, i predetti elementi avevano già costituito oggetto di
valutazione in riferimento all’adozione di una misura
custodiale nell’ambito del relativo procedimento penale che, inoltre,
aveva ad oggetto unicamente degli episodi di minacce; nel secondo,
poiché si sarebbe trattato di interrogatori
a cui il Prefetto non poteva avere accesso (le relative notizie, erano
state, infatti, evinte da un articolo di
stampa) e che comunque, in ogni
caso, non potevano contenere circostanze
di un effettivo coinvolgimento dei fratelli Bianco
in attività di natura
mafiosa, tenuto anche conto che, fino a quel momento, il Pubblico Ministero non
aveva ritenuto di estendere le indagini in
tale direzione.
Infine, ha osservato il TAR come
la ricorrente avesse evidenziato che l’informativa antimafia ostativa,
adottata ai sensi dell’art. 10, settimo comma, lettera c),
del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, sarebbe stata priva di adeguata
motivazione laddove, invece, proprio l’ampio potere discrezionale riconosciuto
al Prefetto in merito all’acquisizione degli elementi istruttori ed alla loro
valutazione – a differenza delle ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell’
art. 10, settimo comma del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 - avrebbe dovuto imporre
la loro puntuale illustrazione e valutazione che, comunque, nei termini in cui
era stata operata, evidenziava tutti i vizi di contraddittorietà oggetto delle
già illustrate doglianze.
3) - Per il TAR tali doglianze
erano prive di consistenza.
I primi giudici hanno ritenuto
pacifico che la motivazione del provvedimento poteva anche esprimersi attraverso
il richiamo degli esiti degli accertamenti compiuti, ritenendoli idonei
al rilascio di un’informativa di segno negativo.
Nel caso in esame, ha osservato
il TAR, sia nel verbale del 7 luglio 2003 che nell’atto conclusivo del 22
luglio 2003, erano stati richiamati, infatti, tutti gli accertamenti posti a
fondamento dell’informativa antimafia, evidenziando anche le ragioni della
valutazione negativa espressa.
Quanto all’adeguatezza di tale
motivazione ed alla sua supposta contraddittorietà rispetto alla valutazione in
termini non ostativi sulla base degli stessi elementi compiuta dal G.I.A. nella
precedente seduta del 6 luglio 1999, hanno osservato i primi giudici che
all’accoglimento della predetta censura ostassero due ordini di
considerazioni, l’una in termini di principio, l’altra in punto di fatto.
In termini generali, è stato
evidenziato che l’art. 10, comma 7, lettera c), del D.P.R. 3 giugno 1998, n.
252, conferisce al Prefetto un potere di accertamento di massima ampiezza, ciò
trovando giustificazione nella preminente esigenza di tutelare anche nella fase
istruttoria l’interesse generale all’ordine ed alla sicurezza pubblica, e ciò
anche in relazione al settore dei contratti tra mondo imprenditoriale e Pubblica
Amministrazione; del resto, è stato ancora osservato, come il concetto di “tentativo
di infiltrazione mafiosa” si presenta estremamente sfumato e differenziato
rispetto alla configurazione che si ha in sede normativa di fenomeni criminali
di stampo associativo mafioso, e ciò sia nell’ambito del processo penale che
del procedimento volto all’adozione di misure di prevenzione – non dovendosi
dimenticare che sovente la sussistenza del tentativo di infiltrazione prescinde
dall’accertamento della sua genesi, limitandosi a verificare solo se
l’impresa costituisca comunque uno strumento, anche per interposta persona, di
ingerenza da parte di organizzazioni criminali in specifici
rapporti con l’Amministrazione Pubblica - così anche il relativo potere di accertamento da parte del
Prefetto si caratterizza per l’estrema duttilità dei mezzi all’uopo
destinati che possono assumere, in pratica, qualsiasi forma.
Sotto il primo profilo della
contraddittorietà non hanno dubitato, in particolare, i primi giudici del fatto
che l’Amministrazione – nel caso di specie il Prefetto – potesse
riconsiderare e rivalutare degli elementi di fatto oggetto di una sua precedente
valutazione, pervenendo a conclusioni diverse rispetto a quelle a cui era giunta
in precedenza; tale considerazione deve essere ritenuta, per il TAR, come uno
dei principi fondamentali dell’azione amministrativa, inquadrantesi
pienamente, del resto, nell’ambito della generale potestà di autotutela.
E’ parimenti vero – osserva,
ancora, il TAR - che, seppur all’Amministrazione non è preclusa in linea di
principio la possibilità di rinnovare il proprio giudizio, ciò deve pur sempre
avvenire in presenza di presupposti che legittimino una tale iniziativa; nella
materia in esame, pertanto, non si può escludere che il Prefetto non possa
riesaminare – giungendo ad opposte conclusioni - gli stessi elementi che in
precedenza avevano costituito oggetto di una valutazione in senso non ostativo
al rilascio di un’informativa antimafia, anche se ciò deve pur sempre
avvenire in presenza dell’acquisizione di determinate circostanze che possano
giustificare l’emanazione di nuovo giudizio: in tal caso, oggetto di
rinnovazione saranno tutti gli elementi, sia quelli precedenti che quelli nuovi
– questi ultimi anche in funzione giustificativa della nuova valutazione –
che convergeranno nella nuova informativa.
Tale conclusione, del resto, è
anche avvalorata, ad avviso dei primi giudici, dalla costante necessità di
aggiornamento da parte degli Uffici preposti agli accertamenti e dalla dinamica
evolutiva dei fenomeni criminali di stampo associativo, anche sotto il profilo
del consolidamento delle ipotesi di reato che trovano conferma nelle verifiche
compiute in sede processuale
e procedimentale e nei continui
sviluppi delle investigazioni a cura delle
Autorità preposte.
Non è quindi possibile,
prosegue la sentenza appellata, creare delle cesure tra elementi già valutati
ed all’epoca eventualmente ritenuti insufficienti e nuovi accertamenti, per
ritenere che solo su questi ultimi l’Amministrazione potrà esprimere il
proprio eventuale giudizio negativo: il nuovo giudizio, come, del resto,
correttamente evidenziato dal G.I.A. nella seduta del 7 luglio 2003, potrà (ed
anzi dovrà) fondarsi su tutti gli elementi a disposizione, perché solo in tale
ottica si potrà effettivamente e compiutamente verificare
se un’impresa subisca condizionamenti di tipo mafioso.
4)
- Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea sotto ogni profilo perché,
contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici, sia il provvedimento
sindacale che quello prefettizio su cui il primo acriticamente si fonda
sarebbero illegittimi per difetto di ogni valida ed esauriente istruttoria e
motivazione.
In particolare, sul rigetto del primo
motivo del ricorso in primo grado, deduce la violazione dell'art. 10 del D.P.R.
n. 252/98 e dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94; e, invero, sarebbero
contraddittori gli assunti del G.I.A. presso la Prefettura di Napoli, che in un
primo tempo aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle forze dell'ordine non
consentivano l'informativa ostativa e poi mutato opinione, a fronte di fatti
successivi che sarebbero del tutto inidonei a fondare un diverso orientamento
sui tentativi d'infiltrazione mafiosa.
Quanto ai motivi contenuti nelle “brevi
note notificate” in primo grado e disattesi dal TAR (secondo motivo
d’appello), si denuncia la
violazione del D.Lgs. n. 490/94 e del D.P.R. n. 252/98, nonché l’omessa
pronuncia su un punto decisivo: la dedotta irrituale composizione del Gruppo
Ispettivo Antimafia; il verbale del G.I.A., inoltre, sarebbe stato acriticamente
recepito dal Prefetto e la sentenza appellata nulla avrebbe addotto sulla
relativa censura d'illegittimità.
Ancora sul rigetto del primo motivo del
ricorso in primo grado (terzo motivo dell’appello), la sentenza del Tribunale
penale di Napoli n. 165/2003 avrebbe fatto riferimento a fatti assolutamente non
riconducibili ad ipotesi di collegamento con la criminalità organizzata; quanto
alle dichiarazioni del pentito La Torre, le stesse sarebbero state ritenute, di
fatto, inconsistenti dallo stesso pubblico ministero che non ha ritenuto di
estendere l’indagine ai rappresentanti dell’impresa.
Sul rigetto del secondo motivo del
ricorso in primo grado (quarto dell’appello), si ribadisce la censura secondo
cui non sarebbe stata fornita alcuna ragione giustificativa, da parte del Comune
appellato, della revoca dell'aggiudicazione, necessaria trattandosi delle revoca
di un appalto già in corso.
Sul rigetto, poi, del terzo motivo
dell’originario ricorso (quinto motivo del presente gravame), si denuncia il
fatto che erroneamente i primi giudici avrebbero disatteso la censura di
violazione dell’art. 4 del D. Lgs. n. 490/1994, correlata alla violazione del
termine massimo di giorni quindici entro il quale il Prefetto avrebbe dovuto
trasmettere all’Amministrazione comunale interessata le informazioni di cui si
tratta.
Sulla reiezione, infine, del quarto
motivo dell’originario ricorso, si censura
la sentenza appellata (con il sesto motivo del presente appello) nella
parte in cui ha ritenuto insussistente la violazione del disposto di cui agli
artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, laddove illegittimamente non sarebbe
stata consentita, da parte delle appellate Amministrazioni, la partecipazione al
procedimento dell’interessata, nonostante il carattere sfavorevole del
provvedimento conclusivo.
5)
- Resiste il Comune appellato che insiste per il rigetto dell’appello e la
conferma della sentenza appellata.
Chiede
il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza qui gravata anche il
Ministero dell’Interno, che ribadisce la piena correttezza dell’impugnata
nota prefettizia.
Con
memorie conclusionali le parti ribadiscono i rispettivi assunti difensivi.
D I
R I T T O
1)
– L’odierna appellante ha impugnato innanzi al TAR la determinazione
dirigenziale n. 25 del 30 luglio 2003, con cui era stata disposta la revoca del
contratto 11.12.2002, n. 1999, relativo all'appalto per il servizio di pulizia
all'interno dell'area cimiteriale dei comuni di Mugnano e Calvizzano a causa
della ritenuta sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa ai sensi
dell’art. 4 del D.Lgs. 8 agosto 1994, n. 490.
Il
TAR ha respinto il ricorso avendo ritenuto corretto sia l’operato del Comune
che quello del Prefetto che ne ha costituito necessario presupposto
(l’informativa antimafia di cui alla nota prefettizia datata 22 luglio 2003,
prot. n. I/14224/GAB/VI).
La
Società appellante censura la sentenza ora detta sotto tutti i profili.
In particolare, sul rigetto del primo
motivo del ricorso in primo grado, deduce l’appellante la violazione dell'art.
10 del D.P.R. n. 252/98 e dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94; e, invero, sarebbero
contraddittori gli assunti del G.I.A. presso la Prefettura di Napoli, che in un
primo tempo aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle forze dell'ordine non
consentivano l'informativa ostativa e poi mutato opinione, a fronte di fatti
successivi che sarebbero del tutto inidonei a fondare un diverso orientamento
sui tentativi d'infiltrazione mafiosa (non potendo assegnarsi rilevanza, si
assume, alla sentenza penale n. 165/2003 - resa con riguardo a fatti già noti
nel 1999 - e, inoltre, accordarsi
rilevanza, in assenza di alcuno specifico accertamento da parte degli organi
prefettizi, alle dichiarazioni – non verificate – di un collaboratore di
giustizia.
Quanto ai motivi contenuti nelle “brevi note notificate”
in primo grado e disattesi dal TAR (secondo motivo d’appello), si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 490/94 e del D.P.R.
n. 252/98, nonché l’omessa pronuncia su un punto decisivo: la dedotta
irrituale composizione del Gruppo Ispettivo Antimafia; il verbale del G.I.A.,
inoltre, sarebbe stato acriticamente recepito dal Prefetto e la sentenza
appellata nulla avrebbe addotto sulla relativa censura d'illegittimità.
Ancora sul rigetto del primo motivo del
ricorso in primo grado (terzo motivo dell’appello), la sentenza del Tribunale
penale di Napoli n. 165/2003 avrebbe fatto riferimento a fatti assolutamente non
riconducibili ad ipotesi di collegamento con la criminalità organizzata; quanto
alle dichiarazioni del pentito La Torre, le stesse sarebbero state ritenute, di
fatto, inconsistenti dallo stesso pubblico ministero che non ha ritenuto di
estendere l’indagine ai rappresentanti dell’impresa.
Sul rigetto del secondo motivo del
ricorso in primo grado (quarto dell’appello), si ribadisce la censura secondo
cui non sarebbe stata fornita alcuna ragione giustificativa, da parte del Comune
appellato, della revoca dell'aggiudicazione, necessaria trattandosi delle revoca
di un appalto già in corso; il Comune stesso, inoltre – avendo non
l’obbligo, ma, si assume, la semplice facoltà di adottare il provvedimento di
revoca in questione – avrebbe dovuto, prima di provvedere, quanto meno
chiedere chiarimenti anche direttamente alla parte interessata.
Sul rigetto, poi, del terzo motivo
dell’originario ricorso (quinto motivo del presente gravame), si denuncia, in
primo luogo, il fatto che erroneamente i primi giudici avrebbero disatteso la
censura di violazione dell’art. 4 del D. Lgs. n. 490/1994, correlata alla
violazione del termine massimo di giorni quindici entro il quale il Prefetto
avrebbe dovuto trasmettere all’Amministrazione comunale interessata le
informazioni di cui si tratta.
Sulla reiezione, infine, del quarto
motivo dell’originario ricorso, si censura
la sentenza appellata (con il sesto motivo del presente appello) nella
parte in cui ha ritenuto insussistente la violazione del disposto di cui agli
artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, laddove illegittimamente non sarebbe
stata consentita, da parte delle appellate Amministrazioni, la partecipazione al
procedimento dell’interessata, nonostante il carattere sfavorevole del
provvedimento conclusivo.
Prima di procedere all’esame delle
singole censure ora dette appare utile svolgere alcune premesse di carattere
generale.
2)
- L'informativa prefettizia è stata emanata ai sensi dell'art. 4 del D.Lgs. n.
490/94 e dell'art. 10 del D.P.R. n. 252/98 per effetto delle conclusioni
raggiunte dal Gruppo Ispettivo Antimafia nella seduta del 7 luglio 2003, su
richiesta del Comune della verifica antimafia nei confronti della società Eredi
Fratelli Bianco, aggiudicataria dell'appalto.
Nel corso dell'istruttoria disposta dalla
Prefettura di Napoli sono state acquisite le note in data 25 marzo 2003, n.
0351714/13-4, del Comando Provinciale Carabinieri di Napoli, e in data 31 marzo
2003, n. 13596/AE/MPS, della Questura di Napoli.
Il Prefetto ha richiamato la propria
precedente istruttoria, in particolare il decreto n. I/2088/ANTIMAF del
18.9.1997, con il quale erano state disposte verifiche a carico della società ex
artt. 1 e 1-bis del D.L. n. 629/82 ed ha ritenuto che l'attuale informativa
rispondesse ad esigenze di prevenzione e che la valutazione richiesta tenesse
conto di elementi indiziari che trovavano fondamento anche nella specifica
situazione ambientale in cui si sviluppava l'azione imprenditoriale della società.
Con riferimento alle disposizioni applicate dal
Prefetto e dal Comune, il Collegio osserva che la facoltà di revoca o recesso
deriva direttamente dall'effetto interdittivo dell'informativa prefettizia, nel
quadro dell'obbligo imposto alle amministrazioni appaltanti dall'art. 4 del
D.Lgs. n. 490/94 di acquisire le informazioni circa i tentativi di infiltrazione
mafiosa prima di procedere alla stipula di contratti o emanare i provvedimenti
autorizzatori e concessori di cui all'art. 10 della legge n. 575/1965.
Secondo l'art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 490/94 le
amministrazioni, cui siano fornite le informazioni del Prefetto, non possono
stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti o procedere al
rilascio di autorizzazioni o concessioni quando gli elementi circa i tentativi
di infiltrazione siano accertati prima della loro emanazione. Nei casi di
urgenza o di indagini particolarmente complesse, è facoltà delle
amministrazioni, revocare le autorizzazioni e le concessioni o recedere dal
contratto quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa
siano accertati successivamente alla stipula.
Diversamente dall'incapacità speciale ad essere
destinatari di provvedimenti autorizzatori o concessori oppure ad essere
contraenti con le amministrazioni o enti pubblici, comminata dall'art. 10, della
legge n. 575/1965 ai soggetti nei cui confronti sia stata applicata con
provvedimento definitivo una misura di prevenzione, l'interdizione prevista
dall'art. 4 del D.Lgs. n. 490/1994 riveste efficacia preventiva e cautelativa e
vieta la costituzione del contratto in relazione al quale è richiesta ed
emanata l'informativa del prefetto.
L'effetto cautelativo che consegue alle informazioni
evita che le amministrazioni o gli enti rilascino concessioni ed erogazioni
ovvero procedano alla stipula dei contratti e dei subcontratti indicati all'art.
10 della legge n. 575/1965 nei confronti di persone fisiche, imprese,
associazioni, società e consorzi che pur non essendo destinatari di misure di
prevenzione, possano essere condizionati nelle scelte ed indirizzi e quindi
prestarsi a tentativi di infiltrazione mafiosa nell'ambito della loro attività
economica.
Il D.Lgs. n. 490/94 che prevede l'applicazione di
tali misure, rappresenta attuazione della legge n. 47/1994, di delega al
riordino delle comunicazioni e certificazioni antimafia già contenute nella
legge n. 575/1965. In particolare, le lett. c) e d) dell'art. 1 comma 1 della
legge di delega n. 47/1994 distinguono i casi in cui, a seconda di limiti di
valore, il contratto può essere stipulato dietro semplice dichiarazione degli
interessati circa l'inesistenza di provvedimenti di prevenzione dai casi in cui
ne è vietata la stipula se non dopo l'acquisizione delle complete informazioni
rilasciate dal prefetto, circa l'insussistenza, nei confronti loro e dei
familiari conviventi, delle cause di decadenza o di divieto previste dalla
medesima legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni, ovvero di tentativi
di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate tendenti a
condizionarne le scelte e gli indirizzi.
Delle due ipotesi, la prima trova completa disciplina
nell'ordito originario della legge n. 575/65, la seconda è stata introdotta,
nel quadro degli emendamenti di cui al decreto legge n. 306/1992 (legge di
conversione n. 356/92), dall'art. 3-quater, circa la ricorrenza di sufficienti
indizi per ritenere che l'esercizio di determinate attività economiche,
comprese quelle imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto
alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo
416-bis del codice penale o che possa, comunque, agevolare l'attività delle
persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure
di prevenzione di cui all'articolo 2, ovvero di persone sottoposte a
procedimento penale per taluno dei delitti indicati nel comma 2.
Da tale evenienza discende per l'autorità penale
l'onere di emanare i provvedimenti di sua competenza e per l'amministrazione il
divieto di contrattare o di proseguire nell'attività contrattuale.
Per ciò che attiene alle informazioni sul
condizionamento malavitoso delle attività d'impresa, l'art. 4, comma 1, del
D.Lgs. n. 490/94 ha generalizzato l'obbligo delle amministrazioni di acquisirle
prima di stipulare i contratti o rilasciare le autorizzazioni o concessioni che
superino i limiti di valore ivi contenuti.
L'informativa del Prefetto ha efficacia interdittiva
al perfezionamento del negozio o all'emanazione del provvedimento, stante il
divieto dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94 di stipulare contratti o rilasciare
concessioni o provvedimenti attributivi di altre utilità a soggetti collegati
con ambienti della malavita organizzata.
L'acquisizione dell'informativa è inderogabile,
salvi i casi di lavori o forniture di somma urgenza o di indagini di particolare
complessità, che non ne permettano il tempestivo rilascio ai sensi dell'art. 4,
comma 6, D.Lgs. n. 490/98.
È in questo caso attribuita all'amministrazione la
facoltà di recesso con il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso
delle spese sostenute, qualora l'accertamento della causa d'incompatibilità
sopravviene in corso di rapporto.
Nel dare esecuzione della normativa delegata, il
D.P.R. n. 252/98 ha precisato, all'art. 10, le fonti da cui il Prefetto può
trarre le informazioni e notizie circa le situazioni in cui si ravvisi il
tentativo di infiltrazione mafiosa e l'ambito di discrezionalità rilevante ai
fini dell'emanazione dell'informativa ed ha esteso, all'art. 11, la facoltà di
revoca e di recesso al sopravvenire degli elementi relativi ai tentativi di
infiltrazione dopo la stipula del contratto, anche nelle ipotesi estranee alla
particolare complessità delle indagini o alla somma urgenza.
In particolare, l'art. 11, comma 3, del D.P.R. n.
252/98 ha stabilito che il sopravvenire, durante il suo svolgersi, di
circostanze incompatibili con la prosecuzione del rapporto per il
condizionamento malavitoso dell'attività dell'impresa, comporta la revoca del
contratto qualora accertato a mezzo dell'informativa del prefetto, il cui
effetto interdittivo opera evidentemente in modo automatico e senza che
l'amministrazione possa sindacarne i contenuti.
Ciò premesso, può passarsi all’esame dei singoli
motivi d’appello.
3) - Dei motivi dell’appello, da esaminare secondo
il loro ordine logico, appiono infondati il primo e il terzo che rappresentano
sviluppo dell'unica censura svolta avverso l'informativa del prefetto, e il
quarto, appuntato nei confronti del provvedimento comunale di revoca
dell'appalto.
Comune alle prime due censure è l'insufficienza del
quadro indiziario a sorreggere l'informativa del Prefetto, sia perché
contrastante con le valutazioni effettuate dal Gruppo Ispettivo Antimafia presso
la Prefettura di Napoli, sia perché assolutamente insufficiente a ricondurre
l'attività dei soci, e, in particolare del sig. Bianco Antimo, ad ipotesi di
collegamento con ambienti della criminalità organizzata.
Va precisato, in punto di fatto, che con proprio
decreto del 18 settembre 1997 il Prefetto di Napoli, in sede di valutazione
della richiesta di informativa antimafia presentata dai comuni di Falciano del
Massico e di Mugnano circa i tentativi di infiltrazione cammorristica
all'interno della società Fratelli Bianco, aveva ritenuto opportuno di
disporre, tramite una commissione interforze, ulteriori accertamenti ai sensi
degli artt. 1 e 1-bis d.l. 629/1982, in esito ai quali la commissione, nella
comunicazione del 7 aprile 1998, non aveva escluso l'ipotesi che nella gestione
della società vi potessero essere infiltrazioni camorristiche, sia per i
rapporti di parentela fra il coniuge di Bianco Antimo e il pluripregiudicato
Giacomo Migliaccio, sia perché presso la sede della società era parcheggiata
un'autovettura il cui proprietario aveva rapporti con clan camorristici locali.
Sempre nei confronti del Bianco, l'informativa 15
giugno 1999 della Questura di Napoli aveva segnalato che egli era stato tratto
in arresto e successivamente sottoposto agli arresti domiciliari perché
ritenuto responsabile, in concorso con altri, dei reati di cui all'art. 513-bis
c.p. e che era sospettato di riciclaggio di danaro, anche se non era risultato
alcun esito dagli accertamenti in punto. A carico dei familiari di Di Stazio
Vincenzo, amministratore della società, erano poi stati rinvenuti precedenti
per violazione di norme in materia di detenzione di armi, lesioni, usura e altri
reati. Ciononostante, nel verbale 6 luglio 1999, il Gruppo Ispettivo Antimafia
aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle Forze dell'ordine non consentivano
di rilasciare informativa ostativa, anche se lo stesso Gruppo Ispettivo aveva
ritenuto necessario svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti sui
soggetti collegati alla società per individuare l'eventuale presenza di un
imprenditore occulto.
Dell'esito di tali accertamenti è dato atto nel
verbale 7 luglio 2003 del Gruppo Ispettivo Antimafia, nel quale, unitamente alla
condanna del Bianco di cui alla sentenza n. 165/03, si fa anche riferimento alle
informazioni fornite dalla Questura di Napoli con note 31 marzo 2003, n. 13596,
e 25 marzo 2003, n. 0351714/13/4, e alle dichiarazioni del collaboratore di
giustizia Augusto La Torre.
Nella prima delle predette sedi si riferisce che il
Bianco è stato condannato – con la citata sentenza n. 165/2003 - per illecita
concorrenza con minaccia in relazione ad una gara d'appalto per l'affidamento
del servizio per la rimozione di rifiuti solidi urbani all'interno della base
NATO; nella seconda si confermano, tra l'altro, i rapporti di parentela del
coniuge con taluni esponenti dei clan camorristici della zona e si segnala che
tra i dipendenti dell'impresa vi è stato anche il sig. Pagnani Giovanni, di
recente arrestato per i reati di cui all'art. 416-bis, 611 e 629, comma 2, c.p.
e che i fratelli Bianco avevano preso parte ad una riunione il 15 giugno 1995
con alcuni pregiudicati della zona (interrotta a seguito dell'intervento del
Commissariato di zona); nella terza si rende noto che la società Fratelli
Bianco si era aggiudicata l'appalto per la rimozione dei rifiuti solidi nel
comune di Falciano del Massico con la collaborazione del predetto “capoclan”
della camorra organizzata.
4) - Ciò premesso, è da escludere che l'insieme
degli elementi ora portati non sia sufficiente a sorreggere l'informativa del
Prefetto sotto l'aspetto del sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle
in precedenza valutate in quanto non sarebbe sopravvenuto alcun aggravamento del
quadro indiziario rispetto al verbale del G.I.A. del 6 luglio 1999.
Va ribadito, infatti, che nel rendere le informazioni
richieste dal Comune ai sensi dell'art. 10, comma 7, lett. c), del D.P.R. n.
252/98, il Prefetto non deve basarsi su specifici elementi (come avviene per gli
accertamenti effettuati ai sensi delle lett. a) e b), ma effettuare la propria
valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono
rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell'imprenditore possano rappresentare un veicolo di
infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche
amministrazioni.
L'ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata
dalla finalità preventiva del provvedimento cui cospirano, giustifica che il
Prefetto possa ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in
fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza - quali una condanna non
irrevocabile, collegamenti parentali con soggetti malavitosi, dichiarazioni di
pentiti - ma che, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di
possibilità che l'attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta,
agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la
presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni
camorristiche.
Nell'istruttoria avviata ex art. 10 del D.P.R. n. 252/98 era emerso che il Migliaccio (cui il
Bianco era legato da rapporti di parentela) era sospettato di trarre i mezzi di
sostentamento anche da introiti dell'azienda durante la latitanza (nota CC. 25
marzo 2003 n. 0351714/13-4) e che con sentenza n. 165/2003 i fratelli Giuseppe e
Antimo Bianco erano strati condannati per i delitti di cui agli artt. 110, 81,
cpv. e 513 bis c.p. perché in concorso fra loro e nell'esercizio, attraverso la
ditta Eredi Fratelli Bianco, di attività commerciale, compivano in tempi
diversi atti di concorrenza con violenza e minaccia.
Nella successiva nota dell'UTG 16 settembre 2003
veniva tra l'altro richiamata l'attenzione sull'ordinanza n. 293/00 del 28
agosto 2000 e sulle dichiarazioni rese nell'ambito dello svolgimento del
processo "Artemide" dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre,
che avrebbe fornito elementi circa il collegamento della società ricorrente con
il sodalizio a lui facente capo ed operante in Mondragone; in particolare, si
evidenziava – come già ricordato - che il capo di un “clan” camorristico
sarebbe riuscito a fare aggiudicare una gara di appalto relativo allo
smaltimento di rifiuti ad una ditta di Antimo Bianco.
L'insieme di siffatti elementi è stato ribadito
nella nota 5 aprile 2004 della Prefettura di Napoli acquisita in via istruttoria
della Sezione nel corso della fase cautelare inerente ad un giudizio analogo al
presente (appello n. 3428/2004).
5)
- Ebbene, ritiene la Sezione che la nota del Prefetto dianzi indicata (e che ha
costituito l’unico presupposto giuridico-fattuale su cui si sono fondati i
provvedimenti comunali, non avendo il Comune svolto un’autonoma istruttoria ed
essendosi, sul piano motivo, richiamato semplicemente alla detta nota
prefettizia) fosse il frutto di una corretta e soddisfacente attività
istruttoria e fosse corredata da idonea motivazione, con la conseguenza che non
possono essere condivise le censure mosse dall’originaria ricorrente e odierna
appellante all’operato degli organi dell’Ufficio Territoriale di Governo e
alla sentenza che ne ha ritenuto la piena conformità alla disciplina di
settore.
Non
può escludersi, infatti, in linea di principio, che fatti e circostanze nuovi e
rilevanti possano assegnare una differente colorazione e un più pregnante
significato ad una serie di elementi in precedenza già valutati e che, in sè e
per sè considerati, non abbiano consentito, in un primo tempo, in quanto privi
di sufficiente e autonoma consistenza, di pervenire all’emanazione di una
informativa ostativa per il soggetto interessato.
Si
tratta allora di verificare, in concreto, se i fatti nuovi presi in
considerazione dall’amministrazione potessero o meno, sul piano logico,
giustificare, nella specie, l’informativa di cui si tratta.
Ritiene
il Collegio che l’informativa stessa sia legittima, i nuovi elementi posti a
supporto della radicale modificazione degli apprezzamenti operati nel 1999
supportando, infatti, sufficientemente le nuove, negative valutazioni, oggetto
della presente impugnativa.
Se
è vero, infatti, che le note degli organi di pubblica sicurezza nulla
aggiungono a quanto già segnalato ai fini dell’informativa del 1999,
limitandosi, nella sostanza, a richiamare le stesse circostanze già all’epoca
segnalate, è anche vero che la sentenza del giudice penale n. 165/2003,
nell’escludere che, nei comportamenti criminosi di talun rappresentante
dell’impresa fossero riconoscibili forme di infiltrazione da parte della
criminalità organizzata, non di meno evidenziava la pericolosità di
comportamenti – minacce alla incolumità di altri imprenditori legate
direttamente alla gestione degli appalti di servizi – che, normalmente,
connotano anche i tentativi di infiltrazione mafiosa.
È
apparso grave e significativo, in altre parole, ai fini di cui si tratta, che i
rappresentanti di un’impresa chiamata ad esperire un pubblico appalto
potessero avere minacciato un altro imprenditore solo perché interessato a
conseguire l’affidamento di un altro appalto in relazione al quale gli autori
delle minacce non volevano, evidentemente, avere concorrenti.
Premesso
che l'attinenza delle minacce alla gara d'appalto per la raccolta dei rifiuti
della base NATO emerge inequivocabilmente dal capo d'imputazione a carico dei
fratelli Bianco e dall'affermazione riportata testualmente a pag. 16 della
sentenza, dalla quale il Tribunale ha tratto il convincimento sull'esistenza del
reato di minacce perpetrato, può osservarsi, anzitutto, che, sul piano della
ricostruzione logica degli elementi a sostegno dell'informativa, tale
presupposto non appare smentito alla dichiarazione rilasciata dal Comando NATO
sulla corretta esecuzione del servizio da parte della società appellante; la
possibilità di collegamento con associazioni malavitose di un'impresa
esecutrice di un'opera o di un servizio non necessariamente deve impingere,
infatti, sulla corretta esecuzione del medesimo, trattandosi di evenienze prive
di alcun reciproco legame.
Il
comportamento imputato ai fratelli Antimo e Giuseppe Bianco dal giudice penale
ragionevolmente è stato rivisto, poi, dall’autorità competente, quale indice
o manifestazione di pericolo di infiltrazione mafiosa, le minacce destinate a
far deflettere i potenziali contendenti dal concorrere ad una gara d’appalto
costituendo ordinario sintomo di comportamenti propri della malavita
organizzata.
E,
in quest’ottica, il fatto che sia intervenuta una condanna in sede di giudizio
penale è valso a consolidare e concretizzare quello che, in precedenza – e,
in particolare, nel corso degli apprezzamenti operati nel 1999 – era stato
rivisto come un comportamento non ancora connotato da crismi di sufficiente
certezza tali da portare ed emanare l’informativa ostativa.
Con
la conseguenza che l’informativa ostativa oggetto del presente giudizio deve
essere ritenuta sufficientemente supportata da un
quid novi, di significativa
rilevanza, che ne giustifica l’adozione e che consolida significativamente
i dubbi già in precedenza emersi.
Se,
del resto, non possono partecipare a pubbliche gare operatori responsabili di
“gravi errori o carenze nei confronti del soggetto appaltante”,
giustificano, a maggior ragione, la revoca o l’annullamento del provvedimento
di aggiudicazione anche comportamenti, quale quello legato alle minacce di cui
si è detto, che implicano normalmente mentalità e modalità operative
prevaricatrici tipiche della malavita organizzata e logicamente aperte, quindi,
ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tali da coinvolgere, in certa misura,
anche il rapporto di fiducia con l’Amministrazione appaltante e rispetto ai
quali l’informativa ostativa costituisce utile, necessario e legittimo mezzo
di prevenzione; si tratta, del resto, di comportamenti particolarmente
incompatibili proprio se assunti, come nella specie, in occasione dello
svolgimento di altri analoghi appalti.
6)
- Già le intrinseche novità riconducibili alla sopravvenuta condanna penale
legittimano, quindi, l’adozione della contestata informativa (mentre
irrilevante, ai fini del presente giudizio, appare l’eventuale successivo
corso della stessa vicenda penale, la legittimità degli atti impugnati potendo
essere apprezzata solo avendo riguardo al momento della loro adozione).
Agli
elementi innovativi ora detti si aggiungono, comunque, anche le dichiarazioni
rese dal pentito La Torre, alle quali nell’informativa in questione viene pure
fatto espresso riferimento.
Si
tratta, invero, delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che
aggravano un quadro già critico e che si riferiscono specificamente a fatti
correlati a pubblici appalti, in particolare, alle modalità di affidamento di
uno di essi all’odierna appellante con l’apporto determinante di un soggetto
legato alla malavita organizzata.
La
parte appellante nega che semplici dichiarazioni, in alcuna misura verificate,
rese da un non credibile (in quanto successivamente privato del trattamento di
cui alla legge n. 9/1982) collaboratore di giustizia con riferimento a
circostanze remote e genericamente addotte possano valere in alcun modo ad
aggravare il quadro che la riguarda; a tal fine, fa anche valere il fatto che il
sig. Bianco Antimo si è spontaneamente presentato innanzi al Sostituto
Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Napoli per essere sentito
quale persona offesa dal reato di estorsione, la società appellante essendo
stata vittima, si assume, e non complice del predetto pentito.
Sennonché
le dichiarazioni rese valgono, in certi limiti, ad aggravare un quadro già
modificato, in misura decisiva, dalla pubblicazione della citata sentenza,
disegnando un’ipotesi di vantaggi che l’imprenditore avrebbe conseguito, in
passato, in virtù di un appoggio da parte della malavita organizzata; ma, a ben
vedere, è lo stesso appena descritto comportamento tenuto dal Bianco a fornire,
in effetti, indicazione della sussistenza di rapporti tra il medesimo ed il
predetto “capoclan”; rapporti non certamente limpidi e trasparenti in quanto
connotati, quanto meno, da asseriti fatti estorsivi che l’interessato medesimo
riconosce essersi verificati, ma che, per anni, ha preferito non denunciare
(essendosi risolto a chiarire la propria posizione solo allorché la sussistenza
del rapporto è stata messa in luce dal predetto “pentito”); così
consolidando, peraltro, per certi versi, il convincimento stesso circa la
verosimile sussistenza di rapporti tra “capoclan” e imprenditore in qualche
modo condizionanti da tempo l’operato di quest’ultimo.
7)
– Va, poi, rigettato anche il quarto motivo dell'appello con il quale si
deduce la violazione dell'art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 490/1994 in combinato
disposto con gli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 575/98.
Ritiene,
infatti, il Collegio di ricondurre al solo interesse dell'amministrazione la
facoltà, prevista nell'art. 11 comma 3 D.P.R. n. 575/98, di revocare il
contratto o di recedervi nel caso in cui il collegamento con organizzazioni
malavitose sia accertato in corso di esecuzione, così escludendo la possibilità
della stazione appaltante di sindacare sul contenuto dell'informativa
prefettizia e limitandone l'oggetto a una valutazione di convenienza in
relazione al tempo dell'esecuzione del contratto ed alla difficoltà di trovare
un nuovo contraente se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione
ampiamente inoltrata.
La
facoltà di revoca o di recesso prevista dal comma 3 dell'art. 11 del D.P.R. n.
575/98 quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano
accertati successivamente alla stipula del contratto rappresenta specificazione
della fattispecie più generale della sopravvenienza in corso di rapporto di
elementi incompatibili con il prosieguo della sua esecuzione.
Incompatibilità
sulla quale la legge non attribuisce alcun sindacato all'amministrazione
appaltante, stante il divieto di stipulare autorizzare o approvare i contratti e
i subcontratti previsto dall'art. 10, comma 2, del D.P.R. n. 575/98, allorché,
a seguito delle verifiche disposte dal Prefetto, emergano elementi relativi a
tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate.
Tale
è la situazione determinatasi con l'informativa 30 luglio 2003, n. 47, che ha
mutato la condizione in cui si trovava la società Eredi Fratelli Bianco in
merito alla possibilità di rivestire la posizione di parte contraente con il
Comune.
8)
- Sono, poi, da respingere gli ulteriori motivi - il secondo, il quinto e il
sesto - con i quali l'operato del Prefetto viene censurato sotto l'aspetto
formale.
Non
è, anzitutto, possibile configurare come collegio perfetto il Gruppo Ispettivo
Antimafia - G.I.A. - in quanto la sua composizione non riflette professionalità
interdisciplinari e complementari tra di loro, sì da rendere ciascun componente
infungibile rispetto agli altri.
Di
conseguenza, l'assenza di uno o più componenti del G.I.A. in sede di
deliberazione non è idonea a configurare un vizio di legittimità dell'organo
(Cons. Stato, IV, 29 febbraio 2000, n. 942; 7
settembre 2000, n. 4707, 7 ottobre 1997, n. 1100).
Va
anche sottolineato che il verbale in data 7 luglio 2003 relativo all'adunanza
del G.I.A. presso l'Ufficio territoriale di governo di Napoli risulta firmato da
sette componenti e non da quattro, come invece afferma l'appellante nel motivo
in esame, che va in ogni caso respinto.
Quanto
al mancato rispetto del termine di giorni 15 entro il quale
il Prefetto avrebbe dovuto trasmettere all’Amministrazione comunale
interessata le informazioni di cui si tratta, si tratta di circostanza
irrilevante, dal momento che il termine in questione ha funzione meramente
sollecitatoria, così come dimostra il fatto che l’ordinamento non ricollega
conseguenza alcuna alla sua mancata osservanza.
Quanto
all’ultimo dei motivi dell’appello basti notare che nell'informativa 22
luglio 2003 del Prefetto di Napoli è dato espressamente atto dell'omissione
della comunicazione, all'amministratore della società, dell'avviso di avvio del
procedimento date le particolari esigenze di celerità e al fine di evitare il
pregiudizio all'interesse pubblico per la tardiva adozione del provvedimento.
Il
prefetto ha in tal modo enunciato e motivato, seppur sinteticamente, le ragioni
di urgenza che consentono l'omissione dell'avviso di avvio del procedimento con
riferimento ad esigenze di tutela immediata dell'interesse pubblico, altrimenti
compromesso a causa di un qualsiasi ritardo, come afferma la giurisprudenza
di questo Consiglio (Cons.
Stato, sez. VI, 8 aprile 2002, n. 1901;
VI, 18 dicembre 2000, n. 6744).
9)
– Per tali motivi l’appello in epigrafe appare infondato e, per l’effetto,
deve essere respinto.
Le
spese del grado possono essere integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.
il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, respinge l’appello
in epigrafe.
Spese
del grado compensate.
Ordina
che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 16 novembre 2004 e, in prosieguo,
del 28 febbraio 2005 dal Collegio costituito
dai Sigg.ri:
Agostino Elefante
Presidente
Raffaele Carboni
Consigliere
Rosalia Maria Pietronilla Bellavia
Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani
Consigliere
Cesare Lamberti
Consigliere est.
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
f.to Cesare
Lamberti
f.to Agostino Elefante
IL SEGRETARIO
DEPOSITATA
IN SEGRETERIA
IL
29 AGOSTO 2005
(Art.
55, L. 27/4/1982, n. 186)
p. IL DIRIGENTE
f.to Luciana Franchini