REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano 

Registro Decis.: 3580/05

            Registro Gen.: 2127/2004  

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Seconda Sezione di Lecce, nelle persone dei signori Magistrati:

ANTONIO CAVALLARI, Presidente 

TOMMASO CAPITANIO, Referendario, relatore

CLAUDIO CONTESSA, Referendario

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

A) sul ricorso n. 2127/2004, proposto da T.I.M. Italia S.p.A., in persona del procuratore speciale avv. Concetta Capotorti, rappresentata e difesa dall’avv. Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo, in Lecce, Via 95° Reggimento Fanteria, 9,

contro

Comune di Lecce, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Maria Luisa De Salvo ed Elisabetta Ciulla, con domicilio eletto in Lecce, presso la Casa Comunale, Settore Avvocatura, 

per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione,

 

B) sul ricorso per motivi aggiunti, proposto da T.I.M. Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa come sopra,

contro

Comune di Lecce, rappresentato e difeso come sopra, 

per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,

 

Visto il ricorso, i relativi allegati e tutti gli atti di causa;

Vista la domanda di sospensione della esecuzione dei provvedimenti impugnati, presentata in via incidentale dalla società ricorrente;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Lecce;

Vista l’ordinanza n. 1384/04 in data 1/12/2004 della Sez. I del TAR, con cui è stata accolta la domanda cautelare proposta unitamente al ricorso;

Visto il ricorso per motivi aggiunti, notificato il 29/3/2005 e depositato il 7/4/2005, e la domanda cautelare con esso proposta;

Vista l’ordinanza della Sezione 28/4/2005, n. 401, con cui è stata disposta istruttoria;

Uditi nella Camera di Consiglio del 1° giugno 2005 il relatore, Ref. Tommaso Capitanio, e, per le parti, gli avv. Sticchi Damiani e Ciulla  

Considerato che nel ricorso introduttivo sono dedotti i seguenti motivi:

mentre nel ricorso per motivi aggiunti sono dedotti i seguenti vizi:

 

Considerato che:

Con il ricorso originario, Telecom Italia Mobile S.p.A. aveva impugnato la nota con cui il Comune aveva sospeso sine die l’istanza ex art. 87 D. Lgs. n. 259/2003, presentata dalla società in data 31/5/2004 al fine di conseguire il titolo abilitativo all’installazione di una SRB nel territorio comunale, alla via Leuca, n. 90, e ciò al dichiarato fine di verificare la conformità dell’intervento al Regolamento comunale sulle antenne, adottato nel frattempo dal C.C. leccese. Adita in sede cautelare, la Sez. I di questo Tribunale, con l’ordinanza n. 1384/2004, aveva ordinato al Comune di concludere il procedimento entro 60 giorni, ritenendo illegittima la sospensione a tempo indeterminato del procedimento stesso.

Con nota del 14/2/2005, il Comune ha negato espressamente l’autorizzazione richiesta dalla società ricorrente, sul presupposto che l’impianto avrebbe dovuto essere collocato in un sito a ciò precluso in base al combinato disposto fra l’art. 9 punto 3 e l’art. 10 punti c) ed e) del citato Regolamento.

Con ricorso per motivi aggiunti, T.I.M. Italia S.p.A. (nel frattempo succeduta a Telecom Italia Mobile S.p.A.) ha impugnato la predetta nota, e insieme il Regolamento presupposto, deducendo i seguenti motivi (che, a questo punto, sono gli unici che rilevano ai fini dell’esame del Tribunale, in quanto la diffida del luglio 2004 è stata superata dal provvedimento negativo espresso):

1. Non è certo revocabile in dubbio il fatto che la diffusione della telefonia mobile abbia rappresentato, a partire dall’inizio degli anni ’90 del XX secolo, una delle rivoluzioni tecnologiche e sociali più rilevanti dell’epoca moderna, e ciò sia per le aziende e gli imprenditori, sia per i comuni cittadini, tanto da cambiare radicalmente le abitudini di vita delle moderne società. Ovviamente, la telefonia mobile ha aperto enormi possibilità di business, e, come sempre accade in questi casi, la progressiva diffusione della telefonia cellulare ha comportato la necessità, per le aziende del settore, di installare su tutto il territorio nazionale le antenne e gli altri impianti necessari per la copertura del servizio, non essendo ovviamente utili i vecchi impianti per la telefonia fissa, i quali sfruttano il sistema tradizionale del cavo (che raggiunge fisicamente l’abitazione o la sede aziendale dell’utente, mentre la telefonia cellulare si basa sulla trasmissione via etere del segnale, il che permette di poter usare l’apparecchio telefonico pressoché in ogni luogo). Altrettanto naturalmente, la diffusione esponenziale dei predetti impianti sul territorio ha fatto sorgere nella comunità scientifica e nella popolazione dubbi e paure circa i possibili effetti negativi per la salute umana, legati all’esposizione delle persone alle emissioni prodotte dalle c.d. stazioni radio base (SRB) e dagli altri impianti per la telefonia cellulare, che vengono disseminati anche a breve distanza dalle abitazioni, dagli uffici, dalle scuole, dai luoghi di cura e così via. La scienza, al riguardo, pur avendo ravvisato pericoli potenziali per la salute umana, non è ancora riuscita a pronunciare una parola definitiva e tranquillizzante, essendosi divisa fra coloro che, cifre alla mano, affermano l’esistenza di precise relazioni statistiche fra incremento di malattie tumorali ed esposizione alle emissioni elettromagnetiche e coloro che – sempre sulla base di analisi statistiche - negano la dimostrabilità di tali nessi.

2. Ed è a questo punto che interviene il Legislatore (in questa sede si intende quello nazionale, anche se non bisogna dimenticare che sul punto esistono direttive comunitarie che regolano la controversa materia delle emissioni di onde elettromagnetiche), il cui primo intervento significativo (tralasciando i DPCM 23 aprile 1992 e 28 settembre 1995 e la L. 6 agosto 1990, n. 223, aventi portata settoriale) è contenuto nella L. 31 luglio 1997, n. 249 (recante “Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo”), e precisamente nell’art. 1, comma 6, let. a), n. 15, secondo cui l’Autorità, fra le altre cose, “…vigila sui tetti di radiofrequenze compatibili con la salute umana e verifica che tali tetti, anche per effetto congiunto di più emissioni elettromagnetiche, non vengano superati, anche avvalendosi degli organi periferici del Ministero delle comunicazioni…”. La stessa norma prosegue affermando che “…Il Ministero dell'ambiente, d'intesa con il Ministero della sanità e con il Ministero delle comunicazioni, sentiti l'Istituto superiore di sanità e l'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente (ANPA), fissa entro sessanta giorni i tetti di cui al presente numero, tenendo conto anche delle norme comunitarie…”. Proprio in base a tale delega, il successivo D.M. n. 381/1998 del Ministero dell’Ambiente, d’intesa con i Ministeri della Sanità e delle Telecomunicazioni, ha provveduto a fissare i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, limiti notevolmente più rigidi di quelli vigenti negli altri Paesi europei.

Tuttavia, l’intervento più significativo a livello sistematico è rappresentato dalla successiva L. 22 febbraio 2001, n. 36, non a caso definita dallo stesso Legislatore “legge quadro”, che, oltre a rinviare ad un successivo DPCM la fissazione dei limiti di esposizione alle emissioni (la delega, come è noto, è stata esercitata con il DPCM 8 luglio 2003, che però non contiene novità sostanziali rispetto al D.M. n. 381/1998), interviene anche sul riparto di competenze, in subiecta materia, fra i vari enti territoriali di cui si compone la Repubblica. La questione (che poi assume rilevanza decisiva nel presente giudizio ed in numerosi altri, in cui sono state sollevate analoghe censure) scaturisce dal fatto che gli interventi che gli operatori di telefonia mobile debbono realizzare per installare i propri impianti incidono innanzitutto, in quanto lato sensu edilizi, in maniera più o meno pesante, sull’assetto del territorio (quindi toccano una materia di competenza dei Comuni), dall’altro attengono anche alla tutela della salute, ossia ad una materia che, pur non essendo per l’ordinario attribuita alla competenza dei Comuni, incentra su di sé l’attenzione delle comunità locali. Per cui, le amministrazioni comunali (alle quali è attribuito il potere di autorizzare o vietare l’installazione degli impianti per cui è causa) si trovano quotidianamente fra due fuochi: da un lato, la protesta popolare (che spesso, a onor del vero, si nutre anche della disinformazione), dall’altro, le inevitabili pressioni degli operatori commerciali del settore (i quali, oltre a tutelare il proprio diritto di iniziativa economica, hanno anche la necessità tecnica, come si è detto in precedenza, di posizionare in maniera diffusa i propri impianti, al fine di assicurare il servizio) e degli utenti del servizio di telefonia mobile (ossia, la stessa popolazione che si duole del proliferare delle antenne, o comunque una parte cospicua di essa, che chiede un miglioramento del servizio).

Pertanto, cercando di conciliare nel modo più soddisfacente possibile tali opposte esigenze, la L. n. 36/2001 ha individuato i livelli territoriali di competenza, in relazione ai vari aspetti coinvolti dal problema in esame. A tal proposito, il Legislatore (art. 3 della legge) ha individuato alcuni concetti-chiave, in relazione ai quali sono poi attribuite le competenze; tali concetti sono il “limite di esposizione” (definito come il valore di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico che non deve essere superato in alcun caso, essendo finalizzato ad evitare effetti acuti nella popolazione), il “valore di attenzione” (ossia il valore di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico che non deve superato in alcuni particolari ambiti – abitazioni, scuole, e così via – essendo finalizzato ad evitare i rischi di lungo periodo) e gli “obiettivi di qualità” (che comprendono sia i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, sia i valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico, definiti dallo Stato, ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione ai campi stessi).

   La legge, quindi, attribuisce:

3. E sono proprio queste norme ad aver dato la stura al notevole contenzioso che si è sviluppato sia di fronte alla Corte Costituzionale, sia di fronte alla giurisdizione amministrativa, e che ha ad oggetto soprattutto la definizione esatta dei compiti che, in subiecta materia, spettano, rispettivamente, allo Stato, alle Regioni ed ai Comuni.

Questo contenzioso è stato poi “arricchito” dalle questioni inerenti la corretta applicazione delle norme che il successivo D. Lgs. 259/2003 – emanato in base alla delega contenuta nell’art. 41 della L. 1° agosto 2002, n. 166 e resosi indispensabile a seguito della declaratoria di incostituzionalità del precedente D. Lgs. n. 198/2002 – ha introdotto al fine, fra gli altri, di garantire la “…riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per la installazione delle infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241…” (art. 41, comma 2, let. a), n. 4 della L. n. 166/2002). La disciplina recata dal c.d. Codice delle Comunicazioni, infatti, deve essere raccordata con quella recata sia dal DPR 6 giugno 2001, n. 380, sia, nel caso in cui vengano in evidenza questioni relative alla tutela dei beni paesaggistici e/o culturali, dal D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, ed è stato proprio questo il maggior problema incontrato dalle autorità comunali, le quali hanno oscillato fra un’applicazione integrale della disciplina urbanistico-edilizia anche agli interventi per cui è causa (in tal modo obliterando del tutto le disposizioni del D. Lgs. n. 259/2003) e un’applicazione non del tutto lineare delle disposizioni recate dal Codice delle Comunicazioni (soprattutto con riferimento all’iter procedimentale finalizzato al rilascio del titolo abilitativo – art. 87 del D. Lgs. n. 259/2003).

Tale modo di procedere, però, ha esposto i Comuni a prevedibili ricorsi giurisdizionali da parte degli operatori della telefonia mobile, i quali hanno avuto gioco facile nel censurare le indubbie contraddizioni ed incertezze riscontrate nell’operato degli enti locali (una delle situazioni che si è verificata più spesso – anche nel presente giudizio - è, ad esempio, proprio la sospensione a tempo indeterminato del procedimento autorizzatorio, giustificata con l’esigenza di verificare la conformità dell’intervento ai regolamenti di cui, nel frattempo, le amministrazioni comunali stanno tentando faticosamente di dotarsi).

La Corte Costituzionale, come è noto, oltre che con la sentenza 1° ottobre 2003, n. 303 (con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’intero D. Lgs. n. 198/2002) è intervenuta con altre due importanti pronunce, ossia la sentenza 7 ottobre 2003, n. 307 e la sentenza 7 novembre 2003, n. 331.

Nella prima (relativa al giudizio di legittimità costituzionale di alcune leggi regionali – fra cui la L.R. pugliese n. 5/2002 - adottate nell’esercizio della delega di cui alla L. n. 36/2001), la Corte ha esaminato preliminarmente la questione di fondo posta dai suindicati criteri di riparto delle competenze, e cioè “…se i valori-soglia (limiti di esposizione, valori di attenzione, obiettivi di qualità definiti come valori di campo), la cui fissazione è rimessa allo Stato, possano essere modificati dalla Regione, fissando valori-soglia più bassi, o regole più rigorose o tempi più ravvicinati per la loro adozione…”. Ebbene, nella sentenza la Corte ha chiarito che la ratio di tale fissazione non consiste esclusivamente nella tutela della salute dai rischi dell'inquinamento elettromagnetico (ché, in questo caso, potrebbe essere considerato ammissibile un intervento delle Regioni che stabilisse limiti più rigorosi rispetto a quelli fissati dallo Stato, in coerenza con il principio, proprio anche del diritto comunitario, che ammette deroghe alla disciplina comune, in specifici territori, con effetti di maggiore protezione dei valori tutelati – Corte Cost., sentenze n. 382 del 1999 e n. 407 del 2002), bensì nella necessità di addivenire ad un equo contemperamento di due contrapposti interessi (da un lato, la protezione della salute della popolazione dagli effetti negativi delle emissioni elettromagnetiche - e da questo punto di vista la determinazione delle soglie deve risultare fondata sulle conoscenze scientifiche ed essere tale da non pregiudicare il valore protetto -, dall'altro, la realizzazione degli impianti e delle reti rispondenti a rilevanti interessi nazionali, come quelli che fanno capo alla distribuzione dell'energia e allo sviluppo dei sistemi di telecomunicazione), i quali, secondo la Corte, “…ancorché non resi espliciti nel dettato della legge quadro in esame, sono indubbiamente sottesi alla considerazione del « preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee » che, secondo l'art. 4 comma 1 lett. a, della legge quadro, fonda l'attribuzione allo Stato della funzione di determinare detti valori-soglia. In sostanza, la fissazione a livello nazionale dei valori-soglia, non derogabili dalle Regioni nemmeno in senso più restrittivo, rappresenta il punto di equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l'impatto delle emissioni elettromagnetiche, e di realizzare impianti necessari al paese, nella logica per cui la competenza delle Regioni in materia di trasporto dell'energia e di ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente, vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato…”.

Infine, per quanto concerne le discipline localizzative e territoriali, la Consulta ha ritenuto che “… A questo proposito è logico che riprenda pieno vigore l'autonoma capacità delle Regioni e degli Enti locali di regolare l'uso del proprio territorio, purché, ovviamente, criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l'insediamento degli stessi...”.

Nella sentenza n. 331/2003, invece, la Corte ha esaminato la questione di legittimità costituzionale di due distinte leggi della Regione Lombardia, la prima delle quali aveva introdotto, in aggiunta al criterio del limite di immissione – fissato dalla L. n. 36/2001 – quello della distanza minima fra sorgente di emissione e luogo di immissione, mentre la seconda aveva stabilito il divieto di installare le SRB direttamente sugli edifici destinati ad ospitare ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido. In questo caso, la Consulta ha ritenuto illegittima la prima disposizione (sul presupposto che “…Per far fronte alle esigenze di protezione ambientale e sanitaria dall'esposizione a campi elettromagnetici, il Legislatore statale, con le anzidette norme fondamentali di principio, ha prescelto un criterio basato esclusivamente su limiti di immissione delle irradiazioni nei luoghi particolarmente protetti, un criterio che è essenzialmente diverso da quello stabilito (sia pure non in alternativa, ma in aggiunta) dalla legge regionale, basato sulla distanza tra luoghi di emissione e luoghi di immissione.

Né, a giustificare il tipo di intervento della legge lombarda, è sufficiente il richiamo alla competenza regionale in materia di governo del territorio, che la legge quadro, al numero 1) della lettera d) dell'art. 3, riconosce quanto a determinazione dei « criteri localizzativi ». A tale concetto non possono infatti ricondursi divieti come quello in esame, un divieto che, in particolari condizioni di concentrazione urbanistica di luoghi specialmente protetti, potrebbe addirittura rendere impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformandosi così da « criteri di localizzazione » in « limitazioni alla localizzazione », dunque in prescrizioni aventi natura diversa da quella consentita dalla citata norma della legge n. 36. Questa interpretazione, d'altra parte, non è senza una ragione di ordine generale, corrispondendo a impegni di origine europea e all'evidente nesso di strumentalità tra impianti di ripetizione e diritti costituzionali di comunicazione, attivi e passivi…”), mentre ha ritenuto compatibile con la legislazione statale la seconda (affermando che “…Il divieto ora in questione…… non eccede l'ambito di un « criterio di localizzazione », sia pure formulato in negativo, la cui determinazione, a norma dell'art. 3 comma 1 lettera d) n. 1) e dell'art. 8 comma 1 lettera e) della legge quadro, spetta alle Regioni. Esso, infatti, a differenza di quello contenuto nell'art. 3 comma 12 lettera a) della legge reg. n. 4 del 2002, precedentemente esaminato, comporta la necessità di una sempre possibile localizzazione alternativa, ma non è tale da poter determinare l'impossibilità della localizzazione stessa…”).

La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ha imboccato decisamente un percorso interpretativo che limita il potere di intervento dei Comuni nella materia per cui è causa, e ciò sotto vari profili.

In alcuni casi, è stata stigmatizzata la mancata valutazione delle specifiche situazioni locali e la mancata acquisizione di dati tecnici e scientifici da porre a base dell’eventuale diniego dell’installazione delle SRB (così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 3 giugno 2002, n. 3095 e 26 agosto 2003, n. 4841); in altri casi, è stato ritenuto illegittimo l’operato del Comune che aveva applicato alle SRB gli stessi limiti di altezza previsti dal regolamento comunale per gli edifici (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 24 novembre 2003, n. 7725, in cui si afferma che non è “…ammissibile l'applicazione analogica di limiti in materia di altezza dettati con riferimento a diverse strutture e manufatti di rilievo urbanistico ed edilizio. In assenza di specifiche prescrizioni deve ritenersi che la realizzazione degli impianti predetti [ossia le SRB] non sia soggetta a prescrizioni urbanistico edilizie preesistenti, dettate con riferimento ad altre tipologie di opere, elaborate quindi con riferimento a possibilità di diversa utilizzazione del territorio, nell'inconsapevolezza del fenomeno della telefonia mobile e dell'inquinamento elettromagnetico in generale…”); in un numero cospicuo di pronunce è stato infine affrontato il problema del rapporto fra la normativa edilizia e il Codice delle Comunicazioni, problema che si è posto in relazione alla diffusa prassi dei Comuni di richiedere ai gestori della telefonia mobile documentazione ulteriore rispetto a quella prevista dall’art. 87 del D. Lgs. n. 259/2003 (la questione sembra essere definitivamente chiarita dalla recentissima sentenza della Sez. VI, 21 gennaio 2005, n. 100, in cui il Consiglio di Stato ha ritenuto che la realizzazione delle SRB è subordinata solo all’autorizzazione di cui al citato art. 87, non occorrendo quindi il permesso di costruire di cui al T.U. sull’edilizia).

In generale, emerge dalla giurisprudenza il principio per cui ai Comuni sarebbe precluso, in particolare, adottare disposizioni regolamentari che, sotto le mentite spoglie di prescrizioni edilizio - urbanistiche, siano finalizzate in realtà a limitare l’installazione delle SRB per ragioni riconducibili a finalità di tutela della salute umana; a tal proposito, e salvo qualche rara eccezione (ad esempio, TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 24 ottobre 2001, n. 2007; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 6 marzo 2002, n. 1027), è consolidata l’affermazione per cui sarebbe illegittimo il regolamento comunale ex art. 8, comma 6, della L. n. 36/2001 che, pur contenendo prescrizioni tipicamente urbanistiche (altezze, distanze, ecc.), sia in realtà funzionale alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo e non già al governo del territorio (Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2997, che ha annullato la citata sentenza del TAR Puglia, Sez. I di Lecce, n. 1027/2002).

4. Fatta questa lunga e doverosa premessa, occorre a questo punto affrontare ex professo i due aspetti principali della questione relativa alla portata ed ai limiti del potere regolamentare che la L. n. 36/2001 indiscutibilmente attribuisce ai Comuni, e cioè:

  1. se è possibile adottare i regolamenti in argomento in assenza di un previo intervento regionale, ai sensi dell’art. 8 della L. n. 36/2001;
  2. in quali ambiti il regolamento comunale può spingersi e quali sono, al contrario, i territori riservati in esclusiva alla fonte di rango superiore. Inoltre, una volta delimitato l’ambito riservato all’intervento comunale, a quali principi deve obbedire la normazione regolamentare all’uopo adottata dall’ente locale.

4.1. Per quanto riguarda il quesito sub a), il Tribunale ritiene che il Comune può dotarsi del regolamento anche prima che la Regione legiferi in subiecta materia (e, pertanto, va ritenuto infondato il motivo di ricorso in cui T.I.M. Italia afferma che il Comune non poteva adottare il Regolamento impugnato in assenza di una previa legge regionale) e ciò per varie ragioni:

Naturalmente, laddove la Regione legiferi successivamente all’entrata in vigore di un regolamento comunale, quest’ultimo dovrà eventualmente essere adeguato dal Comune interessato nelle parti che risultassero incompatibili con la normativa sopravvenuta.

Per quanto riguarda, in particolare, la Regione Puglia, occorre ricordare che, nell’esercizio del potere conferito dall’art. 8 della L. n. 36/2001, era stata adottata la L.R. 8 marzo 2002, n. 5 (Norme transitorie per la tutela dall'inquinamento elettromagnetico prodotto da sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell'intervallo di frequenza fra Ohz e 300 GHz), la quale:

- all’art. 3, comma 1, let. m) dà la definizione di “aree sensibili” (cioè le “aree per le quali le amministrazioni comunali, su regolamentazione regionale, possono prescrivere localizzazioni alternative degli impianti, in considerazione della particolare densità abitativa, della presenza di infrastrutture e/o servizi a elevata intensità d'uso, nonché dello specifico interesse storico-architettonico e paesaggistico - ambientale”);

- all’art. 10, stabilisce taluni divieti all’installazione delle SRB (più esattamente, nel primo comma è previsto il divieto di installazione direttamente su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, mentre al comma 2 si prevedeva il divieto di localizzazione dei predetti impianti in aree vincolate ai sensi del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, in aree classificate di interesse storico-architettonico, in aree di pregio storico, culturale e testimoniale e, infine, nelle fasce di rispetto degli immobili di cui al comma 1, perimetrate nel rispetto dei parametri regionali fissati dalla delibera regionale di cui all'articolo 4, comma 2).

Ebbene, con la citata sentenza n. 307/2003 della Corte Costituzionale, l’art. 10, comma 2, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo sul presupposto che “…l’ampiezza e la eterogeneità delle categorie di aree contemplate, l’indeterminatezza di alcune definizioni (come quella di aree "di pregio … testimoniale") e la assoluta discrezionalità attribuita alla Giunta nel perimetrare le fasce di rispetto relative agli immobili di cui al comma 1, fanno del divieto legislativo ….. un vincolo in grado, nella sua assolutezza, di pregiudicare l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla realizzazione delle reti di telecomunicazione, nonché lesivo, per ciò che attiene alla determinazione delle fasce di rispetto, del principio di legalità sostanziale…” (mentre la Corte ha fatti salvi sia l’art. 3, comma 1 let. m) sia l’art. 10, comma 1, che infatti è stato riversato nell’art. 11 del Regolamento comunale impugnato).

Pertanto, allo stato attuale, nella Regione Puglia è sostanzialmente assente la disciplina regionale di riferimento (essendo rimasto valido solo il criterio di localizzazione fissato – “in negativo” – dal citato art. 10, comma 1, della L.R. n. 5/2002), ma ciò – come detto – non rende ex se illegittimo il Regolamento comunale impugnato.

Né, per inciso, il Collegio ritiene che il regolamento comunale adottato ex art. 8 della L. n. 36/2001 debba essere preceduto da preventiva pubblicazione (ai fini delle eventuali osservazioni da parte degli interessati) e nemmeno sottoposto ad approvazione regionale, ai sensi della L.R. n. 56/1980, sia perché ciò non è previsto dalla legge (anche se, in futuro, le emanande disposizioni regionali potrebbero introdurre tale onere procedimentale), sia perché non si tratta di uno strumento urbanistico in senso stretto, per cui non sono applicabili analogicamente le disposizioni in tema di approvazione del PRG, sia perché la L. n. 36/2001 attribuisce ai Comuni e alle Regioni poteri diversi, esercitabili autonomamente dai predetti enti.

4.2. La risposta al quesito sub b), invece, è molto più difficoltosa e, tra l’altro, da essa dipende anche l’esito del presente giudizio e di numerosi altri, incardinati di fronte a questo TAR ed aventi anch’essi ad oggetto il regolamento adottato dal Comune di Lecce con delibera del C.C. n. 56/2004.

In questo caso, ci si muove fra gli stretti limiti posti dalle disposizioni degli artt. 4 e 8 della L. n. 36/2001 (come risultano interpretati nelle summenzionate pronunce della Corte Costituzionale n. 307 e n. 331 del 2003) e da quelle specifiche poste dal D. Lgs. n. 259/2003 in materia di procedimenti autorizzativi.

   Dalla giurisprudenza richiamata in precedenza, emerge che:

   Il Collegio condivide tali assunti.

Se infatti l’art. 8, comma 6, della L. n. 36/2001 contempla il potere dei Comuni di adottare un regolamento che disciplini il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e assicuri la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, non è logico e corretto ritenere che tale minimizzazione possa ottenersi con l’invasione del campo riservato allo Stato, sicché la popolazione di un comune viene salvaguardata, sotto il profilo della tutela della salute, più della popolazione di un altro comune.

L’interpretazione sistematica delle norme che delineano i poteri dello Stato e degli enti locali in subiecta materia porta a ritenere che la tutela della salute, sotto il profilo della determinazione dei valori di campo (limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità) spetta allo Stato, mentre ai Comuni spetta non già il potere di invadere la predetta sfera (fissando diversi valori di campo o misure che indirettamente portino a valori di campo inferiori), ma quello di disciplinare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, in modo da giungere anche alla minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici. La ragione dell’attribuzione del potere in questione ai Comuni non è ravvisabile nella pluralizzazione degli interventi a tutela della salute, con conseguente frammentazione di un potere che invece è ricondotto nella sua unità allo Stato, ma nel riconoscimento della immediatezza del rapporto che sussiste fra Comune e comunità locale, e quindi dell’idoneità del Comune a soddisfare al meglio le esigenze di quella comunità, in ragione delle peculiarità dell’ambiente (art. 118 Cost.) e in particolare dell’esigenza di perseguire la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, attraverso la disciplina del corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti in argomento.

Per cui, la via maestra da percorrere da parte dei Comuni non può che essere quella dell’approfondimento tecnico-scientifico, in funzione non già della determinazione di valori di campo diversi da quelli stabiliti dalla normativa statale e di misure che surrettiziamente afferiscono ai valori di campo, ma sempre della disciplina del corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, in funzione dell’obiettivo della minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici.

Si tratta, in sostanza, di applicare anche a questa materia i principi che la giurisprudenza ha elaborato a proposito dei regolamenti di cui all’ultimo periodo dell’art. 873 c.c. (i quali, introducendo limiti più stringenti per l’esercizio del diritto di proprietà rispetto alle disposizioni civilistiche, in tanto sono ritenuti legittimi, in quanto contengono disposizioni razionali) o degli strumenti urbanistici (i quali, limitando il contenuto del diritto di proprietà – operando quindi in un settore oggetto di riserva relativa di legge, ai sensi dell’art. 42 Cost. e non trovando in alcuna disposizione di legge gli indirizzi informatori – trovano la giustificazione del proprio essere nella obiettività e razionalità della disciplina dettata);

Peraltro, prima di dare conto delle ragioni che hanno indotto il Tribunale ad accogliere la domanda impugnatoria proposta da T.I.M. Italia, è opportuno esaminare le disposizioni del Regolamento oggetto di specifiche censure (non senza evidenziare che è l’intera filosofia del Regolamento a non essere condivisa dalla ricorrente).

L’art. 9 (rubricato “Macrolocalizzazione territoriale”) suddivide il territorio comunale in quattro tipi di aree (che dovranno essere poi materialmente identificate dall’emanando Piano di macrolocalizzazione, non ancora approvato dal Consiglio Comunale, nonostante il Regolamento ne avesse imposto l’adozione entro il 30 novembre 2004):

L’art. 10, invece, (rubricato “Criteri per la localizzazione degli impianti”) impone i seguenti criteri localizzativi:

Tornando ora all’esame della controversia, con l’ordinanza n. 401/2005, il Tribunale ha disposto istruttoria al fine di acquisire la documentazione relativa agli accertamenti tecnici in base ai quali il Comune ha adottato il regolamento sulle antenne, e ciò allo scopo di verificare se l’atto normativo sia sorretto da un’adeguata base cognitiva oppure se lo stesso (come sostiene la ricorrente) sia privo di convincenti supporti motivazionali.

In esecuzione dell’ordinanza istruttoria, il dirigente competente ha depositato una dettagliata relazione, a cui sono allegati documenti in parte ininfluenti (ci si riferisce ai verbali delle sedute delle Commissioni consiliari competenti, in cui sono stati commentati ed approvati i vari articoli del regolamento, e ciò a riprova del fatto che il Comune avrebbe compiuto una dettagliata disamina del problema), in parte insufficienti (ci si riferisce alle risultanze di uno studio americano, di epoca non precisata, teso a dimostrare gli effetti biologici delle radiofrequenze, espressi in termini di rateo di assorbimento specifico – c.d. SAR) e in parte inconferenti (ci si riferisce al documento congiunto ISS/ISPESL, risalente al 1997). Infatti, mentre non ha nessuna rilevanza il procedimento che ha portato all’adozione del Regolamento impugnato (il quale sarà stato anche discusso approfonditamente in Consiglio Comunale - il che è scontato, data l’importanza del problema - ma ciò che interessa nel presente giudizio è il substrato istruttorio su cui poggia l’atto), per quanto riguarda gli altri due documenti si osserva che essi sono incentrati esclusivamente sulla definizione degli obiettivi di qualità, espressi in termini di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, tanto è vero che il documento ISS/ISPESL conclude affermando che i limiti di campo ottimali sono pari, rispettivamente, a 6 V/m (per le esposizioni globali croniche della popolazione) e a 3 V/m (per le esposizioni globali croniche della popolazione, in presenza di radiofrequenze modulate in ampiezza); pertanto, tali documenti attengono ad aspetti del problema che sono pacificamente di competenza statale esclusiva (tanto che i citati valori sono stati presi a riferimento sia dal D.M. n. 381/1998 che dal DPCM 8 luglio 2003). In ogni caso, se l’Amministrazione si è fondata solo sulla summenzionata documentazione scientifica, è evidente che il Comune di Lecce è incorso in un evidente difetto di istruttoria, visto che esiste una cospicua letteratura scientifica di segno opposto o che, al limite, si esprime in maniera dubitativa (si possono citare, ad esempio, alcuni studi americani risalenti al biennio 2000/2001 – fra cui, per tutti, quello di J. E. Muscat e altri, Handheld Cellular Telephone Use and Risk of Brain Cancer – che escludono qualsiasi evidenza statistica fra uso del telefono cellulare e sopravvenienza del cancro al cervello). Ma in ogni caso, come detto, gli aspetti relativi ai limiti di emissioni tollerabili dall’organismo umano sono stati affrontati dalla legislazione nazionale, per cui non sono questi i presupposti che il Comune poteva porre a base esclusiva del regolamento impugnato.

In realtà, l’Amministrazione ha equivocato anche sul significato processuale dell’istruttoria disposta dal TAR, ritenendo di poter assolvere all’onus probandi mediante il deposito di una relazione in buona parte autoreferenziale e la produzione di una scarna documentazione a supporto della relazione stessa. Seppure è indubitabile che in sede procedimentale, pur con i temperamenti introdotti dalla L. n. 241/1990 e s.m.i. e dalle varie leggi speciali che disciplinano i singoli procedimenti amministrativi, la P.A. dispone in modo pressoché esclusivo della res controversa (nel senso che è l’Amministrazione a condurre il procedimento e ad accertare ed attestare gli elementi di fatto ritenuti utili ai fini della decisione finale, fatti salvi, si ripete, i diritti di partecipazione dei cittadini interessati), nel processo questa posizione privilegiata viene meno, in presenza di contestazioni che il ricorrente avanza circa la correttezza del procedimento seguito dalla P.A. Fra i possibili vizi da cui può essere affetto un procedimento amministrativo ci sono anche il difetto di istruttoria, inteso come mancata acquisizione e valutazione di tutti gli elementi di fatto rilevanti, e la mancata comparazione degli interessi toccati dal provvedimento finale, ed entrambi questi vizi di legittimità sono stati dedotti dalla ricorrente.

Ed è proprio al fine di verificare la fondatezza delle predette censure che il Tribunale ha disposto l’istruttoria, non condividendo invece (come detto) le doglianze con le quali la T.I.M. Italia ha inteso censurare in radice il potere regolamentare che la L. n. 36/2001 indubbiamente riconosce alle amministrazioni comunali e che il Comune di Lecce ha inteso esercitare con la deliberazione del C.C. n. 56/2004.

Ebbene, rispetto a tali punti salienti del problema, il Comune intimato non è stato in grado di chiarire in base a quali validi elementi e in base a quali valutazioni dei vari studi scientifici (compresi quelli di segno opposto agli studi citati nella relazione dirigenziale depositata in giudizio) ha adottato il regolamento e di dimostrare di aver effettuato il bilanciamento degli interessi coinvolti nel procedimento (che, nel caso di specie, sono quelli della tutela della salute umana, dello sviluppo di impianti ritenuti indispensabili per il progresso tecnico ed economico del Paese - Corte Cost., citata sentenza n. 307/2003 – e dell’armonico assetto del territorio), essendosi perlopiù limitato ad affermare genericamente l’esistenza del potere di disciplinare l’installazione degli impianti in argomento (potere che il Tribunale, come detto, ritiene indubbiamente esistente), a ribadire le finalità o gli obiettivi di fondo dell’intervento normativo e a richiamare la summenzionata (e scarna) letteratura scientifica.

Esaminando la relazione del dirigente comunale responsabile del Settore depositata in giudizio in data 26 maggio 2005, il Collegio osserva che:

In questo senso, quindi, è mancata del tutto la valutazione di quello che si potrebbe definire (mutuando un’espressione del diritto comunitario) l’”effetto utile” del regolamento, ossia una valutazione seria delle conseguenze finali pratiche derivanti dall’applicazione dei citati criteri di localizzazione delle SRB: è evidente, infatti, che alla luce delle competenze comunali, per come sono state enucleate dalla Corte Costituzionale, è illegittimo un regolamento che vieti in maniera pressoché generalizzata l’installazione delle SRB, mentre il regolamento comunale leccese finisce per attingere proprio questo risultato;

Queste disposizioni, quindi, non fanno altro che aumentare le aree del territorio in cui non è possibile installare le SRB (anche se, a questo proposito, non è decisivo il richiamo che la ricorrente fa all’art. 86 del D. Lgs. n. 259/2003 – nella parte in cui equipara le SRB alle opere di urbanizzazione primaria – sia perché nel caso di specie non viene in evidenza un contrasto fra l’intervento lato sensu edilizio che dovrà realizzare T.I.M. Italia e le zonizzazioni del PRG leccese, sia perché anche le opere di urbanizzazione primaria debbono armonizzarsi con l’ambiente preesistente), con conseguente compromissione degli interessi degli operatori della telefonia mobile e del servizio pubblico da essi erogato (questo è un ulteriore elemento da cui si desume la mancata comparazione dei vari interessi contrapposti, che pure il Comune doveva compiere prima di adottare il regolamento);

 

Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese fra le parti costituite.  

Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 9 della L. 21/7/2000, n. 205. 

P.Q.M. 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Seconda Sezione di Lecce – in parte dichiara improcedibile e in parte accoglie il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, in Camera di Consiglio, il 1° giugno 2005 e il 23 giugno 2005. 

Dott. Antonio Cavallari - Presidente 

Dott. Tommaso Capitanio - Estensore 
 

Pubblicata il 2 luglio 2005 

N.R.G.  «2127/2004»