REPUBBLICA ITALIANA                    N. 4408/05 REG.DEC.

           IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                       N. 3428 REG:RIC.

Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,   Quinta  Sezione          ANNO  2004

ha pronunciato la seguente

decisione

sul ricorso in appello n. 3428/2004, proposto dalla società a r.l. Eredi Fratelli Bianco, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giovanni Pellegrino, Felice Laudadio, Ferdinando Scotto e Andrea Orefice ed elettivamente domiciliata in Roma, Lungotevere Flaminio n. 46, IV B, presso lo studio del sig. Gian Marco Grez;

CONTRO

il Consorzio Cimiteriale tra i comuni di Mugnano e Calvizzano, in persona del legale rappresentante pro tempore, il presidente dell'Assemblea consortile, e, per esso, il Commissario prefettizio al Comune di Mugnano di Napoli, rappresentato e difeso dall’avv. Edgardo Silvestro e con lo stesso domiciliato presso lo studio legale Iaccarino, in Roma, Lungotevere Marzio 3;

la Prefettura di Napoli, Ufficio territoriale del Governo di Napoli, in persona del Prefetto pro tempore e il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania - Napoli, Sezione I 25 marzo 2004, n. 3218/2004, che ha respinto il ricorso della società a r.l. Eredi Fratelli Bianco avverso: la determina dirigenziale 30.7.2003, n. 25 avente ad oggetto la revoca del contratto 11.12.2002, n. 1999, relativo all'appalto per il servizio di pulizia all'interno dell'area cimiteriale dei comuni di Mugnano e Calvizzano; la nota 27.7.2003 prot. n. I/14224/Gab/VI° SETT. ricevuta il 30.7.2003, n. 47; l'informativa antimafia di pari numero in data 22.7.2003;

Visto l’atto di appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consorzio Cimiteriale tra i comuni di Mugnano e Calvizzano, del Ministero dell'interno e della Prefettura di Napoli;

Viste le memorie difensive;

Visti gli atti tutti della causa;

Data per letta all’udienza del giorno 16 novembre 2004 la relazione del consigliere Cesare Lamberti.

Uditi gli avvocati F. Laudadio, A. Orefice, Gianluigi Pellegrino per delega dell’avvocato G. Pellegrino, E. Silvestro e G. Noviello, quest’ultimo presente solo nelle fasi preliminari.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

F A T T O

1) - Con determinazione dirigenziale n. 25 del 30 luglio 2003, è stato revocato alla società a r.l. Eredi Fratelli Bianco il contratto di appalto stipulato dal consorzio tra i comuni di Mugnano e Calvizzano in data 11 dicembre 2002 per il servizio di pulizia per lo smaltimento dei rifiuti speciali dell'area cimiteriale. Il provvedimento consegue alla nota trasmessa dalla prefettura di Napoli con protocollo riservato e ricevuta il 30 luglio 2003 avente ad oggetto informazioni antimafia relative all'ATI tra la società Eredi Fratelli Bianco, e la L.R.S. Trasporti s.a.s., circa l'esistenza nei confronti della società Eredi Fratelli Bianco di tentativi di infiltrazioni mafiosa da parte della criminalità organizzata tendenti a condizionarne scelte e indirizzi.

I provvedimenti sono stati impugnati dalla società innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania con tre distinti motivi, precisamente: 1) violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 490/98, dell'art. 10, D.P.R. 252/98 e dell'art. 10, l. n. 575/65. Difetto dei presupposti, carenza di istruttoria e di motivazione: non ricorreva alcuna circostanza da cui desumere in concreto che la società Eredi Fratelli Bianco avesse subito tentativi di infiltrazioni mafiosa. 2) Violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 490/98, dell'art. 10, D.P.R. 252/98 e dell'art. 10, l. n. 575/65. Violazione dell'art. 16, R.D. 2440/23. Carenza di istruttoria e di motivazione: non è stata fornita alcuna motivazione per cui è stato avviato il procedimento di revoca dell'aggiudicazione a seguito dell'informativa prefettizia, che non ha alcuna efficacia interdittiva dei rapporti con l'amministrazione. Stipulato il contratto, il Consorzio non aveva l'obbligo ma la sola facoltà di revoca che doveva essere motivata. 3) Violazione dell'art. 7, l. n. 241/90: è stata omessa la comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento. Innanzi al Tar della Campania si sono costituiti il Consorzio e il Ministero dell'interno. Dopo l'interlocutoria del Tar n. 547/2003, sono state depositate la relazione 2.9.2003 e la documentazione istruttoria, all'esito della quale, la società, in data 9.9.2003, ha notificato "bevi note" nelle quali evidenziava: la ricorrente era stata già valutata ai fini del rilascio del certificato antimafia; le opinioni circa la possibilità di infiltrazioni mafiose espresse dalla Commissione interforze sulla base degli elementi raccolti dalla Questura di Napoli e quelle in precedenza manifestate del Gruppo Ispettivo Antimafia (G:I.A.) erano contrastanti; il verbale 7.7.2003 circa il rilascio di informativa interdittiva era basato prevalentemente sulla sentenza n. 165/2003 del Tribunale di Napoli, peraltro non irrevocabile; le circostanze ulteriori non erano preclusive alla prosecuzione del rapporto contrattuale.

Il Tar della Campania, che aveva in un primo tempo sospeso i provvedimenti, ha respinto il ricorso.

2) - Ha rilevato, in particolare, il TAR che, con le censure svolte in primo grado, era stata dedotta l’illegittimità dell’informativa antimafia sfavorevole adottata nella seduta del 7 luglio 2003, cui ha fatto seguito la revoca dell’aggiudicazione, in quanto basata su elementi  di fatto che avevano già costituito oggetto di analoga valutazione da parte dello stesso G.I.A. nella precedente seduta del 6 luglio 1999, in occasione della quale si era ritenuto che, allo stato, non vi erano elementi tali da indurre al rilascio di un provvedimento negativo sulla base di quanto fornito dalle Forze dell’Ordine.

In altri termini, rilevavano i primi giudici, le censure stesse erano volte a denunciare una sorta di contraddittorietà tra due valutazioni di segno opposto, pur se espresse sulla base degli stessi elementi, evidenziando in tal senso l’impossibilità di una rinnovazione dell’attività di giudizio da parte dell’Amministrazione in assenza di un quid novi che la potesse giustificare.

Inoltre, con le dette censure di primo grado si poneva in evidenza, per i primi giudici, l’inadeguatezza, ai fini del rilascio dell’informativa ostativa, degli ulteriori elementi che il G.I.A. aveva invece ritenuto rilevanti a tal fine e, segnatamente, la sentenza del Tribunale Penale di Napoli - VII Sezione - n.165/03, nonché le dichiarazioni del Collaboratore di Giustizia Augusto La Torre, e ciò in quanto, nel primo caso, i predetti elementi avevano già costituito oggetto di valutazione in riferimento all’adozione di una misura  custodiale nell’ambito del relativo procedimento penale che, inoltre, aveva ad oggetto unicamente degli episodi di minacce; nel secondo,  poiché si sarebbe trattato di interrogatori  a cui il Prefetto non poteva avere accesso (le relative notizie, erano state, infatti, evinte da un articolo  di stampa)  e che comunque, in ogni caso, non potevano contenere  circostanze di un effettivo coinvolgimento dei fratelli Bianco  in attività   di natura mafiosa, tenuto anche conto che, fino a quel momento, il Pubblico Ministero non aveva ritenuto di estendere le indagini  in tale direzione.

Infine, ha osservato il TAR come la ricorrente avesse evidenziato che l’informativa antimafia ostativa, adottata ai sensi dell’art. 10, settimo comma, lettera c),  del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, sarebbe stata priva di adeguata motivazione laddove, invece, proprio l’ampio potere discrezionale riconosciuto al Prefetto in merito all’acquisizione degli elementi istruttori ed alla loro valutazione – a differenza delle ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell’ art. 10, settimo comma del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 - avrebbe dovuto imporre la loro puntuale illustrazione e valutazione che, comunque, nei termini in cui era stata operata, evidenziava tutti i vizi di contraddittorietà oggetto delle già illustrate doglianze.

3) - Per il TAR tali doglianze erano prive di consistenza.

I primi giudici hanno ritenuto pacifico che la motivazione del provvedimento poteva anche esprimersi attraverso  il richiamo degli esiti degli accertamenti compiuti, ritenendoli idonei al rilascio di un’informativa di segno negativo.

Nel caso in esame, ha osservato il TAR, sia nel verbale del 7 luglio 2003 che nell’atto conclusivo del 22 luglio 2003, erano stati richiamati, infatti, tutti gli accertamenti posti a fondamento dell’informativa antimafia, evidenziando anche le ragioni della valutazione negativa espressa.

Quanto all’adeguatezza di tale motivazione ed alla sua supposta contraddittorietà rispetto alla valutazione in termini non ostativi sulla base degli stessi elementi compiuta dal G.I.A. nella precedente seduta del 6 luglio 1999, hanno osservato i primi giudici che all’accoglimento della predetta censura ostassero due ordini di considerazioni, l’una in termini di principio, l’altra in punto di fatto.

In termini generali, è stato evidenziato che l’art. 10, comma 7, lettera c), del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, conferisce al Prefetto un potere di accertamento di massima ampiezza, ciò trovando giustificazione nella preminente esigenza di tutelare anche nella fase istruttoria l’interesse generale all’ordine ed alla sicurezza pubblica, e ciò anche in relazione al settore dei contratti tra mondo imprenditoriale e Pubblica Amministrazione; del resto, è stato ancora osservato, come il concetto di “tentativo di infiltrazione mafiosa” si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto alla configurazione che si ha in sede normativa di fenomeni criminali di stampo associativo mafioso, e ciò sia nell’ambito del processo penale che del procedimento volto all’adozione di misure di prevenzione – non dovendosi dimenticare che sovente la sussistenza del tentativo di infiltrazione prescinde dall’accertamento della sua genesi, limitandosi a verificare solo se l’impresa costituisca comunque uno strumento, anche per interposta persona, di ingerenza da parte di organizzazioni criminali in specifici  rapporti con l’Amministrazione Pubblica -  così anche il relativo potere di accertamento da parte del Prefetto si caratterizza per l’estrema duttilità dei mezzi all’uopo destinati che possono assumere, in pratica, qualsiasi forma.

Sotto il primo profilo della contraddittorietà non hanno dubitato, in particolare, i primi giudici del fatto che l’Amministrazione – nel caso di specie il Prefetto – potesse riconsiderare e rivalutare degli elementi di fatto oggetto di una sua precedente valutazione, pervenendo a conclusioni diverse rispetto a quelle a cui era giunta in precedenza; tale considerazione deve essere ritenuta, per il TAR, come uno dei principi fondamentali dell’azione amministrativa, inquadrantesi pienamente, del resto, nell’ambito della generale potestà di autotutela.

E’ parimenti vero – osserva, ancora, il TAR - che, seppur all’Amministrazione non è preclusa in linea di principio la possibilità di rinnovare il proprio giudizio, ciò deve pur sempre avvenire in presenza di presupposti che legittimino una tale iniziativa; nella materia in esame, pertanto, non si può escludere che il Prefetto non possa riesaminare – giungendo ad opposte conclusioni - gli stessi elementi che in precedenza avevano costituito oggetto di una valutazione in senso non ostativo al rilascio di un’informativa antimafia, anche se ciò deve pur sempre avvenire in presenza dell’acquisizione di determinate circostanze che possano giustificare l’emanazione di nuovo giudizio: in tal caso, oggetto di rinnovazione saranno tutti gli elementi, sia quelli precedenti che quelli nuovi – questi ultimi anche in funzione giustificativa della nuova valutazione – che convergeranno nella nuova informativa.

Tale conclusione, del resto, è anche avvalorata, ad avviso dei primi giudici, dalla costante necessità di aggiornamento da parte degli Uffici preposti agli accertamenti e dalla dinamica evolutiva dei fenomeni criminali di stampo associativo, anche sotto il profilo del consolidamento delle ipotesi di reato che trovano conferma nelle verifiche compiute in sede  processuale  e procedimentale  e  nei continui sviluppi delle investigazioni a cura  delle Autorità preposte.

Non è quindi possibile, prosegue la sentenza appellata, creare delle cesure tra elementi già valutati ed all’epoca eventualmente ritenuti insufficienti e nuovi accertamenti, per ritenere che solo su questi ultimi l’Amministrazione potrà esprimere il proprio eventuale giudizio negativo: il nuovo giudizio, come, del resto, correttamente evidenziato dal G.I.A. nella seduta del 7 luglio 2003, potrà (ed anzi dovrà) fondarsi su tutti gli elementi a disposizione, perché solo in tale ottica si potrà effettivamente e compiutamente verificare  se un’impresa subisca condizionamenti di tipo mafioso.

4) - Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea sotto ogni profilo perché, contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici, sia il provvedimento sindacale che quello prefettizio su cui il primo acriticamente si fonda sarebbero illegittimi per difetto di ogni valida ed esauriente istruttoria e motivazione.

In particolare, sul rigetto del primo motivo del ricorso in primo grado, deduce la violazione dell'art. 10 del D.P.R. n. 252/98 e dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94; e, invero, sarebbero contraddittori gli assunti del G.I.A. presso la Prefettura di Napoli, che in un primo tempo aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle forze dell'ordine non consentivano l'informativa ostativa e poi mutato opinione, a fronte di fatti successivi che sarebbero del tutto inidonei a fondare un diverso orientamento sui tentativi d'infiltrazione mafiosa.

Quanto ai motivi contenuti nelle “brevi note notificate” in primo grado e disattesi dal TAR (secondo motivo d’appello),  si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 490/94 e del D.P.R. n. 252/98, nonché l’omessa pronuncia su un punto decisivo: la dedotta irrituale composizione del Gruppo Ispettivo Antimafia; il verbale del G.I.A., inoltre, sarebbe stato acriticamente recepito dal Prefetto e la sentenza appellata nulla avrebbe addotto sulla relativa censura d'illegittimità.

Ancora sul rigetto del primo motivo del ricorso in primo grado (terzo motivo dell’appello), la sentenza del Tribunale penale di Napoli n. 165/2003 avrebbe fatto riferimento a fatti assolutamente non riconducibili ad ipotesi di collegamento con la criminalità organizzata; quanto alle dichiarazioni del pentito La Torre, le stesse sarebbero state ritenute, di fatto, inconsistenti dallo stesso pubblico ministero che non ha ritenuto di estendere l’indagine ai rappresentanti dell’impresa.

Sul rigetto del secondo motivo del ricorso in primo grado (quarto dell’appello), si ribadisce la censura secondo cui non sarebbe stata fornita alcuna ragione giustificativa, da parte del Comune appellato, della revoca dell'aggiudicazione, necessaria trattandosi delle revoca di un appalto già in corso.

Sul rigetto, poi, del terzo motivo dell’originario ricorso (quinto motivo del presente gravame), si denuncia il fatto che erroneamente i primi giudici avrebbero disatteso la censura di violazione dell’art. 4 del D. Lgs. n. 490/1994, correlata alla violazione del termine massimo di giorni quindici entro il quale il Prefetto avrebbe dovuto trasmettere all’Amministrazione comunale interessata le informazioni di cui si tratta.

Sulla reiezione, infine, del quarto motivo dell’originario ricorso, si censura  la sentenza appellata (con il sesto motivo del presente appello) nella parte in cui ha ritenuto insussistente la violazione del disposto di cui agli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, laddove illegittimamente non sarebbe stata consentita, da parte delle appellate Amministrazioni, la partecipazione al procedimento dell’interessata, nonostante il carattere sfavorevole del provvedimento conclusivo.

5) - Resiste il Comune appellato che insiste per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza appellata.

Chiede il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza qui gravata anche il Ministero dell’Interno, che ribadisce la piena correttezza dell’impugnata nota prefettizia.

Con memorie conclusionali le parti ribadiscono i rispettivi assunti difensivi.

D I R I T T O

1) – L’odierna appellante ha impugnato innanzi al TAR la determinazione dirigenziale n. 25 del 30 luglio 2003, con cui era stata disposta la revoca del contratto 11.12.2002, n. 1999, relativo all'appalto per il servizio di pulizia all'interno dell'area cimiteriale dei comuni di Mugnano e Calvizzano a causa della ritenuta sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 8 agosto 1994, n. 490.

Il TAR ha respinto il ricorso avendo ritenuto corretto sia l’operato del Comune che quello del Prefetto che ne ha costituito necessario presupposto (l’informativa antimafia di cui alla nota prefettizia datata 22 luglio 2003, prot. n. I/14224/GAB/VI).

La Società appellante censura la sentenza ora detta sotto tutti i profili.

In particolare, sul rigetto del primo motivo del ricorso in primo grado, deduce l’appellante la violazione dell'art. 10 del D.P.R. n. 252/98 e dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94; e, invero, sarebbero contraddittori gli assunti del G.I.A. presso la Prefettura di Napoli, che in un primo tempo aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle forze dell'ordine non consentivano l'informativa ostativa e poi mutato opinione, a fronte di fatti successivi che sarebbero del tutto inidonei a fondare un diverso orientamento sui tentativi d'infiltrazione mafiosa (non potendo assegnarsi rilevanza, si assume, alla sentenza penale n. 165/2003 - resa con riguardo a fatti già noti nel 1999 -  e, inoltre, accordarsi rilevanza, in assenza di alcuno specifico accertamento da parte degli organi prefettizi, alle dichiarazioni – non verificate – di un collaboratore di giustizia.

 Quanto ai motivi contenuti nelle “brevi note notificate” in primo grado e disattesi dal TAR (secondo motivo d’appello),  si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 490/94 e del D.P.R. n. 252/98, nonché l’omessa pronuncia su un punto decisivo: la dedotta irrituale composizione del Gruppo Ispettivo Antimafia; il verbale del G.I.A., inoltre, sarebbe stato acriticamente recepito dal Prefetto e la sentenza appellata nulla avrebbe addotto sulla relativa censura d'illegittimità.

Ancora sul rigetto del primo motivo del ricorso in primo grado (terzo motivo dell’appello), la sentenza del Tribunale penale di Napoli n. 165/2003 avrebbe fatto riferimento a fatti assolutamente non riconducibili ad ipotesi di collegamento con la criminalità organizzata; quanto alle dichiarazioni del pentito La Torre, le stesse sarebbero state ritenute, di fatto, inconsistenti dallo stesso pubblico ministero che non ha ritenuto di estendere l’indagine ai rappresentanti dell’impresa.

Sul rigetto del secondo motivo del ricorso in primo grado (quarto dell’appello), si ribadisce la censura secondo cui non sarebbe stata fornita alcuna ragione giustificativa, da parte del Comune appellato, della revoca dell'aggiudicazione, necessaria trattandosi delle revoca di un appalto già in corso; il Comune stesso, inoltre – avendo non l’obbligo, ma, si assume, la semplice facoltà di adottare il provvedimento di revoca in questione – avrebbe dovuto, prima di provvedere, quanto meno chiedere chiarimenti anche direttamente alla parte interessata.

Sul rigetto, poi, del terzo motivo dell’originario ricorso (quinto motivo del presente gravame), si denuncia, in primo luogo, il fatto che erroneamente i primi giudici avrebbero disatteso la censura di violazione dell’art. 4 del D. Lgs. n. 490/1994, correlata alla violazione del termine massimo di giorni quindici entro il quale il Prefetto avrebbe dovuto trasmettere all’Amministrazione comunale interessata le informazioni di cui si tratta.

Sulla reiezione, infine, del quarto motivo dell’originario ricorso, si censura  la sentenza appellata (con il sesto motivo del presente appello) nella parte in cui ha ritenuto insussistente la violazione del disposto di cui agli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, laddove illegittimamente non sarebbe stata consentita, da parte delle appellate Amministrazioni, la partecipazione al procedimento dell’interessata, nonostante il carattere sfavorevole del provvedimento conclusivo.

Prima di procedere all’esame delle singole censure ora dette appare utile svolgere alcune premesse di carattere generale.

2) - L'informativa prefettizia è stata emanata ai sensi dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94 e dell'art. 10 del D.P.R. n. 252/98 per effetto delle conclusioni raggiunte dal Gruppo Ispettivo Antimafia nella seduta del 7 luglio 2003, su richiesta del Comune della verifica antimafia nei confronti della società Eredi Fratelli Bianco, aggiudicataria dell'appalto.

Nel corso dell'istruttoria disposta dalla Prefettura di Napoli sono state acquisite le note in data 25 marzo 2003, n. 0351714/13-4, del Comando Provinciale Carabinieri di Napoli, e in data 31 marzo 2003, n. 13596/AE/MPS, della Questura di Napoli.

Il Prefetto ha richiamato la propria precedente istruttoria, in particolare il decreto n. I/2088/ANTIMAF del 18.9.1997, con il quale erano state disposte verifiche a carico della società ex artt. 1 e 1-bis del D.L. n. 629/82 ed ha ritenuto che l'attuale informativa rispondesse ad esigenze di prevenzione e che la valutazione richiesta tenesse conto di elementi indiziari che trovavano fondamento anche nella specifica situazione ambientale in cui si sviluppava l'azione imprenditoriale della società.

Con riferimento alle disposizioni applicate dal Prefetto e dal Comune, il Collegio osserva che la facoltà di revoca o recesso deriva direttamente dall'effetto interdittivo dell'informativa prefettizia, nel quadro dell'obbligo imposto alle amministrazioni appaltanti dall'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94 di acquisire le informazioni circa i tentativi di infiltrazione mafiosa prima di procedere alla stipula di contratti o emanare i provvedimenti autorizzatori e concessori di cui all'art. 10 della legge n. 575/1965.

Secondo l'art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 490/94 le amministrazioni, cui siano fornite le informazioni del Prefetto, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti o procedere al rilascio di autorizzazioni o concessioni quando gli elementi circa i tentativi di infiltrazione siano accertati prima della loro emanazione. Nei casi di urgenza o di indagini particolarmente complesse, è facoltà delle amministrazioni, revocare le autorizzazioni e le concessioni o recedere dal contratto quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula.

Diversamente dall'incapacità speciale ad essere destinatari di provvedimenti autorizzatori o concessori oppure ad essere contraenti con le amministrazioni o enti pubblici, comminata dall'art. 10, della legge n. 575/1965 ai soggetti nei cui confronti sia stata applicata con provvedimento definitivo una misura di prevenzione, l'interdizione prevista dall'art. 4 del D.Lgs. n. 490/1994 riveste efficacia preventiva e cautelativa e vieta la costituzione del contratto in relazione al quale è richiesta ed emanata l'informativa del prefetto.

L'effetto cautelativo che consegue alle informazioni evita che le amministrazioni o gli enti rilascino concessioni ed erogazioni ovvero procedano alla stipula dei contratti e dei subcontratti indicati all'art. 10 della legge n. 575/1965 nei confronti di persone fisiche, imprese, associazioni, società e consorzi che pur non essendo destinatari di misure di prevenzione, possano essere condizionati nelle scelte ed indirizzi e quindi prestarsi a tentativi di infiltrazione mafiosa nell'ambito della loro attività economica.

Il D.Lgs. n. 490/94 che prevede l'applicazione di tali misure, rappresenta attuazione della legge n. 47/1994, di delega al riordino delle comunicazioni e certificazioni antimafia già contenute nella legge n. 575/1965. In particolare, le lett. c) e d) dell'art. 1 comma 1 della legge di delega n. 47/1994 distinguono i casi in cui, a seconda di limiti di valore, il contratto può essere stipulato dietro semplice dichiarazione degli interessati circa l'inesistenza di provvedimenti di prevenzione dai casi in cui ne è vietata la stipula se non dopo l'acquisizione delle complete informazioni rilasciate dal prefetto, circa l'insussistenza, nei confronti loro e dei familiari conviventi, delle cause di decadenza o di divieto previste dalla medesima legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni, ovvero di tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate tendenti a condizionarne le scelte e gli indirizzi.

Delle due ipotesi, la prima trova completa disciplina nell'ordito originario della legge n. 575/65, la seconda è stata introdotta, nel quadro degli emendamenti di cui al decreto legge n. 306/1992 (legge di conversione n. 356/92), dall'art. 3-quater, circa la ricorrenza di sufficienti indizi per ritenere che l'esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo 416-bis del codice penale o che possa, comunque, agevolare l'attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione di cui all'articolo 2, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti indicati nel comma 2.

Da tale evenienza discende per l'autorità penale l'onere di emanare i provvedimenti di sua competenza e per l'amministrazione il divieto di contrattare o di proseguire nell'attività contrattuale.

Per ciò che attiene alle informazioni sul condizionamento malavitoso delle attività d'impresa, l'art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 490/94 ha generalizzato l'obbligo delle amministrazioni di acquisirle prima di stipulare i contratti o rilasciare le autorizzazioni o concessioni che superino i limiti di valore ivi contenuti.

L'informativa del Prefetto ha efficacia interdittiva al perfezionamento del negozio o all'emanazione del provvedimento, stante il divieto dell'art. 4 del D.Lgs. n. 490/94 di stipulare contratti o rilasciare concessioni o provvedimenti attributivi di altre utilità a soggetti collegati con ambienti della malavita organizzata.

L'acquisizione dell'informativa è inderogabile, salvi i casi di lavori o forniture di somma urgenza o di indagini di particolare complessità, che non ne permettano il tempestivo rilascio ai sensi dell'art. 4, comma 6, D.Lgs. n. 490/98.

È in questo caso attribuita all'amministrazione la facoltà di recesso con il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute, qualora l'accertamento della causa d'incompatibilità sopravviene in corso di rapporto.

Nel dare esecuzione della normativa delegata, il D.P.R. n. 252/98 ha precisato, all'art. 10, le fonti da cui il Prefetto può trarre le informazioni e notizie circa le situazioni in cui si ravvisi il tentativo di infiltrazione mafiosa e l'ambito di discrezionalità rilevante ai fini dell'emanazione dell'informativa ed ha esteso, all'art. 11, la facoltà di revoca e di recesso al sopravvenire degli elementi relativi ai tentativi di infiltrazione dopo la stipula del contratto, anche nelle ipotesi estranee alla particolare complessità delle indagini o alla somma urgenza.

In particolare, l'art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 252/98 ha stabilito che il sopravvenire, durante il suo svolgersi, di circostanze incompatibili con la prosecuzione del rapporto per il condizionamento malavitoso dell'attività dell'impresa, comporta la revoca del contratto qualora accertato a mezzo dell'informativa del prefetto, il cui effetto interdittivo opera evidentemente in modo automatico e senza che l'amministrazione possa sindacarne i contenuti.

Ciò premesso, può passarsi all’esame dei singoli motivi d’appello.

3) - Dei motivi dell’appello, da esaminare secondo il loro ordine logico, appiono infondati il primo e il terzo che rappresentano sviluppo dell'unica censura svolta avverso l'informativa del prefetto, e il quarto, appuntato nei confronti del provvedimento comunale di revoca dell'appalto.

Comune alle prime due censure è l'insufficienza del quadro indiziario a sorreggere l'informativa del Prefetto, sia perché contrastante con le valutazioni effettuate dal Gruppo Ispettivo Antimafia presso la Prefettura di Napoli, sia perché assolutamente insufficiente a ricondurre l'attività dei soci, e, in particolare del sig. Bianco Antimo, ad ipotesi di collegamento con ambienti della criminalità organizzata.

Va precisato, in punto di fatto, che con proprio decreto del 18 settembre 1997 il Prefetto di Napoli, in sede di valutazione della richiesta di informativa antimafia presentata dai comuni di Falciano del Massico e di Mugnano circa i tentativi di infiltrazione cammorristica all'interno della società Fratelli Bianco, aveva ritenuto opportuno di disporre, tramite una commissione interforze, ulteriori accertamenti ai sensi degli artt. 1 e 1-bis d.l. 629/1982, in esito ai quali la commissione, nella comunicazione del 7 aprile 1998, non aveva escluso l'ipotesi che nella gestione della società vi potessero essere infiltrazioni camorristiche, sia per i rapporti di parentela fra il coniuge di Bianco Antimo e il pluripregiudicato Giacomo Migliaccio, sia perché presso la sede della società era parcheggiata un'autovettura il cui proprietario aveva rapporti con clan camorristici locali.

Sempre nei confronti del Bianco, l'informativa 15 giugno 1999 della Questura di Napoli aveva segnalato che egli era stato tratto in arresto e successivamente sottoposto agli arresti domiciliari perché ritenuto responsabile, in concorso con altri, dei reati di cui all'art. 513-bis c.p. e che era sospettato di riciclaggio di danaro, anche se non era risultato alcun esito dagli accertamenti in punto. A carico dei familiari di Di Stazio Vincenzo, amministratore della società, erano poi stati rinvenuti precedenti per violazione di norme in materia di detenzione di armi, lesioni, usura e altri reati. Ciononostante, nel verbale 6 luglio 1999, il Gruppo Ispettivo Antimafia aveva ritenuto che gli elementi forniti dalle Forze dell'ordine non consentivano di rilasciare informativa ostativa, anche se lo stesso Gruppo Ispettivo aveva ritenuto necessario svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti sui soggetti collegati alla società per individuare l'eventuale presenza di un imprenditore occulto.

Dell'esito di tali accertamenti è dato atto nel verbale 7 luglio 2003 del Gruppo Ispettivo Antimafia, nel quale, unitamente alla condanna del Bianco di cui alla sentenza n. 165/03, si fa anche riferimento alle informazioni fornite dalla Questura di Napoli con note 31 marzo 2003, n. 13596, e 25 marzo 2003, n. 0351714/13/4, e alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Augusto La Torre.

Nella prima delle predette sedi si riferisce che il Bianco è stato condannato – con la citata sentenza n. 165/2003 - per illecita concorrenza con minaccia in relazione ad una gara d'appalto per l'affidamento del servizio per la rimozione di rifiuti solidi urbani all'interno della base NATO; nella seconda si confermano, tra l'altro, i rapporti di parentela del coniuge con taluni esponenti dei clan camorristici della zona e si segnala che tra i dipendenti dell'impresa vi è stato anche il sig. Pagnani Giovanni, di recente arrestato per i reati di cui all'art. 416-bis, 611 e 629, comma 2, c.p. e che i fratelli Bianco avevano preso parte ad una riunione il 15 giugno 1995 con alcuni pregiudicati della zona (interrotta a seguito dell'intervento del Commissariato di zona); nella terza si rende noto che la società Fratelli Bianco si era aggiudicata l'appalto per la rimozione dei rifiuti solidi nel comune di Falciano del Massico con la collaborazione del predetto “capoclan” della camorra organizzata.

4) - Ciò premesso, è da escludere che l'insieme degli elementi ora portati non sia sufficiente a sorreggere l'informativa del Prefetto sotto l'aspetto del sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle in precedenza valutate in quanto non sarebbe sopravvenuto alcun aggravamento del quadro indiziario rispetto al verbale del G.I.A. del 6 luglio 1999.

Va ribadito, infatti, che nel rendere le informazioni richieste dal Comune ai sensi dell'art. 10, comma 7, lett. c), del D.P.R. n. 252/98, il Prefetto non deve basarsi su specifici elementi (come avviene per gli accertamenti effettuati ai sensi delle lett. a) e b), ma effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni.

L'ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata dalla finalità preventiva del provvedimento cui cospirano, giustifica che il Prefetto possa ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza - quali una condanna non irrevocabile, collegamenti parentali con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti - ma che, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l'attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni camorristiche.

Nell'istruttoria avviata ex art. 10 del D.P.R. n. 252/98 era emerso che il Migliaccio (cui il Bianco era legato da rapporti di parentela) era sospettato di trarre i mezzi di sostentamento anche da introiti dell'azienda durante la latitanza (nota CC. 25 marzo 2003 n. 0351714/13-4) e che con sentenza n. 165/2003 i fratelli Giuseppe e Antimo Bianco erano strati condannati per i delitti di cui agli artt. 110, 81, cpv. e 513 bis c.p. perché in concorso fra loro e nell'esercizio, attraverso la ditta Eredi Fratelli Bianco, di attività commerciale, compivano in tempi diversi atti di concorrenza con violenza e minaccia.

Nella successiva nota dell'UTG 16 settembre 2003 veniva tra l'altro richiamata l'attenzione sull'ordinanza n. 293/00 del 28 agosto 2000 e sulle dichiarazioni rese nell'ambito dello svolgimento del processo "Artemide" dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, che avrebbe fornito elementi circa il collegamento della società ricorrente con il sodalizio a lui facente capo ed operante in Mondragone; in particolare, si evidenziava – come già ricordato - che il capo di un “clan” camorristico sarebbe riuscito a fare aggiudicare una gara di appalto relativo allo smaltimento di rifiuti ad una ditta di Antimo Bianco.

L'insieme di siffatti elementi è stato ribadito nella nota 5 aprile 2004 della Prefettura di Napoli acquisita in via istruttoria della Sezione nel corso della fase cautelare inerente ad un giudizio analogo al presente (appello n. 3428/2004).

5) - Ebbene, ritiene la Sezione che la nota del Prefetto dianzi indicata (e che ha costituito l’unico presupposto giuridico-fattuale su cui si sono fondati i provvedimenti comunali, non avendo il Comune svolto un’autonoma istruttoria ed essendosi, sul piano motivo, richiamato semplicemente alla detta nota prefettizia) fosse il frutto di una corretta e soddisfacente attività istruttoria e fosse corredata da idonea motivazione, con la conseguenza che non possono essere condivise le censure mosse dall’originaria ricorrente e odierna appellante all’operato degli organi dell’Ufficio Territoriale di Governo e alla sentenza che ne ha ritenuto la piena conformità alla disciplina di settore.

Non può escludersi, infatti, in linea di principio, che fatti e circostanze nuovi e rilevanti possano assegnare una differente colorazione e un più pregnante significato ad una serie di elementi in precedenza già valutati e che, in sè e per sè considerati, non abbiano consentito, in un primo tempo, in quanto privi di sufficiente e autonoma consistenza, di pervenire all’emanazione di una informativa ostativa per il soggetto interessato.

Si tratta allora di verificare, in concreto, se i fatti nuovi presi in considerazione dall’amministrazione potessero o meno, sul piano logico, giustificare, nella specie, l’informativa di cui si tratta.

Ritiene il Collegio che l’informativa stessa sia legittima, i nuovi elementi posti a supporto della radicale modificazione degli apprezzamenti operati nel 1999 supportando, infatti, sufficientemente le nuove, negative valutazioni, oggetto della presente impugnativa.

Se è vero, infatti, che le note degli organi di pubblica sicurezza nulla aggiungono a quanto già segnalato ai fini dell’informativa del 1999, limitandosi, nella sostanza, a richiamare le stesse circostanze già all’epoca segnalate, è anche vero che la sentenza del giudice penale n. 165/2003, nell’escludere che, nei comportamenti criminosi di talun rappresentante dell’impresa fossero riconoscibili forme di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, non di meno evidenziava la pericolosità di comportamenti – minacce alla incolumità di altri imprenditori legate direttamente alla gestione degli appalti di servizi – che, normalmente, connotano anche i tentativi di infiltrazione mafiosa.

È apparso grave e significativo, in altre parole, ai fini di cui si tratta, che i rappresentanti di un’impresa chiamata ad esperire un pubblico appalto potessero avere minacciato un altro imprenditore solo perché interessato a conseguire l’affidamento di un altro appalto in relazione al quale gli autori delle minacce non volevano, evidentemente, avere concorrenti.

Premesso che l'attinenza delle minacce alla gara d'appalto per la raccolta dei rifiuti della base NATO emerge inequivocabilmente dal capo d'imputazione a carico dei fratelli Bianco e dall'affermazione riportata testualmente a pag. 16 della sentenza, dalla quale il Tribunale ha tratto il convincimento sull'esistenza del reato di minacce perpetrato, può osservarsi, anzitutto, che, sul piano della ricostruzione logica degli elementi a sostegno dell'informativa, tale presupposto non appare smentito alla dichiarazione rilasciata dal Comando NATO sulla corretta esecuzione del servizio da parte della società appellante; la possibilità di collegamento con associazioni malavitose di un'impresa esecutrice di un'opera o di un servizio non necessariamente deve impingere, infatti, sulla corretta esecuzione del medesimo, trattandosi di evenienze prive di alcun reciproco legame.

Il comportamento imputato ai fratelli Antimo e Giuseppe Bianco dal giudice penale ragionevolmente è stato rivisto, poi, dall’autorità competente, quale indice o manifestazione di pericolo di infiltrazione mafiosa, le minacce destinate a far deflettere i potenziali contendenti dal concorrere ad una gara d’appalto costituendo ordinario sintomo di comportamenti propri della malavita organizzata.

E, in quest’ottica, il fatto che sia intervenuta una condanna in sede di giudizio penale è valso a consolidare e concretizzare quello che, in precedenza – e, in particolare, nel corso degli apprezzamenti operati nel 1999 – era stato rivisto come un comportamento non ancora connotato da crismi di sufficiente certezza tali da portare ed emanare l’informativa ostativa.

Con la conseguenza che l’informativa ostativa oggetto del presente giudizio deve essere ritenuta sufficientemente supportata da un quid novi, di significativa rilevanza, che ne giustifica l’adozione e che consolida significativamente  i dubbi già in precedenza emersi.

Se, del resto, non possono partecipare a pubbliche gare operatori responsabili di “gravi errori o carenze nei confronti del soggetto appaltante”, giustificano, a maggior ragione, la revoca o l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione anche comportamenti, quale quello legato alle minacce di cui si è detto, che implicano normalmente mentalità e modalità operative prevaricatrici tipiche della malavita organizzata e logicamente aperte, quindi, ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tali da coinvolgere, in certa misura, anche il rapporto di fiducia con l’Amministrazione appaltante e rispetto ai quali l’informativa ostativa costituisce utile, necessario e legittimo mezzo di prevenzione; si tratta, del resto, di comportamenti particolarmente incompatibili proprio se assunti, come nella specie, in occasione dello svolgimento di altri analoghi appalti.

6) - Già le intrinseche novità riconducibili alla sopravvenuta condanna penale legittimano, quindi, l’adozione della contestata informativa (mentre irrilevante, ai fini del presente giudizio, appare l’eventuale successivo corso della stessa vicenda penale, la legittimità degli atti impugnati potendo essere apprezzata solo avendo riguardo al momento della loro adozione).

Agli elementi innovativi ora detti si aggiungono, comunque, anche le dichiarazioni rese dal pentito La Torre, alle quali nell’informativa in questione viene pure fatto espresso riferimento.

Si tratta, invero, delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che aggravano un quadro già critico e che si riferiscono specificamente a fatti correlati a pubblici appalti, in particolare, alle modalità di affidamento di uno di essi all’odierna appellante con l’apporto determinante di un soggetto legato alla malavita organizzata.

La parte appellante nega che semplici dichiarazioni, in alcuna misura verificate, rese da un non credibile (in quanto successivamente privato del trattamento di cui alla legge n. 9/1982) collaboratore di giustizia con riferimento a circostanze remote e genericamente addotte possano valere in alcun modo ad aggravare il quadro che la riguarda; a tal fine, fa anche valere il fatto che il sig. Bianco Antimo si è spontaneamente presentato innanzi al Sostituto Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Napoli per essere sentito quale persona offesa dal reato di estorsione, la società appellante essendo stata vittima, si assume, e non complice del predetto pentito.

Sennonché le dichiarazioni rese valgono, in certi limiti, ad aggravare un quadro già modificato, in misura decisiva, dalla pubblicazione della citata sentenza, disegnando un’ipotesi di vantaggi che l’imprenditore avrebbe conseguito, in passato, in virtù di un appoggio da parte della malavita organizzata; ma, a ben vedere, è lo stesso appena descritto comportamento tenuto dal Bianco a fornire, in effetti, indicazione della sussistenza di rapporti tra il medesimo ed il predetto “capoclan”; rapporti non certamente limpidi e trasparenti in quanto connotati, quanto meno, da asseriti fatti estorsivi che l’interessato medesimo riconosce essersi verificati, ma che, per anni, ha preferito non denunciare (essendosi risolto a chiarire la propria posizione solo allorché la sussistenza del rapporto è stata messa in luce dal predetto “pentito”); così consolidando, peraltro, per certi versi, il convincimento stesso circa la verosimile sussistenza di rapporti tra “capoclan” e imprenditore in qualche modo condizionanti da tempo l’operato di quest’ultimo.

7) – Va, poi, rigettato anche il quarto motivo dell'appello con il quale si deduce la violazione dell'art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 490/1994 in combinato disposto con gli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 575/98.

Ritiene, infatti, il Collegio di ricondurre al solo interesse dell'amministrazione la facoltà, prevista nell'art. 11 comma 3 D.P.R. n. 575/98, di revocare il contratto o di recedervi nel caso in cui il collegamento con organizzazioni malavitose sia accertato in corso di esecuzione, così escludendo la possibilità della stazione appaltante di sindacare sul contenuto dell'informativa prefettizia e limitandone l'oggetto a una valutazione di convenienza in relazione al tempo dell'esecuzione del contratto ed alla difficoltà di trovare un nuovo contraente se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata.

La facoltà di revoca o di recesso prevista dal comma 3 dell'art. 11 del D.P.R. n. 575/98 quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto rappresenta specificazione della fattispecie più generale della sopravvenienza in corso di rapporto di elementi incompatibili con il prosieguo della sua esecuzione.

Incompatibilità sulla quale la legge non attribuisce alcun sindacato all'amministrazione appaltante, stante il divieto di stipulare autorizzare o approvare i contratti e i subcontratti previsto dall'art. 10, comma 2, del D.P.R. n. 575/98, allorché, a seguito delle verifiche disposte dal Prefetto, emergano elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate.

Tale è la situazione determinatasi con l'informativa 30 luglio 2003, n. 47, che ha mutato la condizione in cui si trovava la società Eredi Fratelli Bianco in merito alla possibilità di rivestire la posizione di parte contraente con il Comune.

8) - Sono, poi, da respingere gli ulteriori motivi - il secondo, il quinto e il sesto - con i quali l'operato del Prefetto viene censurato sotto l'aspetto formale.

Non è, anzitutto, possibile configurare come collegio perfetto il Gruppo Ispettivo Antimafia - G.I.A. - in quanto la sua composizione non riflette professionalità interdisciplinari e complementari tra di loro, sì da rendere ciascun componente infungibile rispetto agli altri.

Di conseguenza, l'assenza di uno o più componenti del G.I.A. in sede di deliberazione non è idonea a configurare un vizio di legittimità dell'organo (Cons. Stato, IV, 29 febbraio 2000, n. 942;  7 settembre 2000, n. 4707, 7 ottobre 1997, n. 1100).

Va anche sottolineato che il verbale in data 7 luglio 2003 relativo all'adunanza del G.I.A. presso l'Ufficio territoriale di governo di Napoli risulta firmato da sette componenti e non da quattro, come invece afferma l'appellante nel motivo in esame, che va in ogni caso respinto.

Quanto al mancato rispetto del termine di giorni 15 entro il quale il Prefetto avrebbe dovuto trasmettere all’Amministrazione comunale interessata le informazioni di cui si tratta, si tratta di circostanza irrilevante, dal momento che il termine in questione ha funzione meramente sollecitatoria, così come dimostra il fatto che l’ordinamento non ricollega conseguenza alcuna alla sua mancata osservanza.

Quanto all’ultimo dei motivi dell’appello basti notare che nell'informativa 22 luglio 2003 del Prefetto di Napoli è dato espressamente atto dell'omissione della comunicazione, all'amministratore della società, dell'avviso di avvio del procedimento date le particolari esigenze di celerità e al fine di evitare il pregiudizio all'interesse pubblico per la tardiva adozione del provvedimento.

Il prefetto ha in tal modo enunciato e motivato, seppur sinteticamente, le ragioni di urgenza che consentono l'omissione dell'avviso di avvio del procedimento con riferimento ad esigenze di tutela immediata dell'interesse pubblico, altrimenti compromesso a causa di un qualsiasi ritardo, come afferma la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2002, n. 1901; VI, 18 dicembre 2000, n. 6744).

9) – Per tali motivi l’appello in epigrafe appare infondato e, per l’effetto, deve essere respinto.

Le spese del grado possono essere integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, respinge l’appello in epigrafe.

Spese del grado compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 16 novembre 2004 e, in prosieguo, del 28 febbraio 2005 dal Collegio costituito dai Sigg.ri:

Agostino Elefante                                Presidente

Raffaele Carboni                                   Consigliere

Rosalia Maria Pietronilla Bellavia         Consigliere

Chiarenza Millemaggi Cogliani                Consigliere

Cesare Lamberti                                  Consigliere est.

L'ESTENSORE                             IL PRESIDENTE

f.to Cesare Lamberti                                  f.to Agostino Elefante

 

IL SEGRETARIO

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

IL 29 AGOSTO 2005

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

p. IL  DIRIGENTE

f.to Luciana Franchini