REPUBBLICA ITALIANA    N. 5325/05  REG.DEC.

         IN NOME DEL POPOLO ITALIANO     N. 2817 REG.RIC.

Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,  Sezione Quinta          ANNO  1997 

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. r.g. 2817/1997, proposto dal dr. Felice Armenise, rappresentato e difeso dall’avv. Nunzio Canta ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Gilberto Cerutti, in Roma, via Crescenzio n. 58;

contro

il Comune di Bari, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dal prof. avv. Vincenzo Caputi Jambrenghi ed elettivamente domiciliato in Roma, via Picardi n. 4/B, presso il dr. Nicola Ragni;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Puglia, sede di Bari, Sez. II, n. 633 del 9 ottobre 1996, resa tra le parti e non notificata;

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune appellato;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti di causa;

Relatore alla pubblica udienza del 18 gennaio 2005 il cons. Nicola Russo;

Uditi gli avv.ti N. Canta per l’appellante e A. Clarizia, presente nella sola fase delle preliminari su delega dell’avv. V. Caputi Jambrenghi, per l’Amministrazione appellata;

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

F A T T O

Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Bari, il dr. Felice Armenise, premesso:

- che con deliberazioni n. 956/80 e n. 811/81, approvate dalla Commissione centrale per la finanza locale in data 3 giugno 1982, il Comune di Bari aveva approvato il piano di riorganizzazione degli uffici e dei servizi municipali, in ottemperanza al disposto della legge n. 299 del 1980;

- che con deliberazioni n. 1116 e n. 1118 del 1984 l’Amministrazione comunale aveva approvato il nuovo regolamento organico del personale nonché le norme di attuazione del piano di ristrutturazione e le tabelle di inquadramento nelle qualifiche funzionali di cui al d.PR. n. 347 del 1983;

- che, in particolare, aveva inquadrato i vice direttori di ripartizione e i direttori di settore nella I^ qualifica dirigenziale, diversificando le due posizioni con il conferimento ai primi della indennità di funzione relativa alla II^ qualifica dirigenziale;

- che, però, a seguito di atto di controllo negativo, era poi stata costretta ad inquadrare i direttori di settore nella VIII^ qualifica funzionale, conservando per i vice direttori di ripartizione la I^ qualifica dirigenziale;

- che, successivamente, a seguito delle sentenze n. 705 e n. 706 del 1986, con le quali il TAR Puglia aveva accolto i ricorsi proposti da impiegati in possesso della qualifica di “direttore di settore” avverso il suddetto atto negativo di controllo, il Comune di Bari aveva rivisto l’inquadramento di tale personale attribuendo loro nuovamente la I^ qualifica dirigenziale;

- che il ricorrente, titolare della qualifica di “vice direttore di ripartizione”, rilevando la necessità di una differenziazione di posizioni giuridico-economiche tra i direttori di settore e i vice direttori di ripartizione, in data 7 novembre 1986 aveva inoltrato istanza di inquadramento nella II^ qualifica dirigenziale;

- che, inerte l’Amministrazione, in data 7 luglio 1987 aveva notificato atto di diffida a provvedere, cui il Comune di Bari non aveva dato riscontro alcuno nel termine fissato dal ricorrente medesimo;

tanto premesso, ritenendo essersi formato il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione sull’istanza a provvedere notificata nelle forme di legge, l’interessato proposto ricorso dinanzi al Tribunale predetto, deducendo:

- “Violazione ed erronea applicazione dei principi informatori del d.P.R. n. 347/1983, nonché dell’art. 36 Cost. - Eccesso di potere per contraddittorietà rispetto alla declaratoria dei profili professionali di cui all’all. A alla delibera n. 1118/84”; essendo stato disposto l’inquadramento dei direttori di settore nella I^ qualifica dirigenziale, apparirebbe contrastante con i principi dei d.P.R. n. 347 del 1983, nonché con l’art. 36 della Costituzione, l’attribuzione della stessa posizione funzionale al personale in possesso della qualifica di “vice direttore di ripartizione”, il cui diverso rilievo nella gerarchia comunale imporrebbe una diversificazione giuridica ed economica al momento non sussistente; andrenne, infatti, considerato che le competenze del vice direttore di ripartizione implicano il coordinamento dell’attività dei “settori”, in posizione sopraordinata ai preposti a questi ultimi e, pertanto, andrebbe attribuita ai vice direttori di ripartizione la II^ qualifica dirigenziale, mentre per differenziarne la collocazione rispetto ai direttori di ripartizione si potrebbe riconoscere ai primi una indennità di dirigenza di minore entità (quella propria della I^ qualifica dirigenziale).

Il ricorrente concludeva, dunque, per l’annullamento del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione e per il conseguente accertamento del diritto all’inquadramento nella II^ qualifica dirigenziale, con l’attribuzione della indennità correlata alla I^ qualifica dirigenziale o, in subordine, con l’attribuzione di un trattamento retributivo intermedio tra la I^ e la II^ qualifica dirigenziale.

Si costituiva in giudizio il Comune di Bari, resistendo al gravame ed eccependo, in particolare, l’inammissibilità del ricorso per inesistenza dell’obbligo di provvedere in materia essendo stati emanati provvedimenti definitivi rimasti inoppugnati, sicché il silenzio-rffiuto non si sarebbe formato.

Con sentenza n. 633 del 9 ottobre 1996, l’adito T.A.R. Puglia, sede di Bari, Sez. II^, dichiarava inammissibile il ricorso, ritenendo non sussistente l’obbligo di provvedere sull’istanza del privato “ove questa concerna situazioni in relazione alle quali sono stati emanati provvedimenti amministrativi rimasti inoppugnati e quindi consolidatisi” e ritenendo altresì priva di “rilievo la circostanza - evidenziata dal ricorrente in sede di memoria difensiva - dell’esito favorevole dell’azione giudiziaria promossa da taluni dipendenti del Comune di Bari in possesso della sua medesima qualifica”.

Avverso tale sentenza, non notificata, il dr. Armenise ha proposto appello, con ricorso notificato il 3 marzo 1997 e depositato il 26 marzo successivo, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia e chiedendone l’annullamento, con ogni conseguente statuizione, anche in ordine alle spese del doppio grado di giudizio.

Resiste all’appello il Comune di Bari, che chiede la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, il rigetto dell’appello, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

In vista dell’udienza di discussione le parti hano depositato memorie, con le quali hanno ulteriormente illustrato e ribadito il contenuto delle proprie domande, eccezioni e deduzioni difensive, replicando alle tesi avversarie ed insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate.

Alla pubblica udienza del 18 gennaio 2005 la causa è stata trattenuta in decisione.

D I R I T T O

E’ impugnata la sentenza del T.A.R. Puglia, Bari, n. 633 del 1996, meglio indicata in epigrafe, che ha dichiarato inammissibile il ricorso col quale il dr. Felice Armenise aveva impugnato il silenzio-rifiuto che assumeva essersi formato per effetto dell’inerzia del Comune di Bari sulla domanda di revisione della posizione funzionale (I^ qualifica dirigenziale) attribuitagli quale “vice direttore di ripartizione”, lamentando, ai sensi dell’art. 40 del d.P.R. n. 347 del 1983 e tenuto conto dell’avvenuto inquadramento nella I^ qualifica dirigenziale anche del personale in possesso della qualifica di “direttore di settore”, l’illegittima coincidenza di trattamento giuridico-retributivo assegnato ai due profili considerati - anche in considerazione di quanto statuito dal medesimo Tribunale con sentenza n. 705 del 1986 - sì da rendere doverosa l’ascrizione del “vice direttore di ripartizione” alla II^ qualifica dirigenziale.

Il T.A.R. ha accolto l’eccezione dell’Amministrazione resistente di inammissibilità del ricorso, ritenendo non sussistente l’obbligo di provvedere sull’istanza del privato ove questa concerna situazioni in relazione alle quali sono stati emanati provvedimenti amministrativi rimasti inoppugnati e quindi consolidatisi.

L’appellante contesta tale sentenza sotto i profili della erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, della contraddittorietà rispetto ad altra pronuncia dello stesso T.A.R. (n. 4/1990) e della ingiustizia manifesta.

L’appello è infondato.

Come correttamente statuito dai primi giudici, in materia di pubblico impiego, per il principio di certezza dei diritti, non è configurabile alcun dovere dell’Amministrazione di provvedere su istanze di dipendenti intese ad ottenere, direttamente o indirettamente, modifiche di inquadramenti già adottati e divenuti inoppugnabili (cfr., Cons. St., Sez. IV, 6 febbraio 1995, n. 51), potendo in tali casi l’interessato unicamente sollecitare l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione, che, però, non ha alcun obbligo di rispondere alla domanda di riesame (cfr. Cons. St., Sez. V, 28 aprile 1995, n. 622), essendo l’Amministrazione in linea di principio libera di verificare se l’inoppugnabilità delle proprie precedenti determinazioni meriti di essere superata da successive valutazioni, che tengano conto anche del decorso del tempo e dell’esigenza di certezza dei rapporti di diritto pubblico (cfr. Cons. St., Sez. V, 18 gennaio 1995, n. 89). In tali casi la sussistenza dell’obbligo di provvedere sull’istanza del privato per il solo fatto della probabile illegittimità dell’atto inoppugnato, ovvero la concessione al privato della possibilità di imporre all’Amministrazione il riesame dell’atto attraverso il meccanismo del silenzio-rifiuto, implicherebbe l’indebita introduzione di uno strumento di sistematica elusione del regime decadenziale dei termini di impugnazione degli atti amministrativi di tipo autoritativo (cfr. Cons. St., Sez. IV, 5 settembre 1990, n. 634).

Costituisce, dunque, un principio ormai consolidato, cui si è uniformato il giudice di prime cure, quello secondo il quale, l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere sulle istanze degli amministrati non sussiste quando essa si sia già espressa con provvedimento divenuto inoppugnabile, poiché in tale evenienza la domanda - indipendentemente dalle motivazioni che la sostengono - assume la sostanza di una richiesta di riesame della determinazione precedentemente assunta, volta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, rispetto al quale non è ontologicamente configurabile la procedura del silenzio-rifiuto (cfr. Cons. St., Sez. IV, 23 febbraio 2004, n. 2315), che costituirebbe una vanificazione dei termini di impugnazione degli atti amministrativi (cfr. Cons. St., Sez. V, 20 gennaio 2004, n. 149).

Ne deriva, quindi che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere espressamente in relazione ad eventuali sollecitazioni postume rispetto all’ormai avvenuto inquadramento (cfr. Cons. St., Sez. IV, 30 dicembre 2003, n. 9212).

L’appellante, inoltre, ritiene manifestamente illegitima la sentenza impugnata per erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, giacché l’adito T.A.R. avrebbe definito inammissibile il ricorso senza considerare che il “diritto - interesse deve invece ritenersi leso in termini di attualità e di conseguenziale interesse a ricorrere nel momento in cui, per la sopravvenuta massificazione di inquadramento determinata dalla esecuzione delle pronunzie 705 e 706/86, veniva posta nel nulla la differenziazione gerarchica” (cfr. pag. 14 ricorso in appello).

Tale circostanza non esclude, a ben vedere, l’inammissibilità del ricorso originario, atteso che le nuove determinazioni adottate dall’Amministrazione concludente, che si assumono lesive ed emanate in ottemperanza alle sentenze nn. 705 e 706 del 1986, pur essendo note sin dal novembre 1986 (data di notifica dell’istanza), non sono mai state impugnate dal ricorrente, odierno appellante.

Pertanto, come legittimamente ritenuto dal T.A.R. adito, “non essendo controverso che la domanda inevasa concerne situazioni definite con atti non più impugnabili ... ed essendo altresì pacifico che la rilevata insussistenza dell’obbligo di provvedere esclude la configurabilità del silenzio-rifiuto denunciato dall’istante”, il ricorso andava dichirato inammissibile.

L’odierno appellante con il primo ricorso ha, in realtà, introdotto due distinte azioni: annullamento del silenzio-rifiuto serbato dall’Amministrazione appellata e accertamento del diritto all’inquadramento superiore.

Ora, considerato che gli atti di inquadramento hanno natura autoritativa ed incidono su interessi legittimi, che oggetto del giudizio è il comportamento lesivo di un interesse legittimo e, poiché secondo “la vigente legislazione ed il costante orientamento giurisprudenziale non può essere proposta un’azione di accertamento del contenuto di un provvedimento che deve essere emanato da una Amministrazione, il giudice amministrativo deve limitarsi a dichiarare l’obbligo della Amministrazione di provvedere sulla istanza e non può in sede di legittimità accertare se l’istante abbia titolo, in concreto, al richiesto inquadramento, sicché la relativa domanda deve essere respinta” (cfr. Cons. St., Sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4455).

Sicché, la posizione giuridica soggettiva del pubblico dipendente che vanti la pretesa all’inquadramento in una determinata qualifica si configura come interesse legittimo azionabile attraverso l’impugnazione del provvedimento autoritativo che lo inquadra diversamente o che, comunque, gli nega il chiesto inquadramento, con conseguente inammissibilità dell’azione tesa al mero accertamento del diritto (cfr. Cons. St., Sez. V, 12 novembre 2003, n. 7234; Cons. St., Sez. IV, 21 gennaio 2003, n. 212).

Il T.A.R. ha respinto il ricorso proposto dal dr. Armenise anche sotto il profilo della palese inammissibilità della domanda relativa all’estensione nei suoi confronti degli effetti della sentenza n. 4/90, pronunciata dallo stesso T.A.R. nei confronti di altri ricorrenti e passata in giudicato: la statuizione è corretta, atteso che, com’è noto, tale estensione costituisce esercizio di un potere ampiamente discrezionale della pubblica Amministrazione e non adempimento di un obbligo specifico, a fronte del quale, comunque, non è dato rinvenire “posizioni di pretesa azionabili in sede di giudizio di legittimità” (cfr. Cons. St., Sez. lV, 24 maggio 2004, n. 3370; Cons. St., Sez. VI, 14 aprile 2004, n. 2101).

Ora l’appellante nel tentativo di ottenere una pronuncia a sé favorevole in appello dichiara di non aver richiesto al giudice di prime cure l’estensione del giudicato, ma di aver voluto semplicemente evidenziare un precedente giurisprudenziale a sè favorevole.

Tale tesi è priva di pregio.

Nel presente giudizio di appello il dr. Armenise deduce l’illegittimità della sentenza impugnata - tra l’altro - per contraddittorietà rispetto ad altra pronuncia ed ingiustizia manifesta, proprio perché il primo giudice non avrebbe tenuto conto della portata - e degli effetti - della citata decisione n. 4/90.

E’, pertanto, evidente che anche in questa sede il dr. Armenise in contrasto con le disposizioni normative in materia nonché con i principi che informano l’ordinamento, richiede nient’altro che l’estensione degli effetti della sentenza n. 4/90, passata in giudicato: estensione che, invece, costituisce per l’Amministrazione esercizio di un potere ampiamente discrezionale e non adempimento di un obbligo specifico.

Ciò, del resto, è del tutto conforme ai precedenti insegnamenti di questo Consiglio, secondo cui il provvedimento illegittimo, lesivo di un interesse privato meritevole di tutela deve essere impugnato dal titolare di quell’interesse dinanzi al giudice amministrativo, nel prescritto termine di decadenza, per ottenerne l’annullamento; in caso contrario, la situazione di illegittimità si consolida nei confronti dell’interessato, il quale non ha titolo per giovarsi dell’annullamento giurisdizionale dell’atto provocato dal ricorso di un diverso soggetto, a seguito di un processo nel quale il primo non ha assunto la qualità di parte (cfr. Cons. St., Sez.V, 25 febbraio 2003, n. 1016).

E’ vero che, come rilevato dai primi giudici, secondo un certo indirizzo, la pubblica Amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi sull’istanza presentata dal dipendente per il riesame della propria posizione di stato, pur se divenuta inoppugnabile per decorrenza del termine decadenziale, ove a seguito di un mutato orientamento interpretativo, confortato da pronunce giurisprudenziali, la stessa Amministrazione abbia modificato in senso favorevole la posizione di altri dipendenti in situazioni analoghe (cfr. Cons. St., Sez. VI, 18 ottobre 1995, n. 1127; Cons. St., Sez. IV, 14 aprile 1994, n. 334). Senonché, come pure sottolineato dal Tribunale, nella fattispecie non emergono elementi di fatto che giustifichino il richiamo a tali precedenti giurisprudenziali. Non assume rilievo, in particolare, la circostanza relativa all’esito favorevole dell’azione giudiziaria promossa da taluni dipendenti del Comune di Bari in possesso della medesima qualifica del ricorrente, in quanto desumerne un obbligo di pronuncia sull’istanza del privato significherebbe rendere doverosa l’estensione ultra partes degli effetti del giudicato, in contrasto con il comune convincimento per il quale trattasi di un potere ampiamente discrezionale e non di adempimento di uno specifico obbligo, con esclusione di una pretesa giuridicamente rilevante in capo ai terzi interessati all’estensione del giudicato (cfr. Cons. St., Sez. VI, 3 dicembre 1994, n. 1731), e con conseguente inconfigurabilità di un obbligo di provvedere sull’istanza a tal fine proposta.

Alla base di tale orientamento, come fondatamente rilevato dal giudice di primo grado, in definitiva, vi è la considerazione che l’Amministrazione è sempre tenuta a perseguire l’interesse pubblico, che si concreta anche nella realizzazione del principio di imparzialità garantito dall’art. 97 Cost., onde è bene che essa valuti sempre l’opportunità di rivedere situazioni che, seppur definite, si prestano ad essere modificate nel senso sollecitato dal privato, fermo restando però che tale obbligo non è altro che l’obbligo generale di buona amministrazione, che non implica il dovere giuridico di rispondere ad una richiesta di un privato, dovere che può essere affermato solo in presenza di atti dovuti (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 1° aprile 1992, n. 201), o a fronte di decisioni ingiustificatamente discriminatorie dell’Amministrazione in sede di ridefinizione delle posizioni occupate dai dipendenti in seno all’istituzione (cfr., Cons. St., Sez. IV, 14 novembre 1986, n. 730).

Per le suesposte considerazioni l’appello in esame deve, pertanto, essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti delle spese, competenze ed onorari del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione V – definitivamente pronunciando sul ricorso in appello n. 2817/1997, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 gennaio 2005, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, con l’intervento dei Signori:

Agostino Elefante   Presidente

Raffaele Carboni   Consigliere

Cesare Lamberti   Consigliere

Claudio Marchitiello  Consigliere

Nicola Russo   Consigliere, rel. est. 

   L’ESTENSORE    IL PRESIDENTE

f.to Nicola Russo     f.to Agostino Elefante 

IL SEGRETARIO

f.to Rosi Graziano 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 5 ottobre 2005

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186) 

PER IL  DIRIGENTE

f.to Livia Patroni Griffi

  N°. RIC .2817/1997

FDG